di Sandro Moiso

Mirella Mingardo, Rita Majerotti. La lunga militanza: dagli esordi all’immediato secondo dopoguerra, Pagine Marxiste, Serie viola Donne proletarie n° 1, Milano 2024, pp. 302, 15 euro.

Credo che si “nasca” socialisti, come si nasce poeti.
(Rita Majerotti)

Con il primo fascicolo della «serie viola», dedicata alle biografie e alle storie di donne proletarie, prosegue l’impegno del collettivo politico-editoriale di Pagine Marxiste teso a riportare alla luce le vicende e le vita di tanti militanti comunisti che le sconfitte della Storia e le opportunistiche rimozioni da parte della Sinistra, anche non istituzionale, hanno contribuito a cancellare dalla memoria di classe.

Il presente volume, ancora una volta è stato curato da Mirella Mingardo, studiosa e militante che in passato ha già pubblicato uno studio su Togliatti guardasigilli (Colibrì 1998), con lo scomparso Arturo Peregalli, mentre sempre per i tipi di Pagine Marxiste ha pubblicato I comunisti italiani e la guerra civile spagnola. La stampa clandestina 1936-1939 (nel 2016) e Cronache rivoluzionarie a Milano 192-1923. Dalla Sinistra socialista alla Sinistra comunista (2022).

La figura posta al centro dell’attenzione , in questo caso, è quella di Rita Majerotti, maestra ed esponente socialista e poi comunista di Castelfranco Veneto, la cui vita ha attraversato i primi sessant’anni del Novecento, sempre schierandosi spontaneamente dalla parte delle donne e della rivolta proletaria, dall’iniziale collaborazione con la stampa socialista alla fondazione del Partito comunista d’Italia fino agli anni oscuri del Fascismo e della controrivoluzione staliniana e alla ripresa politica post-bellica nell’illusione delle promesse togliattiane della democrazia partecipativa e del partito di massa.

Ma, sebbene gli studi su di lei non manchino, il suo nome resta ancora poco noto. Così la ricerca, che segue l’intera sua vita, dalla giovinezza all’età matura, e sul percorso politico – che poggia su indagini precedenti – è stata condotta con l’intento di dare voce a una donna che ha dedicato tutta la sua vita all’insegnamento e alla militanza nel PSI e nel PCd’I. Una militanza che aveva come obiettivo il raggiungimento di una svolta rivoluzionaria, che restituisse finalmente vita e dignità alla grande maggioranza, sfruttata e oppressa, delle donne e degli uomini.

Soprattutto alle donne proletarie, doppiamente sfruttate e oppresse, fuori e dentro casa, che la Majerotti, che aveva personalmente conosciuto, soprattutto durante il disgraziato primo matrimonio, sia lo sfruttamento lavorativo che la violenza, talvolta esplicita e talvolta implicita, connessa ai “doveri coniugali” oltre che la perdita, in tenerissima età, dei primi due figli sui quattro avuti da quel rapporto, richiamava al dovere di avvicinarsi alla politica; un dovere imposto proprio dall’amore, per garantire un diverso futuro alle successive generazioni.

La sua azione politica acquistò un peso rilevante sin dagli anni del primo conflitto mondiale e si svolse dapprima nella Frazione Intransigente del PSI, aderendo all’ala più a sinistra della corrente, e poi nella Frazione comunista Astensionista, collaborando in questo modo alla nascita del PcdI e stringendo rapporti con i suoi maggiori esponenti.

Azione e impegno che si svolsero lungo tre direttrici ben precise: quello del lavoro sindacale e ideale sul tema dell’istruzione popolare e del lavoro delle maestre (e dei maestri); quello della liberazione della donna e della sua sessualità e, last but not least, quello dell’organizzazione politica destinata a trasformarsi in azione rivoluzionaria per la liberazione della classe proletaria dai vincoli imposti dalle leggi dello sfruttamento capitalistico e borghese.

Le sue parole costituirono sempre un fiume incessante, mentre il suo messaggio rimase uguale nel tempo, espressione di una dedizione totale, nonostante l’emarginazione imposta dalla Direzione Centrista del partito – che colpì tutta la Sinistra – e le molteplici traversie che fu costretta a vivere, e a superare. Compresa la perdita del secondo compagno, Filippo D’Agostino fondatore del Partito comunista a Bari, con cui aveva condiviso idee e azione politica oltre che la vita famigliare, ucciso nel corso del 1944 con altri ventun compagni nel campo di concentramento e sterminio nazista in cui era stato trasferito dopo l’arresto avvenuto in Italia.

