di Paolo Lago
Al giorno d’oggi, moltissimi luoghi del mondo vengono “brandizzati” e venduti dall’industria del turismo ai consumatori di tutto il mondo; si tratta di luoghi che vengono fatti apparire intrappolati in stereotipi creati dalla macchina spettacolare di quella stessa industria e sembrano ormai consolidati nell’immaginario collettivo. Ad esempio, possiamo pensare alle spiagge delle Maldive o a quelle di Miami Beach, tratteggiate come incontaminati luoghi di sogno, oppure alle immagini turistiche del Nord Europa e della Lapponia, in cui vediamo paesini fiabeschi coperti di neve. Eppure, anche le località fiabesche, incapsulate negli stereotipi creati dal turismo spettacolare, sono toccate da problemi ben reali, legati al cambiamento climatico, all’antropizzazione eccessiva, alla pervasiva industrializzazione che inquina e deturpa paesaggi. Infatti, come scrive Fabio Deotto in un interessante reportage sul tema del cambiamento climatico, steso attraverso diversi luoghi della Terra, “l’idea che ci siamo fatti del mondo in cui viviamo raramente si basa su esperienze in prima persona, il più delle volte è filtrata da un qualche tipo di schermo che può renderci ciechi alla sua degradazione”1 perché, in fin dei conti, “è come se stessimo guardando delle cartoline spedite da un luogo che ha smesso di esistere prima che arrivassero a noi”2. Le immagini che ci propina lo spettacolo del turismo sono delle “cartoline sbiadite” perché rappresentano dei luoghi falsi e falsificati: se vedessimo, ad esempio, delle immagini di Miami Beach con le sue bellissime spiagge penseremmo che quegli spazi siano racchiusi ancora entro uno splendore iconico mentre invece nel mondo reale la città è assediata dall’acqua alta e da alghe puzzolenti3.
Ci sono due recenti film che ci offrono una rappresentazione alquanto reale del Nord Europa – nella fattispecie la Lapponia svedese – lontano dagli stereotipi imposti dalle “cartoline sbiadite”. Si tratta di Abisso (The Abyss, 2023) del regista svedese Richard Holm e di La ragazza delle renne (Stöld, 2024) di Elle Máriá Eira. Il primo si ambienta in una città della Svezia del Nord, Kiruna, che sta sprofondando a causa del crollo delle miniere che lambiscono il centro abitato. Probabilmente anche perché si ispira a un fatto vero (il crollo della miniera di Kiruna, avvenuto nel 1961), il film offre uno spaccato della vita quotidiana nella città nordica (la più settentrionale della Svezia, a nord del circolo polare artico) assai vicino alla realtà. Frigga, la protagonista, responsabile della sicurezza nelle miniere, deve lottare per tenere unito il suo nucleo familiare attraversato da varie vicissitudini (la figlia che partecipa a proteste ambientaliste, un figlio scomparso nel crollo, un marito che non si rassegna alla separazione e un nuovo compagno vigile del fuoco giunto da Uppsala) e successivamente dovrà vedersela con un crollo che inghiotte lentamente la sua città. Il Nord Europa che ci mostra Abisso, nonostante la sua inclinazione un po’ allucinatoria verso il genere del disaster movie, è realistico e inserito in una quotidianità dura e ripetitiva, fino all’evento catastrofico finale. Il film riesce a materializzare di fronte all’occhio degli spettatori la vita che si svolge quotidianamente a Kiruna, rifuggendo qualsiasi visione estetica o edulcorata. Capiamo inoltre quanto sia invasiva, per quella stessa esistenza che tutti i giorni sempre uguale si ripete, la presenza di una creazione umana come la miniera che è fonte di guadagno e sviluppo ma anche foriera di distruzione. Come un boomerang, lo sviluppo si ritorce contro gli stessi cittadini invadendo gli spazi più intimi e privati delle loro vite fino a far mancare la terra sotto il parco giochi dei bambini nel giardino della scuola. Anche se il piccolo che stava precipitando nella buca viene salvato in extremis dalla sua maestra, la scena, emblematicamente, mostra l’abulicità dello stesso sviluppo capitalista che non esita a devastare e uccidere persino i bambini pur di espandersi a macchia d’olio.
Il disastro che le miniere stanno lentamente provocando ha costretto la popolazione locale a trasferire l’antico centro storico in una zona più sicura, denominata “nuova Kiruna”. Anche questa situazione riflette quella reale, in cui il trasferimento della città vecchia in quella nuova è ormai quasi avvenuto (come si evince dalla voce “Kiruna” di Wikipedia). Si tratta di un fenomeno di delocalizzazione che non guarda in faccia a niente e a nessuno: in primo luogo alle abitudini quotidiane degli abitanti, che si vedono le vite stravolte e, in secondo luogo, anche agli edifici di rilevanza storica che, comunque, come leggiamo sempre nella voce di cui sopra, sono stati “trasferiti”. Si potrebbe pensare a quanto è avvenuto nel 1950 a Curon Venosta, in Alto Adige, quando l’antico paese venne allagato per costruire la diga della Montecatini, l’azienda chimica (la stessa che gestiva le miniere di Ribolla nel grossetano, sconvolte nel 1954 da un’esplosione che ha provocato la morte di quarantatré minatori) che poi si trasformerà in Montedison. Anche in questo caso gli abitanti del paese, per esigenze legate allo sviluppo industriale, furono costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Del vecchio insediamento resta il campanile che spunta dalle acque del lago di Resia, e che conferisce un fascino ambiguo e misterioso al luogo, tanto che vi è stata ambientata una serie TV che spazia dall’horror al mistero, Curon (2020).
