di Francesco Festa

Paolo Perri, Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale, prefazione di Michel Huysseune, Donzelli, Roma, 2023, pp. 258, € 28.00

Il 30 maggio scorso la camera bassa del parlamento spagnolo ha approvato una legge di amnistia per gli indipendentisti catalani, una misura controversa fortemente voluta dal governo di Pedro Sánchez per mettere fine a una stagione di conflitti sociali in una regione trainante d’Europa.
In realtà a cinque anni di distanza dalle giornate autunnali del dormiente eppur mai sopito indipendentismo catalano, molte cose sono cambiate. Tutti i protagonisti di quegli eventi – e dalla parte spagnola e dalla parte indipendentista – non ricoprono più incarichi di rilievo, e a quell’atteggiamento oltranzista si sono sostituiti tentativi di negoziato, benché incompiuti e per ora piuttosto timidi. Anche se la parola fine per l’indipendentismo se non per il nazionalismo è un eufemismo. Sotto traccia questi fenomeni persistono, covano, e all’occorrenza riesplodono. E lo sanno bene i due partiti indipendentisti catalani, Junts ed Esquerra, ché dopo l’approvazione hanno avvertito: “no acaba nada”. L’amnistia non segna la fine della lotta per la Catalogna libera, il prossimo obiettivo è il referendum per l’indipendenza.

Riportiamo la memoria all’autunno del 2017, e non in una regione periferica, bensì in una fra le regioni economicamente più avanzate dell’Europa, locomotiva della produzione estrattiva, chimica e farmaceutica, dove i catalani hanno toccato con mano la possibilità di costituirsi in Stato indipendente. Difatti, da una parte hanno concretamente minato l’integrità territoriale della Spagna, dall’altra hanno dato seguito politico al desiderio sui generis, stratificato nella storia, proclamandosi per poche ore Stato autonomo e indipendente, a seguito dell’esito positivo del referendum. Le cose non sono andate proprio così, in maniera lineare o pacifica, anzi, la legge e la repressione hanno posto fine manu militare a tale processo. D’altronde ogni qualvolta la sovranità territoriale è minata, e quel principio politico a fondamento dello Stato, secondo il quale l’unità politica e quella nazionale debbano coincidere – come segnalato da Ernest Gellner – viene messo in discussione, allora, il Leviatano mette in campo tutta la propria forza militare.

Di contro, le “comunità in cerca di Stato” rispondono, non retrocedono, ma continuano sotterraneamente a scavare, si organizzano e, al momento opportuno, si sollevano, cercando di far coincidere i processi di costruzione politica della propria identità statale (state-building) con quelli d’identità nazionale (nation-building). E si badi: l’identità nazionale è sempre in fase più avanzata rispetto al potere costituito, poiché essa rinvia alla scrittura e alla riscrittura dei processi storici. In altre parole, l’identità nazionale quale fondamento della legittimità politica dello Stato è immanente alla storia e alla cultura di una comunità rispetto allo Stato che invece è esterno, trascendente, estraneo.

In realtà il nazionalismo riemerso in Catalogna, a richiamo di quello scozzese di qualche anno prima – con la vittoria del “No” (55,30%) alla separazione dal Regno Unito – è un fenomeno consustanziale alla forma politica degli stati moderni, dalla fine del Settecento, con una diffusione nell’Ottocento, e l’esplosione ideologica e organizzativa durante il Novecento. Ma le cui radici allignano nella storia di una regione o di una comunità, nelle stratificazioni di racconti e di miti costruiti e ricostruiti dai processi discorsivi e mitopoietici, ossia dalla creazione collettiva di miti, racconti o storie strettamente vincolate a quella comunità. Emile Durkheim diceva infatti che i miti hanno il compito di dare coesione alle collettività umane attraverso la creazione di un linguaggio comune per nominare le cose e i comportamenti. Furio Jesi individuava nel mito la facoltà di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un “eterno presente”. Insomma, il nazionalismo si nutre di un eterno presente per animare i cittadini, da cui attingere a seconda degli usi politici. Ernesto Laclau lo avrebbe chiamato “significante vuoto”, un concetto discorsivo aduso per tutte le formazioni politiche, camaleontico nel trasformarsi in base alle esigenze e agli interessi politici ed economico-sociali.

