Emilio Quadrelli è morto ieri, 13 agosto 2024. Avevamo in programma questo intervento di Marco Codebò sul suo ultimo geniale libro L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, che era stato già recensito da Sandro Moiso, ma che offre molteplici spunti di riflessione su quell’esperienza rivoluzionaria con cui è impossibile non fare i conti. Ho conosciuto Emilio Quadrelli leggendo il suo nome sui muri di Genova, quando le scritte con lo spray rosso ripetevano “Emilio ed Enza liberi”. Enza era Enza Siccardi.

Quadrelli non era semplicemente stato in carcere, lo aveva vissuto e da quell’esperienza umana e assieme politica e intellettuale ne aveva tratto qualcosa di straordinariamente importante per esistere e per lottare. I suoi libri ora parlano per lui, per il compagno Emilio Quadrelli. [nico gallo]

 

Emilio Quadrelli. L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo. Roma: DeriveApprodi, 2024

di Marco Codebò

L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, è lo studio di tre congiunture della Storia – la Russia rivoluzionaria fra il 1905 e il 1917, l’Italia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, il nostro presente – viste attraverso la lente del rapporto fra la classe da una parte e l’intellettualità rivoluzionaria, organizzata o no in partito, dall’altra. Cosa interessi Quadrelli quando parla di classe lo si comprende già dalla dedica del libro, indirizzata a “Rossano Cochis, un amico e un fratello…”. Cochis, rapinatore seriale, braccio destro di Renato Vallanzasca, autore di oltre quattrocento rapine, è stato un bandito degli anni Settanta. Quel che conta è che per Quadrelli sia un fratello, termine che suggerisce l’esistenza di un rapporto stretto di uguaglianza e solidarietà fra chi lo usa e la persona che ne è destinataria. Rapporto però, non fondato sulla comune condivisione di un’idea politica. Fratelli e non compagni, ad esempio, si chiamano fra di loro gli operai delle ditte di appalto dello stabilimento Fincantieri di Sestri Ponente a Genova, in gran maggioranza stranieri di religione musulmana.

La dedica de L’altro bolscevismo a un elemento di spicco della più famosa banda di fuorilegge “indipendenti”, non affiliati a organizzazioni mafiose o camorriste, della seconda parte del secolo scorso, aiuta a identificare le aree sociali cui si indirizza Quadrelli nella sua ricerca di soggettività potenzialmente rivoluzionarie. Sono i soggetti che il libro identifica con un nome proprio fin dalla seconda parte del titolo, Lenin l’uomo di Kamo. Kamo, al secolo Semion Aršakhovič Ter Petrosian (1882-1922), è stato un bandito georgiano. Collaborava con l’Ufficio Tecnico, l’apparato illegale del partito bolscevico, in particolare nel settore dell’autofinanziamento, al cui servizio poneva la sua notevole esperienza di rapinatore di banche e portavalori.

Il titolo del lavoro di Quadrelli è la citazione invertita di Kamo l’uomo di Lenin, una biografia del bandito tradotta in italiano da Bompiani nel 1974.[1] Il rovesciamento del rapporto di dipendenza tra Kamo e Lenin è l’espressione grammaticale della tesi centrale del libro di Quadrelli, ovvero che la soggettività del partito, Lenin, è al servizio di quella della classe, Kamo. Concetto, questo, che alberga una seconda eresia: la soggettività della classe si esprime con maggiore intensità e chiarezza nella pratica di vita del proletariato illegale, la criminalità indipendente, libera da legami con organizzazioni di tipo mafioso, piuttosto che in quella degli operai di fabbrica. Nel caso della Russia fra il 1905 e il 1917, cuore della classe sono appunto le bande dei fuorilegge come Kamo e non le officine Putilov, roccaforte operaia della Pietrogrado rivoluzionaria.

