di Paolo Lago
Eccoli, gli stabilimenti balneari, escrescenza colorata della città verso il mare, verso un azzurro orizzonte assolato e ventoso. Le loro pagode e le loro tende verdi e bianche, le loro bandiere al vento sono laggiù, separate da un viale: sono parte della città ma anche non lo sono, utopie sognate dove vige il tempo dell’ozio e del divertimento, villaggi incantati e favolosi come quelli delle fiabe, nei quali si può entrare semplicemente oltrepassando un cancello. Ci sono due tipi di stabilimenti balneari: quelli che si trovano nel centro delle città e quelli, invece, che si trovano in piccole località lungo la costa che vivono esclusivamente in estate e che in inverno si trasformano in deserti onirici e malinconici, ma anche estremamente affascinanti. È facile raggiungere gli stabilimenti che si trovano in città: basta attraversare il centro, allontanarsi un po’ dalla zona portuale e camminare lungo la passeggiata a mare. Come già notato, essi sono dei veri e propri paesi, dei villaggi, delle piccole città che fanno parte del nucleo urbano ma, contemporaneamente, non vi appartengono. Nel momento in cui si varca il cancello d’ingresso e si paga il biglietto, si entra in un universo con delle regole e delle usanze proprie, autorganizzato e autoregolato. Pochissimi metri separano le mattonelle dei viali dello stabilimento da quelle del viale a mare ma è come se fossero chilometri e chilometri. Se sulla passeggiata a mare si devono rispettare le regole cittadine e si cammina di solito vestiti normalmente, dentro lo stabilimento balneare si può stare e condurre la propria vita in costume da bagno, con sandali, ciabatte oppure anche a piedi nudi tutto il giorno, nessuno ci dirà niente. Dentro lo stabilimento balneare non ci sono più i ritmi del lavoro e della produzione (certo, ovviamente, ad eccezione del personale che in esso è impiegato), non ci sono più divieti di sosta da rispettare, auto da parcheggiare, strade da percorrere. Si è unicamente diretti al proprio ombrellone o alla propria sedia a sdraio, al bar, alla scaletta o al trampolino per entrare in mare e rinfrescarsi con un bagno. Ci sono altre regole da rispettare, scritte e non scritte, diverse comunque da quelle che valgono pochi metri più in là, nel centro cittadino.
Gli stabilimenti balneari assumono l’aspetto di vere e proprie eterotopie, per come sono definite da Michel Foucault, “delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli altri spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”1. Utopie realizzate, gli stabilimenti balneari racchiudono in sé molti altri spazi reali: come abbiamo visto, sono vere e proprie città dotate di una loro autorganizzazione, con un bar, un ristorante, uno spazio per riposare e un altro per socializzare, divertirsi, chiacchierare con gli amici, appartarsi con l’innamorata o innamorato. In alcuni stabilimenti, addirittura, si trovano dei piccoli appartamenti per le vacanze, adiacenti alle cabine, dove gli ospiti possono trascorrere non solo tutto il giorno, ma anche la notte; in questo modo, viene offerta ai vacanzieri una valida alternativa all’albergo o all’hotel che si trovano, invece, pienamente all’interno dello spazio cittadino. Lo stesso Foucault accenna, nella sua analisi sulle eterotopie, ai villaggi vacanza, “quei villaggi polinesiani che offrono agli abitanti delle città tre brevi settimane di nudità primitiva ed eterna”2. Ma qui si tratta di spazi ‘lontani’ e quasi mitici, appartenenti ad altre culture e ad altri continenti, diversi da quello europeo. Gli stabilimenti balneari sono, invece, qui ed ora, dentro e fuori il momento presente, vicini e lontani allo stesso tempo, fanno parte della nostra quotidianità ma ne sono anche inesorabilmente fuori.