Anche La ragazza delle renne mostra un Nord Europa fuori dagli schemi imposti dallo spettacolo dominante. Con piglio quasi da cinema antropologico, racconta infatti dell’esistenza quotidiana di un gruppo di Sami della Svezia settentrionale. È uno scorcio di Nord Europa del tutto estraneo al limbo incantato spacciato dall’industria del turismo. Come sempre scrive Deotto nella sua inchiesta attraverso il mondo che, tra l’altro, tocca anche Kiruna,
il viaggio in Lapponia viene venduto ai turisti come un passaggio in un mondo “altro”, un superamento della soglia che separa l’ordinario dallo straordinario, e per assolvere a questa promessa si è finito per consolidare un’immagine illusoria fatta di slitte trainate da husky, cerimonie di attraversamento del circolo polare artico e alberghi a forma di igloo, tutte cose che nulla hanno a che fare con la cultura tradizionale di questo posto e che per di più finiscono per obliterarne le reali vulnerabilità. Così, mentre Babbo Natale riceve ospiti nel suo studio fotografico, le sue renne stanno rischiando l’estinzione4.
I Sami del film devono vedersela con l’odio xenofobo degli svedesi, che uccidono le loro renne e compiono continui sabotaggi ai loro danni, mentre il cambiamento climatico rende sempre più difficile l’allevamento di questi animali. A causa della maggiore frequenza di piogge causata dall’innalzamento delle temperature, i pascoli sono spesso ricoperti di ghiaccio e inaccessibili alle renne. Come afferma Åsa Larsson Blind, presidente del Saami Council (un’organizzazione che si batte per i diritti del popolo Sami), in un’intervista rilasciata a Fabio Deotto, “per la prima volta nella nostra storia ci troviamo costretti a foraggiarle e a trasportarle in camion. Il punto è che i pascoli sono sempre più frammentati, colpa delle miniere, ma anche della ‘colonizzazione verde’. Vogliono salvare l’ambiente con dighe e pale eoliche, ma di fatto stanno deturpando ancora di più la nostra terra”5. I Sami del film vivono in condizioni molto dure ma, nonostante tutto, si battono per portare avanti l’attività tradizionale del loro popolo, l’allevamento delle renne. Di fronte all’occhio dei turisti, il loro popolo, i loro costumi e le loro usanze sembrano ancora incastonati in una “cartolina sbiadita”: una turista, infatti, chiederà ad Elsa, la giovane protagonista del film, di fotografarla nel suo costume tradizionale. Eppure, la ragazza, come la sua famiglia e il suo popolo, è pienamente inserita in una realtà dove bisogna lottare duramente per difendere i propri diritti, e lei non si tirerà indietro, nemmeno di fronte ai dolorosi suicidi che si abbatteranno sulla comunità giovanile dei Sami e nemmeno di fronte alla marginalizzazione a cui la sottoporrà il suo stesso popolo. La giovane Sami è l’emblema della resistenza di un’intera cultura di fronte all’avanzamento di una globalizzazione che sembra andare di pari passo con i disastri legati al cambiamento climatico: come afferma Larsson Blind nella citata intervista, il riscaldamento globale “sta minacciando la sopravvivenza di un’intera cultura, che invece avrebbe senso preservare proprio in quanto detentrice di una conoscenza specifica delle dinamiche naturali locali”6.
I due film in questione hanno perciò il merito di presentarci uno spaccato di vita dei paesi del Nord Europa fuori dalle trappole delle “cartoline sbiadite”, per utilizzare ancora l’efficace espressione di Deotto. Un processo di ‘cartolinizzazione’ – si potrebbe azzardare – e di ‘vetrinizzazione’ dei territori a uso e consumo dell’industria del turismo: anche gli spazi naturali di tutto il mondo, come le città, sembrano infatti sottoposti a un continuo processo di gentrificazione7. Ma sotto la fragile membrana della vetrina c’è sempre e comunque la realtà, dura, mai rigida e scontata, mai facile, con tutte le sue contraddizioni che, oggi, anche in seguito alla globalizzazione galoppante e al surriscaldamento climatico, stanno diventando sempre più ciniche e violente.
F. Deotto, L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia, Bompiani, Milano, 2021, p. 15. ↩
Ibid. ↩
cfr. ibid. ↩
ivi, p. 169. ↩
ivi, p. 179. ↩
ivi, p. 180. ↩
Cfr. G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, Il Mulino, Bologna, 2015 e S. Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma, 2019. ↩