Di Jack Orlando
C’è un sole alto nel cielo di mezzogiorno e specialmente a luglio picchia forte.
Nonostante la zona sia incassata in una geografia di montagne dai boschi fitti, la temperatura è quella di una fornace e le migliaia di lapidi bianche, disposte in file perfettamente ordinate, riflettono la luce rendendo l’atmosfera ancora più inabitabile.
Il cimitero è il Memoriale di Potočari, un piccolo insediamento appena sotto la Drina, il fiume che fa da confine tra Serbia e Bosnia-Erzegovina, attualmente compreso nei territori della cosiddetta Repubblica Srpska.
Nella prima metà degli anni ’90 il villaggio è stato la sede di un compound dei caschi blu dell’ONU: nella sanguinosa deflagrazione seguita alla disgregazione della Jugoslavia, Potočari era designata come Safe Zone, un luogo protetto dove poter stare relativamente sereni mentre tutto intorno infuriava la morte.
Il compound, installato dentro una vecchia fabbrica dismessa, ospitava operatori umanitari, traduttori, profughi; era protetto e amministrato da un contingente di soldati olandesi.
Potočari è un nome sconosciuto ai più, ma dista solo sette km, circa due ore a piedi, da Srebrenica.
È in questa safe zone che nel luglio 1995 vennero massacrati quasi diecimila civili inermi, per mano delle milizie cetniche e dell’esercito serbo-bosniaco del generale Ratko Mladjc.
Ventinove anni dopo lo stabilimento che alloggiava i caschi blu è un museo e di fronte, attraversando la strada, è stato eretto il Memoriale dove ogni anno le salme cui si è riusciti a dare un nome vengono inumate. La cifra di 8372 morti è ancora provvisoria dopo sei lustri.
La mattina alla vigilia dell’anniversario il cimitero è ancora quasi vuoto, si aggirano alcuni cameraman e giornalisti, qualche giardiniere, ogni tanto parenti e sopravvissuti.
Le lapidi sono una legione di piccoli obelischi bianchi dall’apice a cupola, scendono dalla collina e si allungano a valle lungo la strada, file strette e ordinate col volto rivolto verso Srebrenica, o magari più giù verso La Mecca, la direzione è la stessa.
Ogni tomba reca il nome e l’anno di nascita del defunto, non c’è bisogno di esplicitare quello di morte, in cima è incisa in arabo Al-Fatiha, prima sura del corano, e l’epitaffio “Non sono morti, vivono ma non potete sentirli”.
Tra questi marmi vaga una donna bassa, sui cinquant’anni, capo coperto e grandi occhiali da sole.
Attorno alle spalle porta una kefiah con la bandiera palestinese, ha l’aria assorta e trattiene un nodo alla gola.
Si chiama Fatmira e qui ha sepolto il suo primo marito e la sua prima figlia, vive da allora negli Stati Uniti dove è riuscita a rifarsi una vita e una famiglia, ma torna ogni anno in questo stesso periodo. Più che dalla guerra è da una ferita insanabile che ha cercato rifugio.
Alla domanda del perché porti, qui e in questo giorno, una bandiera palestinese risponde che “È come rivedere un film, o un incubo. Quando si vedono le immagini dei corpi sulla strada o degli sfollati che vivono accampati tra tende e macerie… Noi quelle immagini le abbiamo già viste e non sullo schermo; sappiamo molto bene cosa stanno vivendo quelle persone”.
Prima della guerra nella zona di Srebrenica vivevano circa quarantamila persone, nella stragrande maggioranza musulmani. Già nell’autunno del ’95 erano andati via quasi tutti, un altro capitolo della diaspora balcanica; ora la popolazione è crollata sotto le diecimila unità, buona parte serbi ortodossi sfollati dal sud dalle milizie croate.
Altre comunità che hanno conosciuto la pulizia etnica e la deportazione che però risignificano il nuovo spazio secondo proprie logiche identitarie. Un territorio di piccole zone omogenee sclerotizzate in una pace tesa, dove la convivenza interetnica rimane difficoltosa.
La sera stessa al cimitero di Potočari arriva la Mars Mari, la marcia della pace che ogni anno ripercorre a ritroso la fuga disperata e fatale di una colonna di civili che tentava di mettersi in salvo dai soldati cetnici.
Migliaia di persone che marciano a piedi, altre che arrivano correndo in maratona da Vukovar, o in bicicletta, bande di bikers e colonne di quad.
È un rito di massa che fonde la dimensione politica del ricordo a quella esistenziale della veglia funebre, la gravità della consapevolezza al caos di una festa di paese; l’energia che si accumula nelle comunità in determinati momenti si riversa sul reale in un caleidoscopio di fenomeni.
Sui petti di ognuno e nei cesti di anziane signore ai bordi della strada spiccano dei piccoli fiori bianchi dalla corolla verde, tessuti all’uncinetto o di piccole perle. È il simbolo creato dalle Madri di Srebrenica in ricordo del genocidio.
La marcia è trapuntata in tutta la sua lunghezza da bandiere e striscioni, emblemi di clan o di unità paramilitari, bandiere nazionali della Bosnia-Erzegovina o, ancora di più, dell’antico Regno di Bosnia (lo scudo coi gigli entrato poi nello stemma della Armija bosniaca). Alcuni portano la bandiera della Turchia, che negli anni ha spinto la sua immagine di mediatore e ricostruttore nella zona balcanica; il legame di fede compensa il fatto che Erdogan faccia molti più affari in Serbia che qui.
Ma soprattutto sono i quattro colori palestinesi i veri ospiti della marcia.
Le persone sfilano con maglie e bandiere della Palestina, con la kefiah sul capo; anche i fiori ricamati di Srebrenica spesso ne prendono i colori.
