di Sandro Moiso

Nel profluvio di complimenti istituzionali e premi pomposi per i soliti film italiani buonisti e privi di qualsiasi spigolosità e ruvidezza, come quelli recenti di Paola Cortellesi e Edoardo De Angelis, gran parte del pubblico cinematografico si sarà sicuramente perso un buon film di un regista italiano, pur premiato all’ultima edizione del festival del cinema di Cannes.

Si tratta di I dannati di Roberto Minervini, che ha vinto il premio ex aequo per la migliore regia nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2024. Un film duro, spoglio, secco e spietato; che non ha bisogno di effetti speciali ed eroismi di qualsiasi specie per parlare della guerra e della sua unica, intrinseca e definitiva finalità: trasformare i vivi in morti. Prima nella coscienza e poi anche dal punto di vista della nuda carne.

Minervini è un regista e sceneggiatore italiano nato a Fermo nel 1970 che, fin dai primi anni duemila, vive e lavora tra Italia e Stati Uniti, soprattutto come documentarista. Le sue opere sono, quasi tutte, a metà strada tra documentario e fiction, senza mai entrare nella sfera dei docudrama basati su eventi reali. Il suo film Stop the Pounding Heart ha fatto parte della Selezione ufficiale del Festival di Cannes del 2013 e ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il David di Donatello come miglior documentario nel 2014. Il film precedente, Bassa marea (Low Tide) era stato presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2012 e insignito del premio Ambassador of Hope. Mentre il film Louisiana (The Other Side) è stato selezionato per la sezione Un Certain Regard al Festival del cinema di Cannes del 2015. Ed è forse quest’ultimo ad anticipare, in qualche modo, lo sguardo sulla violenza e l’America da cui occore partire per comprendere anche l’ultimo film ambientato durante la Guerra civile americana del XIX secolo.

Louisiana pone al suo centro la vita di un personaggio che si autodefinisce criminale e tossicomane, inserito in un ambiente di emarginazione che contrasta con la bellezza del paesaggio e la natura intorno al corso del fiume Mississippi. Natura e bellezza che non toccano la vita di sofferenza della sua famiglia allargata composta da minorenni dediti, come la sua donna, all’uso di stupefacenti, dalla madre malata di cancro e da un nonna disperatamente attaccata alla vita.

Le uniche prospettive del protagonista sembrano essere costituite dalla prossima morte della madre e dal fatto che dovrà scontare tre mesi di carcere che gli dovrebbero consentire di disintossicarsi. Gli altri personaggi che si aggirano intorno a lui come fantasmi sono reduci del Vietnam alcolizzati e obnubilati dalla retorica americana, nella speranza che qualcosa possa ancora cambiare nelle loro vite tossiche. Ciò che unisce tutti è il profondo disprezzo nei confronti di Obama, così nell’ultima parte del film la scena si sposta su altri personaggi che armati fino ai denti si preparano (idealmente) a sconfiggerne la “dittatura”.

Il film si conclude con l’immagine di un’auto, su cui campeggia su una fiancata una scritta irriguardosa nei confronti di Obama, distrutta dal fuoco delle armi e dai successivi colpi dei miliziani impegnati a difendere, nella loro visione del mondo, la libertà di possedere armi e di usarle per difendere le loro famiglie, mentre il tutto sfuma in un melanconico tramonto.

Natura selvaggia, violenza, vite inutili, ideali vaghi e confusi sono gli stessi elementi alla base della trama di I dannati. Un ottimo esempio di film antimilitarista che, a differenza di molti altri, non si sofferma mai su alcun momento epico o commovente della guerra, sottolineandone piuttosto la noia dei gesti e della quotidianità cui si contrappone soltanto la sorpresa di una morte tanto improvvisa quanto crudele.

Unici modi per sfuggirla rimangono la fuga e la diserzione, per chi riesce, oppure il tradimento: per esempio non lanciare l’allarme per l’arrivo degli scorridori nemici pur di provare a salvare la pelle, anche se questo costerà la vita di tutti gli altri membri del distaccampamento. Una guerra fatta di nemici invisibili, di egoismi individuali e piccini, di fede fasulla e paura (tanta).
Un film che sembra rinviare a quello bellissimo di Ermanno Olmi, Torneranno i prati (2014), tratto da un magnifico racconto di Federico De Roberto, La paura (1921).

La natura circostante primeggia sulle ansie, le paure e le guerre degli uomini ed è racchiuso proprio lì il senso della scena finale, esattamente come nel precedente Louisiana; mentre l’ambientazione americana è sicuramente dovuta non solo al fatto che da anni Minervini si occupa di vari aspetti della rovina sociale degli Stati Uniti, ma anche a ciò che un certo antiamericanismo di maniera spesso non permette di cogliere negli aspetti importanti del paradigma americano, irrinunciabili per comprendere il “nostro mondo” e le sue barbare leggi.

Pertanto ciò che ad alcuni potrebbe apparire come moda o dipendenza non è altro che la volontà di mettere a nudo come anche una guerra considerata “giusta”, quella del Nord contro il Sud secessionista nella guerra civile americana, può essere altrettanto stupida e crudele di quelle sbagliate (Vietnam, Prima e Seconda guerra imperialista, etc.).

Così i soldati dell’Unione destinati a soccombere uno dopo l’altro, senza gloria e senza memoria, non sono altro che dannati della guerra e delle sue sempiterne infamie. Magari contornate dai sogni infantili ispirati dalle letture bibliche o da quelli di contadini che nel selvaggio territorio del Montana, dove il film è stato ambientato e girato, non vedono altro che terre buone da coltivare o per allevare cavalli.

«I Dannati nasce, cinematograficamente, dalla voglia di affrontare la finzione e di ‘riscrivere’ un genere, quello dei film di guerra, senza la solita rappresentazione muscolare, interrogandomi sul significato di parole come ‘vittoria’» – così aveva detto il regista nel presentare, a Cannes, un film che, come in tutte le guerre, non vede nessun vincitore reale tra i combattenti.

Per chi, come il sottoscritto, è stanco di retorica e demagogia di ogni colore e provenienza, il film è davvero una benedizione. Anche per le immagini estremamente belle ed efficaci nella loro nudità e apparente semplicità, frutto di una regia dal tratto stilistico essenziale e, soprattutto, ben lontana dal populismo che da sempre, in Italia, caratterizza opere come quelle cui si è fatto riferimento all’inizio.