di Gioacchino Toni
Cristina Casero, Federico Marzi, a cura di, D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, Postmedia books, Milano 2024, pp. 106, € 14,00
Derivato dall’omonimo seminario che si è tenuto nel maggio del 2023 presso il Centro per le Attività e le Professioni delle Arti e dello Spettacolo dell’Università di Parma, il volume D’inchiostro, d’argento, di pixel. Rapporto tra parola e fotografia nel mondo dell’immagine, (Postmedia books 2024), curato da Cristina Casero e Federico Marzi, raccoglie una serie di contributi che indagano il complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine. In un panorama mediale come quello contemporaneo, in cui l’immagine fotografica sembra ambire a sostituirsi alla scrittura, indagare il rapporto tra i due linguaggi espressivi assume una particolare importanza anche alla luce delle inedite possibilità di manipolazione delle immagini offerte dal digitale.
Se da un lato l’immagine fotografica, per la sua immediatezza, risulta estremamente efficace dal punto di vista comunicativo, tanto da poter offuscare il testo, è altrettanto vero che l’interpretazione dell’immagine fotografica viene indubbiamente indirizzata dal testo che la accompagna. Che si tratti di una semplice didascalia o di un testo più corposo e complesso, nell’attuale contesto visivo la parola continua ad avere un ruolo importante nel suo confronto con l’immagine fotografica e, come è emerso dal seminario in questione, la sintesi di entrambi i linguaggi si rivela assolutamente essenziale per la costruzione di un significato autentico e profondo.
Passando in rassegna gli studi di Bertold Brecht, sul rapporto tra testo scritto e fotografia a proposito dei servizi giornalistici sulla seconda guerra mondiale, e di Walter Benjamin, sul ruolo della didascalia nella significazione fotografica, del proficuo rapporto tra scrittori e fotografi e delle esperienze artistiche basate sul rapporto tra le due pratiche comunicative, Roberta Valtorta evidenzia la complessità del rapporto fra l’immagine fotografica e la parola. La studiosa passa dunque in rassegna, nelle loro differenti modalità, sia diversi celebri rapporti che si sono dati tra scrittori e fotografi, che diverse modalità con cui gli artisti hanno fatto dialogare i due diversi sistemi espressivi. Per quanto riguarda il rapporto tra scrittori e fotografi, la studiosa ricorda i casi di: Elio Vittorini e Luigi Crocenzi, Cesare Zavattini e Paul Strand, James Agee e Walker Evans, Gianni Celati e Luigi Ghirri, Giorgio Messori e Vittore Fossati. Tra le esperienze artistiche incentrate su forme narrative verbo-visuali, su dialoghi o conflitti tra fotografia e parola, Vlatorta riporta i casi di alcuni protagonisti delle Prime e, soprattutto, delle Seconde avanguardie novecentesche: Joseph Kosuth, John Baldessari, Vito Acconci, Victor Burgin, Franco Vaccari, Luigi Ghirri, Duane Michaels, Barbara Kruger, Jochen Gerz, Sophie Calle o, in casi più recenti, in cui il rapporto tra immagine fotografica e parola scritto sembra complicarsi ulteriormente, come in Bianco-Valente, Claudio Beorchia, Joachim Schmid. In conclusione del suo intervento, in cui sono tratteggiate diverse modalità con cui i due linguaggi espressivi si sono confrontati tra loro, rifacendosi al convincimento di William John Thomas Mitchell – “There are no Visual Media” – Roberta Valtorta invita a chiedersi se davvero non sia il caso di abbandonare una volta per tutte l’idea che esista una specificità del visivo e prendere atto che «tutti i media sono misti, e un medium agisce nell’ambito di pratiche sociali complesse e non come qualcosa di specifico determinato da una qualche tecnologia che possa dotarlo di una speciale specificità».
Pensando al “fototesto” come a un ecosistema intermediale e retorico in cui sono compresenti linguaggio fotografico e verbale-letterario in un equilibrato rapporto di confronto e integrazione, Paolo Villa approfondisce la particolare e breve esperienza di interazione e sperimentazione fra fotografia, cinema, giornalismo e letteratura proposta dai “fotodocumentari” della rivista «Cinema Nuovo». Una volta analizzato il fototesto nei diversi elementi mediali e discorsivi che lo compongono, guardando tanto alle singole specificità che alle loro reciproche relazioni, e dopo aver tratteggiato il contesto italiano di metà degli anni Cinquanta in cui si collocata l’esperienza dei fotodocumentari (dal 1954 al 1956), Villa analizza questi ultimi attraverso l’enucleazione dei livelli strutturali e delle strategie comunicative che li contraddistinguono. Nonostante si sia trattato di un’esperienza decisamente minoritaria, indubbiamente «Cinema Nuovo», con i suoi fotodocumentari, caratterizzati da un’evidente matrice cinematografica, ha contribuito allo «sviluppo di una fotografia documentaria moderna e aggiornata al contesto internazionale, intesa come strumento autonomo di indagine sociale, dimostrato dal pieno riconoscimento autoriale assegnato ai fotografi».
