di Giovanni Iozzoli
Mentre scrivo queste brevi note, dall’Inghilterra giunge qualche confortante segnale di reazione al ciclo di violenze di matrice xenofoba, che ha incendiato diverse città del Regno Unito. Grandi manifestazioni “antirazziste” hanno superato nei numeri quelle di segno opposto, coinvolgendo le comunità straniere, pezzi di sindacato e di sinistra politica. Una buona cosa, perché l’incubo delle strade in mano ai teppisti islamofobi, non poteva essere tollerato più a lungo.
Questa ondata di violenza – non prevista da alcuno – ha reso l’idea di una pentola a pressione improvvisamente scoperchiata da un evento tragicamente occasionale. Da questo punto di vista, sapere che l’assassino di bambini di Southport non è un aspirante jihadista ma un cristiano figlio di ruandesi, ha cambiato poco il quadro: la scintilla non descrive l’incendio né offre previsioni sulla sua diffusione. A bruciare in Inghilterra in questo momento è proprio il mito della convivenza multietnica di cui il comunitarismo britannico è sempre sembrato laboratorio avanzato.
E’ inutile negarlo, siamo scioccati dalle immagini di nostri fratelli di classe – giovani segmenti di working class bianca – totalmente succubi di parole d’ordine e suggestioni di segno fascista. Non è la prima volta che ciò accade: tra la precarietà della coscienza operaia e il tribalismo sottoproletario, si cammina sempre su una lama sottile. Più di trent’anni sono passati dai fatti di Rostok – sempre agosto ma del 1992: l’ouverture di un processo storico in cui una maligna talpa nazistoide ha ben scavato per decenni, fino a portare l’AFD a diventare primo partito nei territori ex DDR.
Cosa abbiamo visto all’opera, in questi giorni, lungo le strade da Liverpool a Belfast? Odio per il diverso? Certo. Soprattutto se è considerato un competitor sul mercato del lavoro, della casa e del welfare.
Rifiuto della democrazia? Certo, soprattutto se letta come semplice ricambio al potere di élite tecnocratiche, espressione dei piani alti della piramide sociale. E se qualcuno martella per decenni i quartieri proletari e l’infosfera, con l’idea che quelle élite hanno “creato” scientemente il modello sociale multietnico per fottere l’Inghilterra, i suoi valori e gli interessi del “popolo”, ebbè: la miscela è pronta ad esplodere; e le menti obnubilate possono pensare che attaccare un centro per richiedenti asilo sia come attaccare una propaggine del potere finanziario globale.
Le manifestazioni antirazziste di massa di queste ore, però, palesano una criticità: corrono seriamente il rischio di finire arruolate ed inglobate dentro il perbenismo mainstream. Infatti i grandi giornali – in Italia in testa “Repubblica” – si spellano le mani ad applaudire gli “antifascisti” che ricacciano indietro la white trash, il sottoproletariato bianco degli stadi e dei pub. In questo modo, la lettura degli schieramenti, soprattutto da parte dei settori giovanili, diventa fatalmente torbida: e i movimenti antifascisti corrono il rischio di sembrare gli scherani del potere politico-mediatico, chiamati a difendere nelle piazze la società liberale, con tutte le sue “aperture e tolleranze”, contro la feccia bianca, ignorante e da respingere nelle zone d’ombra dei perdenti sociali.
A questo aggiungiamo che il multiculturalismo non è un pranzo di gala. Le differenze di fedi e stili di vita hanno un peso preponderante, nella vita sociale dei quartieri proletari (lo sa chi li frequenta, ovviamente…). A sinistra abbiamo cretinamente sottovalutato questo aspetto pensando paternalisticamente che la macchina della storia – progressiva, ça va sans dire! – avrebbe omologato le anime, le radici, le subculture, i sentimenti religiosi. Ed è paradossalmente la medesima hybris del liberismo: che assegna tale funzione livellatrice alla moderna divisione del lavoro, al mercato e al consumo. Né il progressismo di sinistra, né l’ottimismo capitalistico, hanno anestetizzato le radici culturali dei popoli. Anzi, talvolta quelle radici vengono strumentalmente recuperate e sbandierate, proprio per sottrarsi all’alienazione e alla spoliazione che l’individuo moderno subisce. Quindi: la società multietnica è ben lungi dal configurare un modello pacificato. E’ piuttosto un magma in perenne movimento, in cui le contraddizioni di classe si intersecano alle “linee del colore”, mentre larghi settori di popolazione non sono disposte a mandare in soffitta le loro storie, i loro legami arcaici. Un bel casino.
