di Franco Pezzini

Cristiano Demicheli, L’anno delle volpi. Un armanàcco da Val Lemûria, pp. 331, € 16,90, Hypnos, Milano 2022.

“Tutto finiva e scorreva via.

Solo il provincialismo era eterno”.

Trovandomi davanti a questo romanzo, edito in realtà da un paio d’anni – tra l’altro con elegante cura grafica (di Ivo Torello), la copertina rossa con due volpi danzanti è bellissima – per i tipi di un editore specializzato in letteratura fantastica, non sapevo bene cosa aspettarmi: ma me n’erano giunti elogi da amici che stimo, e dunque meritava di essere avvicinato. Partiamo da una considerazione: si tratta di un libro costruito sulla base di un’idea brillante, ma che in altre mani si sarebbe convertito in un gentile omaggio da ottuagenari o madamine a un mondo passato, con un po’ di blanda, insipida ironia sulla fantasia dei piccoli centri di provincia e qualche venatura di tedio. Invece il risultato, grazie al piglio – autenticamente letterario, ed efficace sia per costruzione che per stile – di Demicheli, è ben diverso: la storia, condita di cultura genuina (che inventa, pázzia, affabula con una lievità incantevole) sa conciliare l’esilarante e il malinconico, il riflessivo e il malizioso con un equilibrio raro. E terminato L’anno, rimpiangiamo che non ne segua subito un altro.

E il fantastico? c’è, non si tema: non solo attraverso richiami fantasmagorici e giocosi a zoologia (il pappagufo, il chimello che è sempre cinque minuti avanti sull’osservatore, il gigantesco verme del racconto di sciô Manoælo, l’elusivo…) e botanica (l’antoninn-a propiziatrice di fecondità, lo spexülin dalle proprietà medicamentose, il fenóggio gràmmo forse identificabile con l’aneto…), affrontate dall’autore con piglio enciclopedico sornione alla Borges, ma nei richiami a un sovrannaturale diffuso, per quanto confinato in racconti, paure e chiacchiere. Di qui paradossi onirici, spettri, demoni come i Desconténti pagani, e poi doppi, inonbràj/umbratili e creature altre di tutto un folk horror – o orrore popolare, visto che l’ambientazione è italiana – surreale e onirico, ai margini degli eventi principali come per antica tradizione sono i mostri: figure spesso bizzarre come l’entità che possiede lo specchio del bagno, il lungo braccio grigio che infesterebbe la camera 4 dell’albergo o i fantasmi dei mugnai Caniggia, uno buono e uno cattivo, ma difficili da distinguere; o talora inquietanti come i negromanti Serpiero capaci di fare “il pellegrinaggio alla rovescia alla città chiamata Corazin” (cfr. qui) o le presenze emerse o perdute oltre le lugubri Porte Migre.

Suggestivo il set, una ipotetica Val Lemuria (dai lemuri spettrali della fede latina, non la Lemuria dei continenti perduti) a cui l’autore ha già dedicato la raccolta Cronache dalla Val Lemuria (Hypnos, 2019): un’area aspra tra le montagne liminale a ogni più determinata nozione geografica, approssimativamente tra Genova – dove Demicheli è nato – e l’Alessandrino. In questo caso, poi, tutto muove attorno al bar-ristorante dell’Albergo moderno di Tolengo, il paese cuore dell’area, e a sua volta perno del volgere della ruota dell’anno – ecco l’almanacco, anzi armanàcco – , scandito mese per mese con eventi, riti, ricette e specificità locali (comprese surreali unità di misura, come il conzo lemuriano, e fortunatissimi giochi tradizionali come la buscagìnn-a), tra neve o solleone, echi di antiche cronache o gossip dell’ultim’ora. Con una differenza: quell’anno – preavverte il vecchio Esmeraldo, l’affabulatore del paese nonché “grandissimo bugiardo” – non è come gli altri, è un ànno da vorpi, da volpi, come se ne verificano ogni cinquanta, con la loro danza scatenata sulle colline. Cioè “un anno fatto per quelli che hanno gli zampini bianchi e le orecchie a punta […] Un anno di miracoli e prodigi”.

Deliziosi i personaggi, a partire dal terzetto attorno al quale tutto ruota: Cap, il bonario proprietario dell’Albergo, il saturnino Bastiano e il vitalistico, furfantesco Zangrandi. Intorno a loro, una piccola folla di caratteristi da (si passi la similitudine) film di Pupi Avati, ciascuno con fisime e chiodi fissi: l’energica Jolanda moglie di Cap, grande cuoca e presunta strega, il figlio Nino e l’aiutante Lella; il burbero parroco don Olindo cultore di storia locale e la sua nemesi anticlericale e illuminista, il professor Molinari; il nuovo medico, la piacente Giuliana Boero che spezzerà qualche cuore, il vecchio Esmeraldo e la sorella Eliana reduce dal tipico “divorzio alla lemuriana” (il marito violento aveva scambiato accidentalmente la candeggina per grappa); lo spiacevole autodemolitore Bellesecche, l’azzimato orologiaio Casaverde repertoriatore di pettegolezzi, il coltivatore Gianni Firpo che fa crescere il basilico a suo di bestemmie… e tanti altri.

E poi la lingua, la voce: pur narrato in ottimo italiano, il romanzo apre da un lato a un vocabolario enciclopedico impregnato di ironia ed echi dialettali (compreso il richiamo a una terminologia locale dove brilla la locuzione polisenso stricciare i marsini), e dall’altro offre una voce autorale propria, delicata e forte, beffarda e saggia, ben riconoscibile dalla prima all’ultima pagina.

Terminata la lettura, ci domandiamo se sia vero quanto Esmeraldo ha prefigurato sull’ànno da vorpi, e forse sì: si tratta di intendere il senso, insieme straordinario e feriale, di quei “miracoli e prodigi” di cui è scandita come un almanacco tutta la nostra vita. Amori – sgangherati o fortunati, almeno in prima battuta – e scomparse, avventure di vario genere, e poi un bonario vivere il proprio tempo tra partite di buscagìnn-a e bicchierini, ipotesi esistenziali, sogni.

Ma forse, detta così dal recensore, suona pedante. “In verità le volpi danzavano perché danzare è ciò che fanno le volpi, in certe notti di certi anni, su quelle colline”.