di Marco Sommariva

“Si chiamava Satnam Singh. Aveva trentuno anni, un bel pezzo di vita davanti. Per dare dignità a quella vita, dall’India, aveva scelto di venire a vivere e lavorare in Italia tre anni fa con sua moglie. E come tanti altri suoi connazionali si era stabilito nell’Agro Pontino, nella provincia di Latina, dove vivono migliaia di altri braccianti indiani di origine sikh che lavorano per lo più con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, assicurando frutta e verdura ai mercati di mezza Italia.”, così iniziava l’articolo pubblicato il 20 giugno scorso, su AvvenireNon riesco ad andare avanti perché, subito, il cervello mi riporta ad alcune mie vecchie letture per ricordarmi che è la “solita” storia, è tutto già visto.

Il primo libro che mi viene in mente è I nomadi, una raccolta di articoli di John Steinbeck. I pezzi vengono scritti quando – nel 1936, nel pieno della Grande depressione – il San Francisco News gli commissiona una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli immigrati in California: statunitensi del Midwest colpiti dalla crisi e costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck salirà su un furgone da panettiere e inizierà il suo viaggio fra le vallate della California, dove s’imbatterà in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata.

Braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento che assicurano frutta e verdura ai mercati di mezza Italia, braccianti agricoli immigrati in California sfiniti dal lavoro schiacciati dall’economia: “I migranti sono necessari, e sono odiati. Quando arrivano in una regione, incontrano l’avversione che i residenti dispensano da sempre al forestiero, all’estraneo. L’odio per lo straniero è presente lungo tutto la storia umana, dai villaggi primitivi fino al nostro sistema agricolo industriale altamente organizzato. I migranti sono odiati per diversi motivi: sono persone sporche e ignoranti, portano malattie, richiedono una maggiore presenza delle forze dell’ordine […]. Non vengono mai accolti in una comunità o nella vita comunitaria. Vagabondi di fatto, non è mai concesso loro di sentirsi a casa dove sono richiesti i loro servizi.” Ma, come osserva Avvenire nel prosiego dell’articolo, sono fatti noti e denunciati da anni e che sono contrassegnati da da quattordici ore e più di lavoro al giorno, ma più spesso di notte, con page che si aggirano sui tre euro all’ora, meno di un terzo di quanto prevede il contratto collettivo.

Non sarà che noi “occidentali” ci stiamo garantendo la sicurezza economica annientando i diritti umani di “altri”, facendo uso di violenza? Scriveva Steinbeck nel ‘36: “Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà anche per scontato il rapido declino della democrazia in California. I metodi fascisti sono più diffusi, vengono applicati con maggior forza e più apertamente in California che in qualsiasi altra parte degli Stati Uniti.”

Nello stesso articolo di Avvenire leggo: “Satnam è arrivato all’ospedale San Camillo di Roma […] trasportato d’urgenza da un elicottero. Mentre lavorava nei campi è stato agganciato da un macchinario avvolgi-plastica a rullo trainato da un trattore, che gli ha tranciato il braccio e schiacciato le gambe. O almeno, questo hanno raccontato gli altri braccianti che erano con lui visto che i suoi datori di lavoro, alla vista della scena, se la sono data a gambe: l’hanno semplicemente caricato sul pullmino (con lui la moglie, anche lei dipendente della stessa azienda, che a bordo implorava di chiamare l’ambulanza) e riportato a casa. Lì l’hanno lasciato, col suo braccio staccato appoggiato in una cassetta per gli ortaggi, moribondo. A quel punto l’allarme dei vicini e la chiamata al 118. Un abisso di disumanità, oltre che un ritardo nei soccorsi che probabilmente gli è stato fatale: il giovane è morto stamane per via delle ferite riportate e delle emorragie.”