La solidarietà confessionale è un dispositivo potente del mondo islamico, ed è sempre stata uno dei fattori di mobilitazione internazionale al fianco del popolo palestinese, radicata nel sentimento popolare e nelle politiche estere degli stati. Ma qui c’è qualcosa di differente: un immediato senso di identificazione lega questa gente alle sofferenze in corso dall’altro lato del mediterraneo.
Quella sensazione di deja-vù, di film già visto (o vissuto), avvicina la Drina al Giordano.
È qualcosa che ripetono tutti. Una ragazza appena ventenne, che quest’anno seppellirà le spoglie degli zii, appena riconosciuti, aggiunge che “la vera differenza è la tecnologia: qui le milizie venivano armate di fucili e coltelli, uccidevano persone che avevano fisicamente davanti e nessuno di loro da quel momento poteva dirsi estraneo a quel che faceva. Alcuni lo rivendicano tutt’ora, altri sono stati travolti dalla propria coscienza, qualcuno si è tolto la vita per i sensi di colpa, qualcun’altro ha testimoniato ai processi della Corte Internazionale.
Israele invece distrugge tutto con aerei, droni e missili; per la maggior parte delle morti di Gaza nessuno si sentirà responsabile, i soldati che hanno ucciso lo hanno fatto dentro stanze lontane dal campo di battaglia, su poltrone comode, come se giocassero alla playstation. Se nessuno di loro sente il peso delle sue azioni, come potrà domani fare i conti con la storia? Come potrà mai rimettere in discussione quanto accaduto?”
L’ONU è morta a Sarajevo è il titolo di un vecchio libro-denuncia che racconta le mancanze e le colpe della comunità internazionale. È un titolo azzeccato, la mattanza bosniaca si consumava mentre le Nazioni Unite e l’Europa si stracciavano le vesti e organizzavano conferenze infruttuose, i cosiddetti sforzi della comunità internazionale lasciavano ai cecchini campo libero per sparare sui civili mentre si cercava una quadra che accontentasse tutti.
Tra le condanne del tribunale internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia, ne figura anche una per l’Olanda: non solo i suoi soldati incaricati di tutelare la popolazione non hanno protetto nessuno, assistendo a deportazioni ed omicidi ma, su pressione del generale Mladic, consegnarono ai militari serbi trecento civili tra uomini e ragazzi, mandandoli a morte certa.
La comunità internazionale non era lontana in quei giorni di luglio, era lì a cinquanta metri dall’orrore e non ha mosso un dito.
Un giovane uomo, con la scritta Free Palestine sulla maglia azzurra scolorita, in piedi nel museo/ex-compound osserva il disegno di un casco blu su cui campeggia la scritta bianca UNhelpful: “Lo sapevano. Tutti sapevano che sarebbe successo ma non hanno voluto fare niente. Srebrenica è stata venduta e il nostro sangue è servito alle cancellerie europee per chiudere le trattative. Parlavano di pace ma non hanno salvato nemmeno una vita. E oggi è lo stesso in Palestina, lasciano massacrare quella povera gente solo per convenienza politica, per non esporsi. Avvisano Israele di non abusare della sua forza ma non fanno nulla per impedirlo, quando è lo stesso governo israeliano che parla di pulizia etnica. È evidente a tutti che sia in corso un genocidio, come per noi, ma tutti fingono di non capire”.
E in effetti come ieri Milosevic, Karadjic e Mladic facevano orecchie da mercante ai richiami dell’ONU, prendevano in ostaggio i caschi blu e si facevano scudo di una retorica paranoide e suprematista; oggi Netanyahu, Ben Gvir e compagnia cantante abbaiano contro ogni risoluzione del Palazzo di vetro accusando chiunque di antisemitismo e, per rendere più chiaro il concetto, tirano colpi d’artiglieria sulla sede dell’UNRWA e le ambulanze della Mezzaluna Rossa.
Intanto, per una di quelle coincidenze della Storia, mentre al tribunale dell’Aja si apre la possibilità a che si riconoscano le azioni di Israele nella Striscia di Gaza quali atti di genocidio e, di conseguenza, si avviino processi contro i suoi responsabili politici; a New York nel maggio di quest’anno è stato riconosciuto definitivamente quanto accaduto a Srebrenica effettivamente come genocidio.
Un atto che arriva quasi trent’anni dopo i fatti, una nuova generazione è cresciuta intanto, fuori dai giochi della guerra ma dentro i suoi strascichi. Ancora devono passare anni prima che il rimarginarsi delle ferite, nei tentativi di convivenza, riescano ad allontanare una politica di nazionalismi che non accenna a lasciare la presa. Ma un processo di riappacificazione intercomunitaria rimane a detta di tutti l’unica via possibile per chiudere quel conto lasciato in sospeso e prevenire nuove tragedie.
E a Gaza, quando anche quest’ennesima barbarie terminerà, qualcuno dovrà pagare per le morti e le distruzioni; consapevoli che nemmeno la pena più grave per ognuno dei colpevoli potrà rendere giustizia per questo orrore.
Né tribunali né cancellerie potranno risolvere drammi che hanno radici profonde, e infatti seguitano a paventare soluzioni che nulla risolvono.
In terra di Palestina non si vede quel ginepraio di fratture che hanno spezzato in mille segmenti la società jugoslava: l’ostilità è chiara, verticale, il rapporto coloniale è essenzialmente un rapporto a due.
Non di meno sarà quel piano di riconciliazione comunitaria che, in un tempo che oggi appare impossibile, seppellita una ideologia mortifera come quella sionista metterà fine al saccheggio, alla violenza e ai muri, ricucendo il territorio in un’unica entità, che sappiamo non porterà il nome di Israele, né la guida dei suoi sanguinari condottieri.