Al ruolo del fotografo di scena, nato insieme al cinema, nel suo narrare il processo di realizzazione di un film rendendo pubblico e visibile il lavoro dietro e davanti alla cinepresa è dedicato il contributo di Sofia Panza. L’ingaggio di fotografi di scena risponde innanzitutto all’esigenza di supportare visivamente il film nelle sale, dunque nasce come strumento promozionale che, in Italia, si pone sul solco dei cineracconti diffusi sin dagli anni Venti del Novecento, in un crescendo che proseguirà sino agli anni Sessanta. Tipicamente italiano è poi il fenomeno dei cineromanzi, una forma narrativa ibrida tra cinema, letteratura e fotografia che raggiunge il suo culmine negli anni Cinquanta. Per quanto, come detto, l’origine della fotografia di scena sia promozionale e commerciale, non di meno, soprattutto negli ultimi tempi, è stata riconosciuta come fonte documentaria importante capace di rivelare importanti informazioni non solo circa il lavoro dei registi e degli attori, ma anche dalle più diverse maestranze che concorrono alla realizzazione dei film. L’archivio fotografico di Rodrigo Pais esaminato da Panza, può essere visto come importante esempio di documentazione visiva del mondo cinematografico indagato dal fotografo per oltre mezzo secolo.
Partendo dalla definizione di archivio, Federico Marzi si occupa del legame tra l’immagine fotografica e la parola scritta; due modalità comunicative che, per quanto differenti, all’interno dell’archivio fotografico risultano essere del tutto complementari nella ricostruzione di tracce che rimarrebbero altrimenti nell’ombra della storia. Indagando tre casi studio – Archivio Publifoto, Archivio Foto Vasari e Archivio Bruno Stefani – lo studioso mostra l’importanza del rapporto tra parola e fotografia in archivio nel fornire informazioni utili per la catalogazione e l’accesso alle collezioni fotografiche in formato digitale.
Al percorso artistico di Barbara Kruger, tra gli esempi artistici contemporanei in cui è più evidente la volontà di unire testo e immagine fotografica, è dedicato lo scritto di Alessandra Acocella. Analizzando in particolare alcune mostre tenute dalla statunitense in Italia tra il 1980 ed il 2002 – al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, al Castello di Rivoli, al Centro Pecci di Prato ed al Palazzo delle Papesse di Siena –, la studiosa indaga come l’artista sfrutti mirabilmente le potenzialità comunicative dell’immagine e della parola al fine di creare «dispositivi di riflessione e interrogazione sul significato» su tematiche come la costruzione delle identità e le dinamiche dei rapporti di potere.
Del rapporto tra testi e immagini nella costruzione di fake news si occupa Michele Smargiassi in un intervento in cui evidenzia come le fotografie, pur capaci di amplificare il potere persuasivo delle parole, a causa alla loro storica credibilità come “medium della realtà”, non siano in grado di smentire direttamente una falsità. Soffermandosi in particolare sull’ambito politico, lo studioso sottolinea come, lungi dall’essere riconducibili a “semplice” mancanza di accuratezza, le fake news siano divenute a tutti gli effetti una influente “strategia di comunicazione” utile ad aumentare l’identificazione del pubblico con una causa e un leader.
Giulia Conti individua nella fotografia e nel testo scritto le forme espressive dominanti nella modernità capaci di influenzare profondamente la socialità e la cultura. A superare l’idea che distingue nettamente le due forme comunicative, secondo la studiosa, provvede l’universo dei social network capace com’è di rendere il rapporto tra fotografia e testo decisamente complesso e dinamico, dando luogo a un continuum transmediale. Per quanto si voglia superata l’ingenua pretesa dell’obiettività delle fotografie, queste sembrano continuare ad offrire interpretazioni e narrazioni deformate della realtà. Conti propone dunque «una riflessione sociologica su come le affordance, le particolarità intrinseche dello spazio social, e le pratiche che ne derivano ci inducano a considerare il messaggio trasmesso attraverso i social come un costrutto olistico, in cui convergono semiotiche diverse, spesso inscindibili le une dalle altre». Dopo un breve excursus sulle caratteristiche della socialità online, la studiosa si concentra «su cosa significa usare foto e testi come grammatica estetica tipica di una delle dimensioni della nostra socialità», giungendo alla conclusione che fotografie e testo «si fanno parte organica dell’autopoiesi che i sistemi social(i) portano avanti».
A chiudere il volume è il contributo di Ylenia Caputo volto a mostrare come nei tempi recenti sia profondamente cambiata l’immagine della “celebrità” alla luce della demistificazione operata dalla televisione e dalle piattaforme mediatiche che hanno immensamente esteso la possibilità di fama, per quanto effimera possa essere, a soggetti a cui un tempo sarebbe stata preclusa. La sola immagine, scrive Caputo, «non basta per giustificare la rivoluzione del paradigma della celebrità. Anche la parola si rivela un elemento soggetto a forte metamorfosi, che contribuisce fortemente alla decostruzione della celebrità, avvicinandola al pubblico, ricollocandola nel mondo ordinario». Insomma, è il particolare rapporto che si è andato a creare tra parole a immagine, permesso dal digitale, che ha permesso, come mai prima, alla figura della celebrità di avvicinarsi al pubblico e inserirsi nella vita quotidiana.
Il volume curato da Cristina Casero e Federico Marzi ha il merito di guardare al complesso rapporto tra parola e fotografia nell’odierna società dell’immagine accantonando la semplicistica idea che vuole l’immagine tiranna assoluta dei nostri giorni.