Di per sé è un “fenomeno politicamente magmatico”, con dei rimandi epici al mito di Proteo, vecchio dio del mare dell’Odissea, quella divinità omerica in grado di cambiare forma e aspetto a seconda delle circostanze, e che ci offre una suggestiva esemplificazione dell’oggetto di questo libro. Un esempio letterario con cui Paolo Perri, in Nazioni in cerca di Stato. Indipendentismi, autonomismi e conflitti sociali in Europa occidentale introduce il campo di studio e cerca di mettere in guardia il lettore da facili semplificazioni o da analisi politiche in cui si potrebbe incappare cercando di tradurre quel fenomeno in rivendicazioni localistiche o provincialistiche tipicamente nostrane. Il nazionalismo è una “categoria ribelle alla conoscenza scientifica” – avverte Perri – negli studi storici, sociologici e politologici, questo fenomeno è assai sfuggente all’inquadramento in apparati ideologici o a modelli universali, poiché i movimenti nazionalisti abbracciano orientamenti ideologici differenti, contraddicendo proprio quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore.

Perri cerca di inquadrare la categoria, riconoscendone la complessità come fattore costitutivo dei movimenti stessi, evitando così metodi e schemi troppo rigidi, pena la difficoltà di leggerne le differenze da movimento a movimento, da regione a regione. Egli adopera, infatti, un approccio multidimensionale e multidisciplinare, e da storico rafforza la ricerca consultando una mole di documenti di prima mano in archivi di mezza Europa, per indagare con metodo comparativo “origini, caratteri, trasformazioni e persistenze dei nazionalismi sub-statali all’interno di quattro diversi stati dell’Europa occidentale: Francia, Belgio, Gran Bretagna e Spagna”. Nello specifico, riguardano le seguenti regioni: Bretagna, Corsica, Fiandre, Vallonia, Galles, Irlanda, Scozia, Catalogna, Galizia, Paesi Baschi.

La versatilità del concetto si riflette proprio nella “babele terminologica” generata dal nazionalismo, in cui l’autore cerca di districarsi ricorrendo, invece, a categorie come “nazioni senza stato”, “nazionalismi periferici”, “nazionalismo sub-statale”. Altro dato che ne dimostra la camaleonticità è “la capacità dei movimenti nazionalisti di abbracciare orientamenti ideologici differenti, contraddicendo quelle teorie che hanno presentato questi fenomeni come non ideologici, post-ideologici o di orientamento prevalentemente conservatore” (p. 233). Le differenti posizioni, talvolta, riflettono le fratture e le contraddizioni (cleveages) presenti nei rapporti sociali se non nella composizione di classe, vale a dire, centro/periferia, stato/chiesa, città/campagna, capitale/lavoro, sennonché in contesti di composizione operaia o post-operaia questi fenomeni assumono connotati di classe se non di sinistra; in altri casi, dov’è maggiore la concentrazione finanziaria i partiti o le organizzazioni indipendentiste si spostano al centro o a destra. Un caso esemplare è la Galizia, dove vi sono partiti “nazionalisti” situati lungo tutto l’arco politico parlamentare.

Interessante è soffermarsi ancora sulla costruzione dell’identità e, di contro, i processi di centralizzazione od omogeneizzazione politico culturale messe in atto dagli stati-nazione. La domanda che Perri pone è come fanno “i movimenti nazionalisti a capitalizzare politicamente gli elementi identitari?” Considerando che “l’identità nazionale non [possa] essere creata del tutto ex nihilo dagli intellettuali nazionalisti, ma deve necessariamente poggiare su sentimenti, valori e identità pre-esistenti […] come memorie condivise, la lingua la religione, i costumi, il folklore, le antiche istituzioni locali e le leggi tradizionali.” (p. 21). Egli adopera uno schema composto di tre fasi di sviluppo: la prima di carattere intellettuale, in cui una ristretta cerchia di studiosi si concentrano sulla storia, la lingua, la letteratura, i miti e le tradizioni di una comunità, al fine di porre delle basi comuni; la seconda vede l’emergere di élites politiche che “reclamano la formazione di un nuovo stato per diventarne classe dirigente; mentre nella terza, il nazionalismo “acquisisce finalmente una dimensione di massa, realizzando i propri obiettivi o innescando dei veri e propri conflitti con lo stato centrale.” (p. 22)

