di Walter Catalano
Boileau-Narcejac, Le lupe, trad. Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Adelphi, pp. 180, euro 18,00 stampa.
Boileau-Narcejac, cioè l’indissolubile coppia letteraria formata da Pierre Boileau (1906-1989) e Pierre Ayraud, in arte Thomas Narcejac (1908-1998), sono stati, insieme ma in modo diverso da Georges Simenon, i fondatori di quel genere tipicamente francofono che, ai tempi quando iniziarono a praticarlo, veniva catalogato semplicemente come roman policier, ma che proprio grazie alle caratteristiche da questi autori più marcatamente introdotte, venne ribattezzato – all’inizio solo dai critici cinematografici per classificare certi film americani – noir, e che, ancora più tardi, avrebbe finito per assumere in Francia il neologismo di polar: policier+noir.
Le caratteristiche sono in realtà molto diverse da quelle del poliziesco classico e per lo più anche da quelle del poliziesco hard-boiled all’americana: determinante è soprattutto l’atmosfera claustrofobica, oppressiva e oscura, il clima di insicurezza, disorientamento e angoscia; poi la tortuosa e conflittuale costruzione delle psicologie dei personaggi, con la presenza di figure – ormai secolarizzate e non più soprannaturali ma comunque derivate dal roman noir in senso classico, cioè dal gotico – come il revenant o il Doppelgänger, (questo aspetto, tipico di Boileau-Narcejac, esclude di solito le componenti naturalistiche di Simenon); soprattutto la trama non prevede un detective ma è vista dalla parte degli assassini o da quella delle vittime (nel secondo caso in Boileau-Narcejac manca quasi del tutto quell’elemento simpatetico caratteristico, ad esempio, della suspense psicologica di Cornell Woolrich, l’autore americano forse a loro più vicino).
I due scrittori iniziano a pubblicare separatamente, scimmiottando i thriller americani e spesso firmando sotto pseudonimo anglosassone. Nel 1947 Boileau legge un saggio di Narcejac, L’esthétique du roman policier, che lo colpisce molto: cominciano a intrattenere rapporti epistolari e si incontrano personalmente quando uno dei due riceverà per un proprio romanzo il Prix du Roman d’Aventures. Tre anni dopo iniziano a scrivere in coppia: in genere Boileau fornisce la trama e Narcejac sviluppa l’atmosfera e le caratterizzazioni. Il primo romanzo uscito nel 1951, L’ombre et la proie, e firmato Alain Bouccarèje (anagramma di Boileau-Narcejac), passa sotto silenzio, ma già il secondo del 1952, Celle qui n’était plus, è un grande successo che assicura loro la gloria cinematografica: il grande regista Henri-Georges Clouzot lo porterà sugli schermi nel 1955 con pochissime varianti, l’inversione di sesso fra assassino e vittima (con le implicazioni velatamente saffiche che ne derivano) e un titolo ripreso da Barbey d’Aurevilly, Les Diaboliques, oltre a un cast d’eccezione: Simone Signoret, Véra Clouzot, Paul Meurisse e Charles Vanel. Un colpo ancora più grosso sarà fatto nel 1958 quando addirittura varcheranno le soglie di Hollywood avendo attirato l’attenzione di Alfred Hitchcock, che realizzerà uno dei suoi maggiori classici, Vertigo con Kim Novak e James Stewart, ispirandosi al quarto romanzo del duo uscito nel 1954, D’entre les morts.
In Italia questi Fruttero&Lucentini francesi, erano stati invece pubblicati senza alcun criterio e sempre in piccole collane riservate alla letteratura “gialla”, finchè, come da anni sta facendo con Simenon, Adelphi non ha cominciato a occuparsi – con la cura e il rispetto dovute ad autori importanti – anche di loro: la riproposta di testi già editi in nuova traduzione è iniziata nel 2014 con I diabolici e proseguita nel 2016 con La donna che visse due volte (il titolo italiano di Vertigo, il film di Hitchcock), e sempre nel 2016 con Le incantatrici (Les Magiciennes, 1957), altro romanzo sull’ossessione del doppio, poi nel 2023 I volti dell’ombra (Les Visages de l’ombre, 1953), il terzo romanzo, uno dei più spietati e inquietanti, sull’ambiguo rapporto tra realtà e percezione quando non si possa più disporre del principale dei sensi, la vista.