Nell’analisi di Quadrelli, Lenin guida il partito bolscevico fuori dalla linea della Seconda Internazionale, che fa dipendere il passaggio al socialismo da una tendenza oggettiva della Storia. Lenin abbandona così il positivismo determinista dei partiti operai dell’Europa occidentale per trasformare i bolscevichi nel “partito dell’insurrezione”, una formazione politica che persegue con tutte le sue forze la rottura del corso della Storia e scopre nella soggettività proletaria l’agente di tale frattura.[2] Quadrelli individua la radice della posizione leniniana (l’aggettivo leninista non compare mai nel testo) nel rapporto fra Lenin e i populisti di Narodnaja Volja (Volontà del popolo), a cui apparteneva suo fratello maggiore, Aleksandr, giustiziato nel 1887 per aver partecipato a un complotto contro la vita dello zar Alessandro III. Del populismo Lenin contrasta in ogni modo la tendenza a guardare all’indietro, a sognare un ritorno della Storia al passato, a idealizzare il contadino russo, ma adotta l’idea dell’inimicizia assoluta fra popolo e classi dominanti e soprattutto quella dell’intellettuale attivista, rivoluzionario di professione.

Lenin può concepire la rottura del flusso della Storia, che poi è sempre quella dell’Occidente e del suo inevitabile dominio sul mondo, afferma Quadrelli, perché è un non-europeo, un barbaro che nega l’educazione e la civiltà occidentali (p. 27). Un concetto, questo, della non-occidentalità di Lenin, che ne arricchisce la pratica politica di una componente anti-coloniale. Il Lenin di Quadrelli non agisce così sulla sola Russia, ma sul sistema-mondo; lo fa a partire dal punto di vista degli esclusi, i Kamo, siano essi i marginalizzati della metropoli o i colonizzati del Sud del mondo. La soggettività dei Kamo irrompe nella storia russa con la rivoluzione del 1905. È allora che gli intellettuali populisti vanno a lezione dal proletariato extralegale. Imparano dalla guerra partigiana che si diffonde in Russia nel 1905 e nel 1906 (pp. 34-41). E vanno a lezione anche dalle “es”, gli espropri, motivati o no politicamente, che nello stesso biennio conoscono una crescita impressionante in tutto il paese. I bolscevichi dimostrano di aver appreso la lezione degli extralegali nel 1907, quando organizzano, sotto la guida di Kamo, una rapina a Tiflis, in Georgia, che trasferisce nelle casse del partito un bottino di 250.000 rubli, pari a circa mezzo milione di euro attuali.

Lenin tiene in alta considerazione la spontaneità, ma si rifiuta al tempo stesso di adorarla. Si tratta piuttosto di trasformarla in un progetto politico coerente: la guerra partigiana, per esempio, va guidata perché, se lasciata a se stessa, può degenerare nel banditismo. Così, fra il 1905 e il 1917, i bolscevichi mettono in pratica la direttiva leniniana di andare a scuola dalle masse per poterne diventare la testa cosciente. Nell’ultimo atto di questo percorso, nell’ottobre del ‘17, il partito fa sue le scelte più avanzate della classe e conquista il potere. Ma per arrivare a questo un passaggio, dopo il suo rientro in Russia il 3 aprile di quell’anno, Lenin si trova di frequente a lottare da solo contro il resto della dirigenza del partito bolscevico. È un processo rappresentato con efficacia in October: The Story of the Russian Revolution (2017), una storia del ‘17 scritta con gli strumenti e il talento del romanziere. L’autore, China Miéville, racconta come Lenin si schieri contro la linea della maggioranza del partito fin dal suo arrivo a Pietrogrado, il 3 aprile del 1917. Può agire così perché coglie qualcosa che agli altri dirigenti bolscevichi resta irraggiungibile, il rifiuto della guerra da parte delle masse. Si collega così alla soggettività dei soldati che disertano e abbandonano il fronte, nonché a quella dei proletari urbani e dei contadini poveri che lottano contro i sacrifici, a partire dalla chiamata alle armi, imposti dal regime di guerra. Si tratta di soggettività più avanzate di quella dei bolscevichi, che ancora ad aprile sono contrari al disfattismo anti-Governo provvisorio e vicini alla riunificazione con i menscevichi. I disertori e renitenti alla leva sono i Kamo del ‘17. È da loro che il partito impara a rifiutare in maniera radicale la guerra, quel conflitto che per il Lenin delle Tesi di Aprile non è altro che una forma imperialista di brigantaggio.