Anche sull’abisso di disumanità e sull’uccisione dei migranti, Steinbeck ci aveva già raccontato qualcosa: “Le grandi aziende agricole californiane sono organizzate in modo minuzioso e applicano una gestione centralizzata del lavoro come fanno le industrie e i trasporti, le banche e i servizi pubblici. […] I ranch gestiti da queste grandi aziende agricole speculative dispongono in genere di case per i lavoratori migranti, case per cui chiedono un affitto […]. Nella maggior parte dei casi non è ammesso che un lavoratore si rifiuti di pagare. Se vuole lavorare, deve vivere nella casa, e l’affitto viene scalato dalla sua prima paga. […] La volontà del proprietario del ranch è legge; i suoi sorveglianti sono sempre sul posto, con le pistole bene in vista. Il dissenso equivale alla resistenza a un pubblico ufficiale. Un’occhiata alla lista dei migranti feriti o uccisi in California a colpi di arma da fuoco, nell’arco di un solo anno, per “resistenza a pubblico ufficiale” può dare un’idea precisa della disinvoltura con cui questi “ufficiali” sparano ai lavoratori.”

Pare impossibile essere riusciti a scavare il fondo che avevamo toccato da un pezzo: prima li uccidevamo sparandogli, ora li ammazziamo più lentamente, lasciandoli davanti casa senza un braccio, sanguinanti.

Altro libro che mi è venuto in mente è Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij, un romanzo del 1866 di cui ci dice qualcosa l’autore stesso: “È il rendiconto psicologico di un delitto. Un giovane, che è stato espulso dall’Università e vive in condizioni di estrema indigenza, suggestionato, per leggerezza e instabilità di concezioni, da alcune strane idee non concrete che sono nell’aria, si è improvvisamente risolto a uscire dalla brutta situazione. Ha deciso di uccidere una vecchia che presta denaro a usura.”

È lecito chiedersi cosa c’entra un romanzo del genere con la vicenda Satnam Singh. Corretto. Mi spiego subito: primo, perché si parla di qualcuno che vive in condizioni di estrema indigenza; secondo, perché ricordavo che, fra le tante cose, in quelle pagine c’erano alcuni passaggi interessanti sull’argomento miseria, e ditemi voi se questa non c’entra nulla con l’indiano amputato e poi deceduto: “Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso.”

Ecco cos’abbiamo fatto con Satnam Singh quando l’abbiamo lasciato davanti a casa senza soccorrerlo, l’abbiamo spazzato via.

Eppure, chi succhia il sangue ai poveri non dovrebbe prendere troppo sottogamba i pericoli che corre: “Delitto? Quale delitto? […] Perché ho ucciso un pidocchio schifoso, malefico, una vecchia usuraia che non era utile a nessuno, che succhiava il sangue ai poveri, un essere la cui soppressione dovrebbe far perdonare quaranta peccati? Questo sarebbe un delitto? Non ci penso nemmeno, e non intendo affatto lavarlo. Tutti puntano il dito contro di me, e mi sento dire da ogni parte: Delitto, delitto! […] Ah! È la forma che non va, la forma non è esteticamente soddisfacente!… Be’, proprio non capisco: distruggere il prossimo con le bombe, o dopo un regolare assedio; è forse un modo più rispettabile? La preoccupazione estetica è il primo segno di debolezza! Mai, mai me ne sono reso conto prima di adesso, e men che mai capisco in che cosa consiste il mio delitto! Mai, mai sono stato più forte e più convinto di adesso!…”

Immagino, invece, quello che potrebbe essere balzato in testa a chi si è allontanato dopo aver lasciato davanti casa l’indiano senza un braccio: “A tutto finisce per abituarsi, questa carogna che è l’uomo! Oppure, Gente felice quella che non ha nulla da chiudere a chiave!”

Sperando di non mancare di rispetto a Satnam Singh e ai suoi famigliari, e continuando a pescare da Delitto e castigo pur sapendo che un prete nulla c’entra coi sikh, mi sono permesso d’immaginare l’indiano pronunciare queste parole poco prima di morire: “[…] lasciatemi almeno morire in pace […] Che cosa? Un prete?… Non serve… Avete proprio soldi da buttare via?… Non mi lascio dietro peccati, io!… Dio mi deve perdonare anche così… Lui lo sa quanto ho sofferto!… E se non mi perdona, vuol dire che non ha importanza!…”

Visto che stiamo parlando di miseria, credo non sia per nulla fuori luogo parlare di elemosina e riportare un altro estratto del romanzo di Dostoevskij: “[…] non posso approvare, per principio, la beneficenza privata, giacché non solo non elimina radicalmente il male, ma anzi lo alimenta ancor di più […].”