Ecco che essi assumono anche un’altra importante caratteristica delle eterotopie delineata dallo studioso francese: quella, cioè, di costituire delle “eterocronie”, di essere non solo degli “spazi altri” ma anche dei microcosmi in cui vige un “tempo altro”; infatti, “l’eterotopia funziona appieno quando gli uomini vivono una sorta di rottura assoluta con il proprio tempo tradizionale”3. Negli stabilimenti balneari il tempo, come abbiamo già notato, è scandito in modo diverso rispetto a quello cittadino ed è basato sul momento del bagno o della merenda, del pranzo, della cena, o della partita a carte con gli amici. Sembra anche che in essi, come nei musei e nelle biblioteche, definiti da Foucault come “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”4, il tempo cessi di scorrere per bloccarsi in una dimensione assoluta. Pare che certi momenti, negli stabilimenti balneari, rimangano incastonati fuori dal tempo; sembra che non ci sia alcuna differenza tra ciò che vediamo negli stabilimenti oggi e ciò che abbiamo visto nel passato: anziani che giocano a carte su un tavolinetto di legno, con il pacchetto di sigarette e l’accendino da una parte, esattamente come quaranta o cinquanta anni fa, ragazzi che corrono, si tuffano e giocano e fanno la fila al bar esattamente come quaranta o cinquanta anni fa, e lo fanno scalzi, come sempre nel tempo, avanti e indietro incessantemente per i viali e i ponti della loro cittadina in miniatura, persone che prendono il sole o se ne stanno a chiacchierare sotto gli ombrelloni, e lo fanno ugualmente come quaranta o cinquanta anni fa. La stessa presenza degli smartphone e degli apparecchi digitali, negli stabilimenti balneari, appare discreta e irrilevante, probabilmente perché tutti sono impegnati a ripetere gesti e azioni, sia in solitudine che in compagnia, che sono le stesse da tempo immemore. Piuttosto che consultare uno smartphone o fare foto, preferibilmente si parla o si legge un libro o una rivista sotto l’ombrellone. In questo senso, gli stabilimenti balneari si pongono in rottura con lo spazio e il tempo ‘tradizionali’ divenendo “una specie di contestazione, al tempo stesso mitica e reale, dello spazio in cui viviamo”5.
Dietro, nella direzione opposta al mare, si erge la città coi suoi palazzi avvolgenti, antichi e fastosi oppure moderni ed essenziali, in una stramba accozzaglia sorta nel dopoguerra e negli anni Cinquanta, in cui non si faceva altro che costruire e cementificare senza alcun criterio estetico. I rumori provenienti dalla strada sono ovattati pur essendo presenti e le stesse automobili che si intravedono sembrano appartenere ad un’altra dimensione, dimenticata e lontana nel tempo. Se guardiamo il mare vediamo sole, azzurro, oro e luce, soprattutto nelle ore pomeridiane, vediamo imbarcazioni a motore che solcano l’orizzonte, navi petroliere e mercantili che si dirigono al porto e rilasciano la loro scia di fumi i cui nauseanti odori – quelli sì – arrivano anche in queste fiabesche eterotopie, per richiamarci alla dura realtà. Perché queste ultime sono contemporaneamente aperte e chiuse al mondo esterno ed esso penetra e compenetra continuamente entro i loro confini.
Ci sono anche gli stabilimenti balneari che si trovano nelle località di vacanze fuori dalle città: per arrivarci ci vuole allora l’automobile e si percorrerà un viale lungo in mezzo alla pineta, perpendicolare alla costa, dopo aver svoltato dal vialone principale. Saremo allora più lontano dagli spazi ‘quotidiani’ e quasi non li vedremo più: alle nostre spalle ci sarà infatti soltanto una fitta vegetazione mentre di fronte a noi si estenderà un litorale sabbioso sul quale sono disposte ordinatamente tante file di ombrelloni. Qui, sulla sabbia, potremo allora camminare per chilometri e chilometri, entrando nel ‘territorio’ di numerosi altri stabilimenti e attraversandoli continuamente. Il mare appare come uno spazio libero e “liscio”, per utilizzare un’espressione di Deleuze e Guattari, che i due studiosi contrappongono agli spazi “striati” del controllo6, e sulla battigia, con i piedi nell’acqua, potremo percorrere liberamente le ‘striature’ delle eterotopie degli stabilimenti, sottoposte al controllo dei loro bagnini. Sulla battigia, potremo allora attraversare tempi e spazi, immergerci in luoghi segnati però, stavolta, dallo scorrere del tempo: sarà facile, allora, vedere tratti di spiaggia interamente ‘mangiati’ dal mare e vedere cabine, che anni fa erano lontanissime dal mare, lambite dalle onde.
Sia gli stabilimenti balneari di città che quelli di fuori città ci proiettano quindi in una dimensione ‘altra’, separata dal mondo quotidiano: quest’ultimo se ne sta fuori dal cancello o alla fine dell’imboccatura del viale, con i suoi rumori e i suoi odori che riescono sempre, quando più quando meno, ad arrivare fino a noi. Siamo dentro e fuori, protetti e allo scoperto, vicini e lontani, come dentro un’utopia o, meglio, una eterotopia che ogni estate è pronta ad accoglierci per poi rimanere silente e chiusa in sé nei mesi invernali, quando si tramuterà in uno scrigno di malinconia.
M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, trad. it. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 310. ↩
Ivi, p. 314. ↩
Ivi, p. 313. ↩
Ivi, p. 314. ↩
Ivi, p. 311. ↩
cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma, 2010, p. 453 e seguenti. ↩