È ora la volta invece di un testo completamente inedito in Italia, il quinto romanzo scritto dal duo, Le lupe (Les Louves, 1955), che presenta tutte le abituali caratteristiche destabilizzanti tipiche della loro narrativa: la confusione delle identità, l’instabilità psicologica, i ribaltamenti di ruolo, l’ambivalenza morale, l’indeterminazione problematica fra vittima e carnefice, l’atmosfera cupa e opprimente, la tensione erotica soffusa e sottilmente perversa.
La vicenda, ambientata a Lione nel 1941, nello scenario fosco della Francia occupata in cui i rastrellamenti nazisti e le azioni armate della Resistenza, il coprifuoco, il razionamento, restano però sullo sfondo, mostra in tutto il suo squallore provinciale un angusto mondo di borghesi concentrati unicamente sui propri egoistici interessi e del tutto indifferenti a quanto sta accadendo loro intorno. Due fuggiaschi da un lager che interna gli ex-combattenti francesi dopo la resa – uno di loro vivrà e l’altro morirà, ma il vivo prenderà il posto del morto – un’enigmatica madrina di guerra, l’ancor più enigmatica sorellastra di lei, pretesa medium e veggente, la vera sorella del morto che inspiegabilmente non riconosce lo scambio di persona col vivo. Questi sono gli unici personaggi. Poi l’atmosfera: la forzata convivenza comune in una vecchia casa silenziosa, polverosa e decadente in cui tutti spiano tutti, e ognuno ha un secondo fine nascosto agli altri, un’altra faccia oscura e segreta. L’interessata ma incostante seduzione dell’impostore sulle ospiti, la feroce rivalità amorosa tra le due sorellastre – una apparentemente frigida, l’altra apparentemente sensuale – che si disputano le attenzioni (e le effusioni) del maschio – e a cui en passant non si sottrae neppure la presunta sorella maggiore di lui, ritrovata o forse definitivamente perduta – inscenano un teatro della crudeltà che mi ha, per molti aspetti, ricordato, per quanto storia e contesto siano molto diversi e lontanissimi, quel capolavoro che è stato il film di Don Siegel The Beguiled (da noi La notte brava del soldato Jonathan) con Clint Eastwood (mi riferisco al film originale del 1971 non al men che mediocre remake di Sofia Coppola del 2017): tregenda che ha per epicentro la castrazione e lo spolpamento, in senso non proprio metaforico, di un maschio sostanzialmente disarmato da parte di un gruppo di donne.
Ma in Le lupe nessuno è davvero disarmato e tutti tramano contro tutti gli altri, tutti ingannano e mentono, tradiscono e simulano: un indiscriminato jeu de massacre, del tutto privo di passione e ridotto a grigio meccanismo mosso solo da avidità, venalità e ipocrisia, procurerà, colpo dopo colpo, l’estinzione di tutto il branco di contendenti, precipitandoli, uno dopo l’altro, alla comune perdizione.
Non è difficile leggere in questo oscuro apologo, una metafora dei vizi della borghesia francese, inerte, opportunista, disposta ad accondiscendere per il proprio tornaconto a qualsiasi compromesso, tradendo occupanti e patrioti, destreggiandosi strumentalmente tra Resistenza e Collaborazione. Questa lettura troppo esplicita tentò di dare, in modo assai meno fine e riuscito di quello del romanzo, il regista Luis Saslavsky nel film omonimo che ne trasse nel 1957 (da noi arrivato come I demoniaci, sull’onda del successo di Clouzot) con Jeanne Moreau e François Périer, un film decisamente minore e dimenticabile (e che infatti venne quasi da subito dimenticato) per un romanzo invece assolutamente indimenticabile del quale dobbiamo oggi ringraziare l’esperienza e il buon occhio di Adelphi.