di Luca Baiada

Liduino lo incontrai nel 2013 in un circolo di paese. Eravamo a un passo dalla palude. Sto parlando della palude interna più grande d’Italia. È in Valdinievole, dove abitava Tofanelli. È il Padule di Fucecchio, perché in Toscana la lingua non l’hanno imparata, l’hanno fatta, sicché la palude è il padule, come la luce si spenge e gli scritti si interpetrano, che poi le persone ammodo la chiamano metatesi. Però metatesi è una parola che uno di quei padulini, uno come il Betti, per dire, non l’avrebbe usata, lui con quella voce e le mani di scaglie di tartaruga.

In quel tempo volevo farmi dire dal Faina una ballata, una ballata popolare vecchia, ma vecchia è dire poco; antica, via. Una ballata sull’eccidio del Padule di Fucecchio, fatto dai tedeschi e dai fascisti il 23 agosto 1944, pochi giorni prima che la Valdinievole fosse liberata.

Questa ballata che volevo dal Faina non ha un titolo, anzi ce l’ha nel senso che gliel’hanno messo, ma dopo: Popolo se m’ascolti, che sono le prime parole. L’autore l’ho cercato, voglio dire ho provato a individuarlo, dev’essere morto da un pezzo. Certe volte sono arrivato a un passo da lui, ma poi, sarà che non volesse farsi trovare, non mi è riuscito. Era un barrocciaio, cioè un carrettiere. Un po’, l’autore doveva essere anche il popolo che ascoltava, il popolo che sentiva le varie versioni e interveniva per correggere, cambiare. Ma questo barrocciaio, niente. Però c’era lui, ancora vivo, lui che la ballata la sapeva perché l’aveva sentita dal barrocciaio, subito dopo la guerra, e l’aveva mandata a memoria. Lui l’aveva salvata.

Sì, ma avete capito lui chi? Il Faina oppure Liduino, o magari il Tofanelli. O invece il Betti? Io impiegai un po’, a capire, perché se non sei proprio di quelle parti, duri fatica. Liduino e Tofanelli e Faina e Betti erano la stessa persona, ma chiamata così a seconda. Dagli amici, dall’anagrafe, dalla fama. Perché Liduino Tofanelli era un Faina, cioè un discendente di una famiglia dove fanno Tofanelli di cognome ma sono soprannominati tutti insieme Faini, e uno per uno Faina, da non si sa quanto tempo, e chissà perché, e se lo domandi in giro sorridono e si guardano come a dire: questo è cittadino.

Ma Liduino aveva anche un soprannome suo: Betti, come un famoso cacciatore, che a parlarne si farebbe notte, perché cacciava tanto tempo fa e conobbe anche gente venuta da fuori. Gente ricca che per un po’ si mischiava ai poveri, si immergeva in qualcosa di speciale, fra vita brada e scherzi grassocci, come quella scritta con cui Renato Fucini, nel Padule, immortalò un altro cacciatore, Pinciano, uno famoso come Betti o come Bandino, sul muro della sua casa: «Questa è la reggia di Pinciano il grande, / che senza la beccaccia fa i crostini / grattandosi la merda alle mutande».

Dicevo della ballata. Quella ballata il Faina me la dovette ripetere e ripetere, perché mi colpì talmente che tornai bambino. Diventai come quando vuoi sentire una cosa cento volte anche se sai già come va a finire. Poi, per una diecina d’anni, ogni 23 agosto ho scritto qualcosa per quei poveri morti, quei 174 assassinati, e ho messo sempre come titolo un verso della ballata misteriosa, e senza il permesso del barrocciaio. Ma non si è fatto vivo neanche così.

Io non so portare il barroccio. Io ho portato il barchino, l’altro mezzo di spostamento nel Padule, che bisogna pingere con la forcola nel fondo, e vai dal cannellaio al chiaro, e torni, e così si entra in un mondo incantato. Ma ecco, sto divagando perché non mi riesce di venire al dunque.

Per farla breve. Adesso volevo comporla io, una ballata, ma come quella del barrocciaio non la sapevo fare. Io l’ho fatta così, perché ogni cosa ha il suo tempo e adesso va il rap e poi c’è il loop, e questa è la ballata Padurap paduloop, che si può dire a cantilena, a rap, su una base ritmata, magari giocando con le mani su un vinile che gira. Oppure cliccando un file audio, per esempio questo:

Ci vorrebbe anche della gente che fa hip-hop. Gente di oggi, magari gente di città che non ha mai visto neanche le galline, o le vede solo a pezzi, in scatola, quando le porta cotte, chilometri e chilometri in bicicletta, a casa di chi non le sa cucinare. Perché tanto, in Toscana, di finti contadini e finte damigelle e finti cavalieri, ne abbiamo pieni i quadretti pubblicitari e anche i coglioni.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La sai la storia atroce, ascolta questa voce,

sono nomi lontani, sono caduti umani.

Conosci questi nomi, conosci questi luoghi:

Sant’Anna di Stazzema, Cavriglia, Marzabotto.

Ma un’altra storia antica, questa storia nemica,

non l’hai sentita mai, non sai che cosa sia.

E se l’ascolterai, non dimenticherai,

dirai «questo mi tocca», dirai «è storia mia».

È una palude grande, fra le montagne e l’Arno,

gente di ceppo forte, di dignità operosa.