Se parli con le persone comuni che si sentono vittime della “globalizzazione” – e parlare è necessario, sempre, con tutti –, mettersi a predicare la bellezza della società multietnica non è una bella strategia. Daremmo l’idea di aver contribuito noi a crearlo, questo modello, mentre esso è solo l’espressione di una fase storica del capitalismo – e il fatto che a noi soggettivamente “piaccia” o meno, non cambia molto. Dobbiamo spiegare ai nostri interlocutori che questa società – nei suoi aspetti brutti e belli – è essenzialmente il risultato di grandi processi, anonimi e collettivi. Nessuno “modella” o riconfigura le società complesse. Nessuno ha “chiamato” gli immigrati: arrivano da soli, con ogni mezzo possibile, senza chiedere permesso a chicchessia, perché questa è la storia dell’umanità. Una storia in movimento. Non facciamo apologia delle brutture delle nostre periferie e di questo modello sociale: spieghiamo bene che noi non c’entriamo, che non siamo complici, che non la vogliamo così, la storia; che per noi convivenza significa tutta un’altra cosa….
Leggendo gli editoriali dei giornali, gli attori in campo sembrano al momento essenzialmente due: il potere politico-mediatico che invita all’integrazione, alla “convivenza” e al rispetto dell’ordine sociale capitalistico; e un arcipelago livoroso e informe di malessere “bianco”, costituito dai perdenti della globalizzazione. Manca un terzo “discorso pubblico”: il nostro, quello che si dovrebbe distinguere radicalmente dagli altri due; quello che dovrebbe evitare lo schiacciamento delle nostre energie vive e della nostra storia, dentro il fronte della “tolleranza liberale” – l’ideologia per cui si possono e si devono spremere e sfruttare i proletari di ogni colore senza alcun pregiudizio etnico…
Non stupiamoci se i fascisti fanno il loro mestiere e provano ad organizzare le persone (e del resto un riot suprematista chi dovrebbe guidarlo, i gesuiti?). Proviamo a chiederci piuttosto perché non riusciamo più a farlo noi. Abbandonare il campo del “malessere bianco” dandolo per perso è sbagliato. Si rischia di ripetere quanto visto durante l’emergenza covid: mentre l’incubo della governance bio-politica diventava prassi ordinaria – dopo decenni di chiacchiericcio sull’argomento nei seminari accademici –, una tacita ritirata della “sinistra alternativa” fiancheggiava oggettivamente lo stato di eccezione. Mai più, please.
Le manifestazioni di massa antirazziste che stanno rispondendo in queste ore sono dunque sacrosante. E la discesa in campo dei giovani delle seconde (e ormai terze) generazioni, può rappresentare un dinamismo sociale dirompente. Sarebbe però una beffa tragica, se gli antifascisti della strada e del quotidiano, passassero per difensori del potere liberale, lasciando intendere che siano apologeti di questa schifosa società: davanti a cui qualsiasi fascistello acquisirebbe il carisma del “rivoltoso in lotta contro il sistema”.
Le dame progressiste della buona società di “Repubblica”, del Lilligruberismo, del PD, del mondo associativo – tutti coloro che cercano di indorare la pillola di questi grandi processi storici, raccontando quanto siano belli, desiderabili e il migliore dei mondi possibili, rispetto ai terribili mostri orbaniani – non sono nostri amici o alleati. La loro compagnia ci scredita, almeno quanto ci screditerebbero gli orbaniani stessi. “Né Boldrini né Meloni”, è la giusta linea: gli immigrati non sono “risorse utili” né ovviamente nemici; sono persone che probabilmente (soprattutto quelli arrivati nell’ultimo decennio) avrebbero preferito restare a casa loro piuttosto che rischiare la pelle e soffrire viaggi che possono durare anni per approdare qui, a pulire i nostri cessi, tenere aperti i nostri cantieri, vivere in stamberghe o per strada, supplicare permessi provvisori che consentano loro di creare plusvalore nella legalità, perseguire ricongiungimenti familiari che ormai sono odissee burocratiche e donare la loro nuda vita e la loro giovinezza al capitalismo metropolitano. Il fatto che sono qui significa che il mondo fa schifo: non c’è bellezza, non c’è “incontro dei popoli”, non c’è United Colors, non c’è open society – non sono turisti, sono vittime del retaggio coloniale e del sistema imperialista.