Nella seconda parte del suo studio, Quadrelli si accosta all’Italia degli anni fra il 1960 e il 1980. È un “ventennio rosso”, in cui si assiste a un enorme soprassalto di soggettività. Espressione di tale eccesso sono cinque rivolte di strada: Genova 1960; Torino, Piazza Statuto, 1962; Valdagno 1968; Roma, Valle Giulia, 1968; Torino, Corso Traiano, 1969. Quadrelli affida il racconto di quei vent’anni a cinque storie di vita, tutte biografie che si snodano a cavallo fra legalità e illegalità. A parlare, insomma, sono cinque Kamo – M.C., Graziano, Anna, Vittoria e Mauro – le cui esperienze personali si intrecciano con gli avvenimenti della storia grande.

Particolarmente significativa del peculiare rapporto fra legalità e illegalità che informa queste vite è la storia di Vittoria, una compagna del movimento genovese che ne attraversa varie espressioni, Lotta Continua, un Collettivo femminista legato al Manifesto, il comitato di agitazione di Lettere e Filosofia, l’Autonomia, sempre rimanendo se stessa, una soggettività irriducibile sia alla logica del capitale sia a quella della militanza politica totalizzante. Vittoria non è mai stata né una clandestina né una bandita, eppure partecipa a un’operazione illegale di notevole rischio e significato: la tentata liberazione di alcuni prigionieri politici dal carcere di Perugia. Segno che la soggettività delle Kamo degli anni Settanta, come quella del bandito da cui prendono il nome, non si limita ad agire sul terreno della spontaneità ribelle, ma è anche in grado di gestire momenti di confronto con lo Stato che richiedono un notevole livello di organizzazione.

Fra le aree intellettuali e politiche che si confrontano con il popolo ribelle del “ventennio rosso” italiano, va da sé che all’operaismo tocchi il primo posto, posizione che gli spetta a partire dalla pubblicazione della trontiana “Linea di condotta” nel 1966. Quadrelli, tuttavia, legge una debolezza di metodo nell’approccio operaista alle lotte della classe: gli operaisti non sanno andare al di là del tratteggiare un perenne conflitto in fabbrica. Descrivono uno scontro in cui le posizioni degli avversari restano congelate per sempre: da una parte lo stato-piano, dall’altra la sinistra operaia che lotta contro il lavoro. Alla fine, l’operaismo esce dall’impasse scegliendo il primo termine del confronto, ovvero il riformismo.

Al posto della mera teorizzazione del conflitto, quel che è da fare, sostiene Quadrelli, è osservare l’emergere di un soggetto che si incarichi della critica dell’economia politica. Nell’Italia degli anni Settanta, questa soggettività è rappresentata dal colonizzato – l’emigrato dal Sud, un colonizzato interno – che rifiuta il lavoro. Nel ciclo di lotte che questo soggetto ha ispirato, destinato a spegnersi intorno al 1982, il comunismo si afferma come programma immediato della classe. Ci sarebbero quindi state le condizioni per un ritorno a Lenin, mettendo cioè Kamo, il colonizzato ribelle, al centro della linea politica. Ma negli anni Settanta in Italia Lenin è assente, c’è solo Kamo. Gli intellettuali che hanno decodificato la soggettività operaia, quella del rifiuto del lavoro, nel 1973 abbandonano la lotta o si uniscono, in qualche caso, alle Brigate Rosse. Il passaggio al partito non si compie e Kamo rimane solo.