È una terra di mezzo, c’è nato Leonardo,

e puoi trovarci il popolo, la vita laboriosa.

Ti dicono Cerreto, Fucecchio, Monsummano,

e poi Larciano e Ponte, parole che non sai,

ma tu dì «caro sangue», ma tu dì «cuore umano».

È un’ala, la memoria, e adesso volerai.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

È il 23 d’agosto, è nel quarantaquattro,

e l’Italia è divisa, e l’Arno fa il confine;

una strage terribile, centosettantaquattro,

pane zuppo di lacrime, dolore senza fine.

Sconfitti, quei tedeschi, grande è la loro rabbia,

uccidono, violentano, rubano gli animali,

e questa terra freme, e questa terra è in gabbia,

ma i partigiani lottano, nei boschi e fra i canali.

Dall’alba al pomeriggio, sono ore di massacro,

insiste la mitraglia, brulicano soldati.

Muoiono donne, bimbi, tra spari e fumo acre,

pastori, contadini e poveri sfollati.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Sulle aie, nelle case, arrivano col fuoco,

hanno mitragliatrici e portano l’elmetto.

Sono curiosi, i bimbi: credono che sia un gioco,

pensano a foto in gruppo, fatte col cavalletto.

«Ho tanta tete, tete!», fa Graziella ferita,

e muore in braccio a un’altra che è grande poco più.

E i fichi dell’estate, che sono pane e vita,

dal pancino di Pietro escono rossi giù.

E duro è questo canto, e puro è il loro pianto,

braccianti con le spose, lattanti nel grembiule.

La vecchia e la più piccola cadono quasi accanto,

piccine tutte e due, pulcine del Padule.

Carmela è cieca e sorda, chiama i parenti invano:

non sa che li hanno uccisi, tutta la sua famiglia.

Nella sua tasca un milite mette una bomba a mano:

Carmela ha novant’anni, non resta che poltiglia.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Remo è preso con gli altri, con Maggino il pastore,

li portano sull’argine, per i tedeschi è un gioco:

spinti nel fosso asciutto, gridano di terrore,

adesso sono in trappola, e quelli fanno fuoco.

Ha un capanno sicuro, il dolce Ferdinando,

ma ha promesso alla Ida che sola non starà.

La va a trovare trepido, s’affretta camminando,

e Ida aspetta, aspetta. Lui non arriverà.

Gente portata via, vecchi portati via,

li strappano dai letti, li strappano dai petti.

Antonio vede il sangue, ripete «mamma bua»,

gli spaccano la testa, solo silenzio resta.

Il marito di Angiola si chiama come lei.

Angiola vuole Angiolo, corre verso il canneto.

Corre anche il figlio Dario, non si vedranno mai:

si sente ta-ta-ta, restano in tre sul prato.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

Vede i tedeschi, Lia, esce dal casolare.

Lando è fuori nascosto, e lei è la sua sposa:

vuole dirgli il pericolo, fa finta di falciare,

e muore al posto suo, cerbiatta generosa.

Sono forti, le donne, come mamma Maria:

la figlia Italia sanguina, la palude è assediata,

Maria la mette in barca e rema e rema via;

ma i tedeschi le fermano, e Italia è dissanguata.

Perciò, se trovi un fascio, e dice «Cristo» e «fede»,

tu mettilo alla prova, se quello fa il patriota:

digli che Italia è morta, ma c’è Maria che vede;

è una Passione povera, e lui è un povero idiota.

Marisa solo tredici, e ventun anni Anita:

e se davvero hai un cuore, aprilo con coraggio.

Una ha le cosce in pezzi, l’altra è stata svestita,

sono morte, e ora sai, qual’è l’ultimo oltraggio.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.

 

Dopo, vedovi e vedove, e orfani disperati,

notti di pietra, incubi, e giorni di sudore.

Fanno due ombre in terra, tutti i sopravvissuti,

lacrimano anche dentro, affamati d’amore.

Il tempo non ha tempo, il sangue è un lago nero:

i figli sono padri, le bimbe sono spose.

Nel fondo del dolore lo specchio è più sincero,

ci guardi la tua faccia, e parlano le cose.

L’innocenza è una trappola. Dici «sono innocente»,

ma la storia cammina. Tu non hai fatto il male,

però se contro il male tu non hai fatto niente,

il male è dietro l’angolo e ti verrà a cercare.

 

Non basta ricordare, non basta ricordare,

se la parola inciampa, bisogna camminare.

 

La vita da scampati è vita di assediati,

tremano ai temporali, o al volo di un moscone;

hanno la mano stanca, hanno la testa bianca,

sono cuccioli antichi, col cuore di leone.

Quando la loro voce sarà nella tua bocca

tu parlerai per loro, dirai senza paura.

Ricorda questa storia, è storia che ti tocca,

quello che fai è te, nessuno te lo ruba.

Quando racconterai, se ti daranno ascolto,

chiederanno il perché, diranno «non c’è scelta».

Tu racconta, ripeti: è un mostro senza volto

la colpa immaginaria che uccide un’altra volta.

Diranno «colpa loro, colpa dei partigiani»,

tu non gli dare ascolto, tu spezza le catene.

Ripeti con i piedi, ripeti con le mani,

ripeti con la voce se hai sangue nelle vene.

 

Popolo se m’ascolti ti spiego la tragedia,

del 23 d’agosto l’orribile commedia.