di Franco Pezzini

Luigi Buson, Rebus, pp. 306, € 20, Delmiglio, Colognola ai Colli VR 2024

 

Il nome della Santa di Volvera, nove lettere.

 

La piccola editoria offre talora spazio a gioielli inattesi, che non troverebbero facilmente attenzioni presso i grandi marchi; e a voci che non si collocano in un mondo organico di scrittori. Tanto più se una scrittura conduce lontano dalle formule e dagli scenari commercialmente battuti, esplorando trame, dimensioni, tipi d’approccio inusuali. È tale il caso, mi pare, della sorpresa di questo volume, griffato dal Premio Baskerville 2024. E per avvicinarlo correttamente richiede alcune precisazioni.

La cornice è, a banalizzarne la trama, quella di un poliziesco: un omicidio perpetrato nell’ospizio Bertini-Dondi, rilettura rivista e corretta dell’istituto noto a Torino – dove l’autore vive – come i Poveri vecchi. L’assassinio di Mariuccia Michelini, un’addetta alla cucina, si giustificherà in un contesto – che qui non si spoilera – assai più complesso di quanto inizialmente prevedibile, tra giochi d’interesse, profitti estorti da piccoli mentecatti, mene di malavita. L’autore costruisce molto bene tale impalcatura sottostante, in modo realistico, originale e senza forzature da dilettanti del giallo, ma – diciamolo subito – non è questo che offre senso al libro. Tutt’al più un incentivo editoriale per un pubblico che di poliziesco ha sete, in un’Italia dove un po’ di giallo non si nega a nessuno, e che digerisce con discutibile successo testi di rara povertà narrativa: nulla in comune con questo romanzo intelligente e colto, e con la vivacità e la cura del suo stile.

 

“Signor Salento, cosa è successo?”. Santa indica la fronte.

“Sono sbandato con il girevole”. Sembra l’intervista post gara a Verstappen.

 

Ma c’è un secondo equivoco che ha senso smantellare per chi legga frettolosamente la trama. Come Santa, o Samantha Carici, la giovane neodirettrice nominata al Bertini-Dondi, che sulle spalle ha una vita non facile (due anni di lotta contro un brutto tumore infine superato, un profilo solitario che pare tendere all’anaffettività) e in questa avventura troverà in qualche modo se stessa, anche noi dobbiamo entrare nelle dinamiche dell’ospizio: una sorta di Antologia di Spoon River di morti sociali tra l’umanissimo e il grottesco, “che diventa teatro dell’assurda tragicommedia recitata da attori sempre pencolanti tra dignità e abiezione, demenza e magiche intuizioni, sfascio corporale e allucinata ribellione al destino comune” (così la presentazione del volume). Rituali che sconfinano nella compulsione e fisime, tenerezza e scatologia, che impastano un po’ tutto: dal lavoro amministrativo a quello coi degenti, dalle azioni di volontari e brave persone – pur ci sono – al catechismo ben poco formale di alcuni preti, il quadro non è banalmente tranquillizzante né improntato a commozioni dolciastre. La caratteristica dell’autore è di affondare nella spiacevolezza dei pannoloni pieni e nella surrealtà straniante dei dialoghi ogni facile “vogliamoci bene”, riuscendo a intercettare quelle scintille di umanità che emergono in situazioni del genere: e può farlo perché testimonia con ironia e lucidità fatti visti e toccati durante la sua lunga esperienza di volontario ai Poveri vecchi (niente di costruito per maniera), e ruminati al filtro di eventi e riflessioni personalissime successive.

Il che appunto smantella il secondo equivoco: come questo testo non è in prima battuta un romanzo giallo, così non è banalmente una storia di buoni sentimenti. Di quelle non abbiamo bisogno, ed è sano che ne proviamo allergia: ma qui, dove un’ironia sorniona e commenti a volte esilaranti tengono per mano con umanità bonaria una miseria che interpella tutti, vediamo cosa stia dietro i paraventi di un’età, di una malattia, di miserie in gran parte anche sociali ed economiche. Dove il singolo, dignitoso, tragico caso della novantaseienne Donna Malfalda d’Ambroise, almeno lei con qualche bel ricordo della vita prima della deriva dell’istituto, si confronta a grandi numeri con le miserie dei dimenticati, degli accantonati da figli (vigliacc, come dice il vecchio Salento, tutt vigliacc) e amici, dei rimossi. E opportuno risulta l’incipit di Eduardo, “Ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente”.

 

La soluzione, nel prossimo numero.

 

No, lo specifico di questo romanzo non è la natura poliziesca e nemmeno la storia buonistica. Ed è offerto semmai da un dato di fondamentale rilevanza, la voce dell’autore – voce che è protagonista, forse, più ancora che Santa: capace di incastrare con un equilibrio da narratore navigato malinconia e comicità fulminante, partecipazione (toccante, ammirata, desolata…) e grottesco ai limiti dell’onirico. Si è usato il verbo incastrare perché è il più congruo al rebus del titolo: non solo oggetto di appassionate frequentazioni del geniale ricoverato ingegner Bertanini, ma metafora congrua a una storia dove gli incastri anzitutto esistenziali (il comico, il tragico…) sembrano incolonnati così, tra le caselle nere di una Settimana enigmistica cosmica. Una metafora congrua alla storia, e anche forse alla vita.