E torniamo al punto di partenza: perché gli xenofobi hanno elaborato una loro contorta elaborazione e una loro (orrida) visione su questi fenomeni epocali, mentre noi brancoliamo nel buio e al massimo scendiamo in piazza “a posteriori”, a inseguire i processi cantando Bella Ciao? Qual è il nostro punto di vista, qual è la nostra narrazione: qual è il nostro immaginario, che dovrebbe disegnare i contorni di una società diversa fondata sul conflitto verticale? Quali sono le parole d’ordine che possono ri-accreditarci dentro le platee di massa a cui gli xenofobi attingono? Qual è la strada per sottrarci all’abbraccio mefitico dei difensori del presente, che nella stessa edizione dei loro giornaloni possono lodarci o esecrarci, a seconda di quanto possiamo risultare loro utili?
Dobbiamo costruire forme della politica che tengano dentro i bianchi e i “non bianchi”: poche chiacchiere, da qui non si scappa. Organizzare i profughi e le microminoranze, è cosa buona e giusta, ma serve fino a un certo punto. O li organizziamo dentro forme condivise – realtà politiche o sindacali a larga riconoscibilità autoctona – o diventiamo i rappresentanti di un ultra minoritarismo nobile e inutile. Da questo punto di vista, alcune lezioni de La France Insoumise, con tutti i suoi limiti (come siamo bravi a spiegare i limiti degli altri…), possono essere utili: una forza di massa che parla contemporaneamente ai ragazzi delle periferie, alla piccola borghesia che studia all’università e a pezzi sindacalizzati di mondo del lavoro tradizionale. Poco? Abbastanza per fermare il lepenismo, abbastanza per tenere la dialettica aperta tra “politica e classe”.
Nella crisi generale della società capitalistica globale – che è anche crisi ideologica, morale, di senso –, milioni di uomini e donne, persone semplici, spesso fragili o prive di strumenti, persi nel mare della iperconnessione globale, sono alla disperata ricerca di un ordine che dia loro sicurezza. Fino ad ora è stato loro proposto il carnevale dell’individualismo liberale, la fiera delle occasioni, lo spettacolo della decadenza, l’effimero della vetrinizzazione social. Hanno visto che dietro questo paese dei balocchi c’è la miseria materiale, l’arretramento del proprio segmento sociale, la contesa per dividersi le briciole con masse di indistinti “nuovi arrivati” che non possono far altro che svendersi e competere a prezzi migliori. Se facciamo capire che condividiamo i lineamenti di questo perverso meccanismo, qualsiasi fascistello di passaggio risulterà più attrattivo e credibile.
C’è bisogno di un ordine nuovo (cfr: Gramsci). Ripeto: un ordine nuovo, non chiacchiere sulle libertà, i diritti e la correttezza politica. Un ordine da cominciare a teorizzare, discutere e praticare. E noi dovremo essere identificati non come i difensori dei centri di accoglienza, ma come i propugnatori di questo nuovo ordine: in cui le persone non saranno più messe in competizione, ma valorizzate in funzione dei loro bisogni e del lavoro utile che potranno fornire alla società. Dobbiamo reimparare a sillabare queste verità elementari che un tempo ci distinguevano nettamente dall’avversario di classe e che abbiamo smarrito sotto i colpi dell’egemonia liberista, subita unilateralmente per trent’anni. Costruire, a partire dall’immaginario collettivo, la terza via tra l’apologia democratica del presente e il moto reazionario che gli si oppone: questo è il duro compito dell’oggi. Non abbiamo niente da difendere.