Ma era stato proprio durante il duro lavoro svolto come maestra, ai tempi della legge Casati, quando l’istruzione popolare costituiva più un obbligo formale che reale per lo Stato, sottoposta com’era al controllo delle amministrazioni locali e, soprattutto, della chiesa e dei suoi rappresentanti in loco, i parroci, che la giovane Rita aveva quasi immediatamente dovuto fare i conti con l’ipocrisia borghese e la mentalità conservatrice e anti-proletaria all’epoca dominante nelle città come nelle campagne.

Era nata a nel 1876 da una famiglia benestante in cui il padre, Eugenio Majerotti, anticlericale e garibaldino, era il direttore delle scuole urbane, mentre la madre, Elvira de Mori, fervente cattolica, vantava origini aristocratiche. Influenzata per lo più dalle idee del padre, dopo aver terminato gli studi magistrali, iniziò a insegnare nelle scuole elementari della campagna trevigiana, dove l posto non le venne rinnovato a causa delle sue idee laiche e per il suo metodo razionale.

Storia che si sarebbe ripetuta ancora altre volte, in un contesto in cui le giovani maestre erano spesso additate come persone dalla dubbia moralità, a causa della giovane età e indipendenza, proprio da quegli amministratori che riducevano drammaticamente e drasticamente i loro compensi, costringendole spesso a vivere in autentici tuguri e in condizioni di povertà, e dai parroci che ne combattevano lo spirito laico e razionale ogni qualvolta si presentasse nel corso dello svolgimento del loro lavoro. Entrambi, parroci e amministratori, alleati nel limitare i danni che una maggiore istruzione delle classi popolari avrebbe potuto arrecare all’ordine clericale e borghese all’epoca dominante.

Condizioni che, come spiega nelle sue pagine Mirella Mingardo, condussero alcune giovani maestre a togliersi la vita, sia per l’iniqua e ingiusta condanna morale ricevuta che per le condizioni di esistenza e lavoro quotidiano, con classi che giunsero all’epoca a sfiorare o superare i settanta allievi. E sarebbe stato proprio sulle pagine dei giornali locali socialisti o di quelli legati ai problemi della scuola che la Majerotti avrebbe avuto il proprio battesimo di scrittura critica dell’esistente su periodici socialisti come «La Fiamma», «Su compagne!», «La Nuova terra» e altri ancora.

Per la Majerotti «l’adesione “inconsapevole” al socialismo risaliva alle lotte contro un costume oppressivo e bigotto che le aveva procurato tanta sofferenza […] Nel Veneto chiuso e conservatore, in cui forte era l’influenza clericale, Rita, maestra rurale, precaria, sola, costretta ad alloggi meiserrimi, riteneva che l’insegnamento nelle scuole primarie fosse un’arma potente contro la “superstizione religiosa”, “la morale militarista della violenza” e il “diritto del più forte”»1.

Ma era costretta anche a rilevare come, nonostante il coraggio di poche che non temevano di manifestare la propria indipendenza di idee, la maggior parte delle insegnanti si facesse portavoce di valori tradizionali e cattolici. Cosicché non fossero infrequenti il rifiuto da parte delle famiglie di mandare i figli e, soprattutto, le figlie a scuola ed episodi di cacciata della maestra “indipendente” come simbolo del male. Motivo per cui, sulle pagine di «Il Maestro Mantovano», nel 1909, poteva scrivere: «A questo modo la scuola non è che polvere negli occhi, non è che un trucco vero.»

Sempre attenta alla condizione femminile, nel saggio su Sessualità e desiderio amoroso nell’uomo e nella donna, rilevava poi ancora come la formazione scolastica fosse il terreno indispensabile per la liberazione delle donne he avevano bisogno di “educazione e libertà” e di “indipendenza economica”, affinché le questioni morali non subissero un freno a causa di quelle economiche.