Anche Gandhi diceva qualcosa di simile: “Mi rifiuto di insultare il povero offrendogli dei cenci di cui non ha bisogno invece che del lavoro di cui ha un bisogno estremo.” (da L’arte di vivere)

Ma esiste ancora il povero? Jules Feiffer, scrittore e fumettista statunitense, ci fa notare questo: “Ero solito pensare di essere povero. Poi mi dissero che non ero povero, ero bisognoso. Poi mi dissero che era autodistruttivo pensare a me stesso come bisognoso, ero solo privo di mezzi. Poi mi dissero che privo di mezzi era una cattiva immagine, ero sottoprivilegiato. Poi mi dissero che sottoprivilegiato era abusato, ero svantaggiato. Non ho tuttora un centesimo. Ma di certo ho un gran bel vocabolario.” (in Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”).

Volendo, all’elenco sopra potremmo aggiungere “i meno fortunati” e chissà quant’altri giochi di parole.

Bisogna fare molta attenzione all’arma del linguaggio utilizzato da chi muove i fili di questo sistema che crea braccianti con contratti irregolari e in condizioni di gravissimo sfruttamento, sfiniti dal lavoro, schiacciati dall’economia.

E altrettanta attenzione andrebbe riservata a chi si esprime sui motivi che generano questa povertà. Solitamente il pensiero di destra ritiene la povertà un fatto individuale: chi, nella competizione sociale, resta povero è perché è pigro, incolto, ignorante, in qualche misura inferiore. Invece, come ha scritto l’amico Gianfranco Manfredi sulla rivista Zona Letteraria, monografico intitolato “La colpa di essere poveri”, “la teoria della sinistra è […] che la povertà è un fattore strutturale, cioè di sistema. Chi si trova in povertà è in tale condizione perché si trova in settori economici che non riescono ad assicurare loro guadagni adeguati. La mobilità sociale consente a queste persone di non restare eternamente confinate in questi settori, nella misura in cui riescano a spostarsi in settori più remunerativi. Tuttavia, i settori economicamente depressi restano tali, e altre persone vi cadono.” (Gianfranco Manfredi, “Breve storia del pauperismo medievale. Il movimento dei pauperes spiritu da Valdo di Lione a Francesco d’Assisi”)

Non credo di dire un’eresia se scrivo che la povertà sta aumentando proporzionalmente a quanto sta aumentando il denaro che finisce nelle mani di pochi e che, quindi, la lotta contro la povertà non può prescindere dall’intervenire sui processi che permettono l’accumulo di ricchezze sempre e soltanto nelle stesse tasche.

Ma quali sono le mani dei pochi in cui finisce il denaro? Le grandi aziende agricole citate da Steinbeck? I mercati di frutta e verdura di mezza Italia citati da Avvenire? Magari le catene di supermercati che – fresca o surgelata – vendono questa frutta e verdura? Nessun altro? E se queste mani fossero anche le nostre, di noi consumatori, che acquistiamo solo a fronte di prezzi stracciati pur potendo sborsare qualcosa di più e che, risparmiando qua e là, spendiamo quel denaro accantonato in altri generi di consumo spesso e volentieri prodotti dal miliardo circa di poveri sparsi in giro per il mondo?

Sperando l’umanità faccia la scelta giusta fra le due opzioni riportate da Tolstoj nel suo saggio Guerra e rivoluzione del 1906 – “Ora, nella situazione attuale, l’umanità ha due scelte: o aderire alla civiltà esistente che assicura la più grande quantità di felicità a una minoranza, mentre la maggioranza è lasciata nella miseria e nella schiavitù; o sacrificare una parte delle conquiste della civiltà, cioè tutte le conquiste vantaggiose per un piccolo numero di persone, e questo subito, senza procrastinare, una volta che si sarà riconosciuto che sono precisamente questi vantaggi che impediscono alla maggioranza di essere libera dalla miseria e dalla schiavitù.” – mi chiedo… non è che il povero Satnam Singh l’ho anch’io sulla coscienza?

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