In generale, durante il processo di formazione degli stati moderni, il ricorrere alla leva indipendentistica riflette le fratture economico-sociali che genera il capitalismo, a seconda delle sue fasi di accumulazione. Nell’Ottocento, le rivendicazioni erano figlie dei processi di industrializzazione e di accumulazione originaria, di talune regioni rispetto ad altre. Fra le due guerre del secolo scorso, i nazionalismi ebbero la vera svolta come ideologizzazione, a seconda delle posizioni – quelle nazifasciste, ma anche quelle di matrice socialista e comunista, si pensi al libro Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in cui Lenin descriveva il processo di differenziazione e valorizzazione dei molti gruppi etnici presenti nell’Unione delle Repubbliche Sovietiche, ove tramite repubbliche e sub-repubbliche venivano garantite le etnie non russe, nelle forme di autonomia e protezione dalla dominazione centralizzante; mutatis mutandis, Josip Tito in Jugoslavia prese ispirazione da tale modello.

Nel corso del Novecento, le lotte di liberazione e il decolonialismo, diede nuova linfa ai partiti e alle organizzazioni indipendentistiche, talvolta organizzando i conflitti sociali in forme di lotta armata e clandestina; e talvolta sfruttando gli equilibri della guerra fredda. Venuta meno questa, la stessa lotta è andata tramutandosi in organizzazione del conflitto nelle forme istituzionali ed elettorali, senza trascurare la possibilità di tornare a battere le strade della lotta e della guerriglia urbana, come spesso accade in forme circoscritte eppur persistenti a Belfast, nei Paesi Baschi e in Corsica. Con gli anni Duemila le scienze sociali iniziano a interrogarsi sulla capacità delle identità storico-culturali territorialmente radicate alle comunità, di sopravvivere alle sfide della globalizzazione neoliberista, alle relazioni liquide e precarie, ai rapporti produttivi e logistici a-territoriali, inseriti in un “villaggio globale”.

Dinanzi a questi presagi le “nazioni senza stato” hanno resistito, soprattutto quando le crisi finanziarie del 2007-08 hanno minato le solide basi del neoliberismo e lo spazio europeo, non solamente quello istituzionale, ha offerto visibilità politica alle rivendicazioni dei nazionalismi periferici.
Il fenomeno studiato con estrema profondità in Nazioni in cerca di Stato fa della complessità una caratteristica sia nelle forme organizzative, se non talvolta ideologiche, sia nell’importanza di rappresentare una variabile intra-nazionale con cui i movimenti e la classe politica devono fare i conti, poiché è quella leva che, trascurata, rischia di sorprendere dopo la sua emersione. Così avverte, l’autore:

all’incertezza, alla precarizzazione lavorativa ed esistenziale e all’allargarsi della forbice sociale prodotti dalla crisi il nazionalismo ha risposto con un progetto partecipativo, inclusivo e progressista di radicalizzazione democratica, mentre, in altri, con delle forme di chiusura neo-comunitarista e xenofoba, in cui la comunità nazionale, spesso definita attraverso caratteri ascrittivi e biologico-razziali, viene invece mobilitata per difendere le proprie risorse contro un presunto pericolo esterno (migranti, burocrazia europea, stato centrale, ecc.). La persistenza della frattura centro-periferia, la forza o debolezza degli elementi culturali, linguistici e religiosi, i vari contesti economici, le differenti opportunità politiche e l’atteggiamento dei governi centrali sono tutti elementi che hanno contribuito, e contribuiscono, all’evoluzione ideologica dei movimenti nazionalisti e della loro base sociale (pp. 237-38).

È un’ideologia dal nucleo sottile, non una complessità, quella del nazionalismo senza ideologia, altrimenti non si spiegherebbe perché in base al contesto in cui si trova ad agire possa adottare idee molto diverse, nella sua plasticità:

il suo orientamento ideologico può evolversi o venire addirittura stravolto per adattarsi alle diverse situazioni e ai mutati contesti socio-economici […] per questo esistono varie tipologie di nazionalismo politico – liberale, democratico, socialista, fascista, conservatore, comunista – e se non ne tenessimo conto, se ne minimizzassimo la dimensione prettamente ideologica, non riusciremmo a comprenderne la capacità di mobilitazione e, soprattutto, a spiegare efficacemente il sostegno di cui godono ancora oggi questi movimenti, a dispetto di ogni previsione passatista (p. 238).