Dal 1 settembre 1913 al 6 giugno 1915 pubblicò a puntate su «La Difesa delle lavoratrici» un romanzo autobiografico con il titolo Pagine di vita (in seguito raccolto nel Romanzo di una Maestra), interrompendone la pubblicazione quando, col primo conflitto mondiale alle porte, la linea del giornale subì un cambiamento, su posizioni sempre più interventiste.

Mentre per la Majerotti la guerra avrebbe costituito sempre una questione politica dirimente, soprattutto dal punto di vista delle donne. L’eterno problema contro il quale il popolo femminile era chiamato a battersi, come scriveva nelle pagine del Romanzo di una Maestra, per affermare:

che la guerra è cosa infame e turpe, che il rispetto della vita umana è sacro, che ammazzare è sempre delitto atroce, che giacché tutti inneggiano alla pace, sia davvero la pace, non una grottesca turlupinatura e le armi sian fuse per lavoro industriale e produttivo e il denaro speso pel benessere dei nullatenenti e che ci lascino i nostri fratelli, i nostri sposi, i nostri figli adorati; siamo noi che dobbiamo rifiutarci (italiane, tedesche, inglesi, francesi, spagnole, russe o giapponesi) di darli in pasto alla barbarie di tempi passati2.

Ecco allora che il tema del “libero amore” e dell’indipendenza non soltanto economica delle donne si ricollegava direttamente ad un programma socialista degno di questo nome, mentre all’epoca era ancora visto negativamente dai partiti “di sinistra” anche se rivendicato da militanti rivoluzionarie come Inessa Armand e Aleksandra Kollontaj, nei cui scritti quella formulazione avrebbe trovato una formulazione più compiuta e articolata.

Rita giunse a conoscenza dell’opera della Kollontaj solo successivamente alla stesura sul saggio sulla sessualità e agli Appunti sull’amore e sulla libertà sessuale, in cui avrebbe affermato che i legami matrimoniali sarebbero stati “tanto più indissolubili” quanto più facile e “permesso” fosse stato poterli scioglierli. E aggiunto con linguaggio efficace e diretto: «Non più vittime ignorate d’amore, non più vergini cuori che languono […] non più venali contratti, matrimoni imposti, legami d’inferno che spingono alla pazzia e al delitto – per esclamare poi ancora – Maledizione all’ipocrisia vile che impone codesta società. Io l’accuso mezzana di tutte le bassezze, di tutte le turpitudini»3.

Dunque, più che di influenza diretta della rivoluzionaria russa su quella italiana, è possibile cogliere negli scritti della seconda comuni riferimenti ideali e politici, un’analoga aspirazione a coniugare libertà individuale e relazioni amorose. Per questi motivi avrebbe contribuito in seguito alla costituzione dei gruppi femminili comunisti, diventando, insieme al marito, una delle protagoniste dell’organizzazione del nuovo partito in Puglia. Cosa che, nel giugno 1921, la portò a far parte della delegazione italiana del PCd’I che partecipò al III Congresso dell’Internazionale Comunista.

Al suo rientro in Italia, a seguito di continui pedinamenti, aggressioni, arresti, decise con il marito di lasciare l’Italia e dal 1925 fu attiva nell’organizzazione dei fuorusciti italiani prima in Belgio e poi in Francia. Dopo il 1945 Rita Maierotti riprese brevemente l’attività politica nel Partito Comunista Italiano e partecipò alla fondazione dell’UDI, Unione Donne Italiane, prima di abbandonare definitivamente il sistema e il mondo contro cui aveva tanto lottato nel 1960.

Naturalmente la ricerca della Mingardo aggiunge ancora molti altri momenti, fatti e documenti nel descrivere una vita tutta dedita alla militanza, prima socialista e poi comunista, e alla causa femminista, ma qui importa in chiusura sottolineare come la causa della liberazione della donna sia indissolubilmente legata a quella della liberazione dal giogo capitalista e dalla sua morale, anche quando travestita di liberalismo e femminismo borghese.


  1. M. Mingardo, Rita Majerotti. La lunga militanza: dagli esordi all’immediato secondo dopoguerra, pagine Marxiste, Serie viola Donne proletarie n° 1, Milano 2024, p. 27.  

  2. R. Majerotti, Il romanzo di una maestra, p. 190 ora in M. Mingardo, op. cit., p. 30  

  3. M. Mingardo, op. cit., pp. 34-35.