In quegli anni, in parallelo al manifestarsi di una soggettività antagonista in fabbrica, nasce nel sociale una nuova criminalità, la stessa che Quadrelli ha esplorato diverse volte nella sua ricerca, con particolare efficacia nel notevole Andare ai resti (Roma: DeriveApprodi, 2004). È il mondo delle “batterie”, i nuclei informali, basati sull’amicizia, in cui si raccolgono i rapinatori degli anni Settanta. Una volta in carcere, i Kamo italiani combattono l’ordine carcerario imposto dalla malavita tradizionale, in cui i boss malavitosi collaborano con le guardie carcerarie nel controllo della popolazione detenuta. Quelli delle batterie, i “bravi ragazzi”, stabiliscono invece in carcere un ordine basato sulla fratellanza. Durerà fino all’assassinio, nello speciale di Nuoro, di Francis Turatello, gangster milanese che coi bravi ragazzi delle batterie condivideva il rifiuto di qualsiasi accordo o collaborazione con gli apparati statali. L’assassinio di Turatello segna un cambio di paradigma del tutto simile a quel che accade fuori dalle prigioni, con la trasformazione dei soggetti ribelli, legati fra di loro da rapporti di solidarietà sovversiva, in individui privi di vincoli e legami sociali. In questo senso, assolve la stessa funzione, in carcere, che la marcia dei 40.000, nell’ottobre 1980, ha assolto in fabbrica.

Nella terza parte de L’altro bolscevismo, Quadrelli si sofferma sul nostro presente. Lo fa partendo ancora una volta da Lenin, quello che, nella Russia del primo Novecento, fa suo il punto di vista del colonizzato (p. 153). Anche oggi, davanti alla guerra, può agire solo il partito dell’insurrezione, centrato però su una nuova soggettività, diversa da quella, non più utilizzabile, degli anni Sessanta e Settanta. Ci vuole un nuovo popolo, sinteticamente espresso nella formula Lenin più Fanon. Occorre passare dal partito di Mirafiori a quello delle banlieues: la marginalità di oggi, che comprende quote significative di salariati, corrisponde alla condizione operaia di ieri. L’esclusione come dato interno alla condizione lavorativa inizia con la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991. È un processo che si combina il trasferimento di intere filiere produttive (localizzate nel tessile, nella siderurgia, nell’abbigliamento, nella meccanica) nell’est e nel sud del mondo e la conseguente emarginazione sociale di ampi settori della classe operaia del cosiddetto “primo mondo”. Mentre le masse sono espulse dalla vita pubblica, di fronte alla borghesia, come accade nel modello coloniale di società, restano solo canaglie e anormali. Espressione materiale, visiva, di tale situazione è l’urbanistica delle moderne metropoli. Ma nelle banlieues Kamo continua a lottare. Quel che manca è sempre Lenin.

Quadrelli vede in Kamo una figura politica che, dal 1905 ai giorni nostri, in diverse situazioni, trascende ogni volta i limiti del proprio contesto storico e geografico. Collocare Kamo al centro di più di un secolo di pratiche rivoluzionarie permette a L’altro bolscevismo di raggiungere il suo obiettivo chiave: dimostrare la vitalità di Lenin a più di cent’anni dall’ottobre russo. Se il referente di classe di Lenin fossero stati, ad esempio, gli operai delle Officine Putilov, allora i rapporti fra partito e classe sarebbero, di necessità, cambiati nel tempo. Dopo i processi di ristrutturazione industriale iniziati negli anni Ottanta, che hanno comportato un drastico ridimensionamento della centralità produttiva e politica della classe operaia di fabbrica in tutto l’Occidente, anche il partito leninista avrebbe dovuto affrontare un significativo processo di aggiustamento. Ma se la soggettività rivoluzionaria si (ri)produce sempre all’interno del medesimo strato di esclusi, allora anche lo stesso strumento politico, il partito leninista, mantiene intatta tutta la sua vitalità.

[1] Il libro uscito per Bompiani è la traduzione italiana, ad opera di Luisa Cortese, di Jacques Baynac, Kamo, l’homme de main de Lenine (Paris: Fayard, 1972).

[2] “Partito dell’insurrezione” è una citazione da un verso dell’inno di Potere Operaio, gruppo operaista della sinistra extraparlamentare italiana nei primi anni Settanta: “Stato e padroni fate attenzione nasce il partito dell’insurrezione”. L’inno rimanda a sua volta a una serie ragguardevole di altre canzoni rivoluzionarie, dalla Polonia alla Russia, dall’Inghilterra alla Spagna, per mezzo della comune base musicale, tratta dalla Warszawianka, canto socialista polacco del tardo Ottocento.

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