Di Jack Orlando
Theodore Kaczinsky, La società industriale e il suo futuro, D Editore, Roma 2024, 240 pp. 17,90€
C’è la foto di un piccolo capanno in legno che gira nelle bolle di internet, alle volte è collocato in mezzo a un bosco, altre è al centro di un hangar dall’illuminazione fredda e asettica. Un’altra foto, che si collega alla prima, ritrae il volto di un uomo con barba e capelli arruffati, rughe sul viso dismesso e occhi stretti che guardano in camera con un’espressione a metà tra la sfida e la diffidenza.
Piccole icone oscure della fine del XX secolo, di risibili incidenti che hanno turbato la Pax neoliberista ai suoi irresistibili albori, che riemergono oggi, a distanza di un ventennio, come immagini di culto a metà tra il pop, la politica e il meme.
L’uomo con i capelli arruffati è Theodore Kaczinsky, meglio noto come Unabomber, e il capanno in legno è la sua piccola abitazione/laboratorio, autocostruita secondo meticolosi calcoli matematici e sperduta in mezzo ai boschi del Montana, da cui partivano i suoi pacchi esplosivi.
Tra gli anni Ottanta e Novanta i suoi attentati furono un caso clamoroso che riuscì a trascinare stampa, istituzioni e polizia in una profonda crisi di panico.
Maggio 1978: il primo ordigno deflagra nella Northwester University, Illinois, ferendo un agente di sicurezza. Continuano a esplodere sporadici nei due anni successivi, prima di espandersi e coprire il resto del paese. Fino al 1985, in cui gli attacchi aumentano vertiginosamente e si conta il primo morto.
Seguono otto anni di silenzio (ad eccezione di un attacco a Salt Lake City nel ’87), cui seguirono gli ultimi tre anni di attività prima del suo arresto (un caso di studio unico per la criminologia moderna, date le modalità in cui avvenne).
Kaczinsky, sotto la minaccia dei suoi attacchi, riuscì nel 1995 a far pubblicare il suo manifesto dai principali quotidiani nazionali: il coronamento della sua carriera e causa del suo arresto (fu il fratello ad indicarlo al FBI come potenziale responsabile degli attentati dopo aver riconosciuto lo stile di scrittura).
“La civiltà industriale e il suo futuro” sarebbe stato letto da milioni di persone, in America e non solo. Al momento del processo Unabomber era una popstar che poteva vedere centinaia di persone fuori dai tribunali acclamarlo durante le udienze.
Negli anni di irregimentazione del neoliberismo la violenza sociale negli USA ha uno dei suoi apici: la strage di Waco, l’attentato di Oklahoma City, l’ossessivo allarme per sette e serial killer.
Quella spinta che solo dieci anni prima poteva essere incanalata e interpretata come violenza politica, ora, in una società a senso unico esplode in mille rivoli dove si confondono psicosi, millenarismi, velleità politiche. Oggi li chiameremmo complottisti, ma nei ’90 siamo solo all’alba dei mille Joker che invaderanno il XXI secolo.
Per quanto possibile, si usa il loro caos intrinseco per bollarle come prodotti della malattia mentale di individui instabili. Primi passi di una medicalizzazione del dissenso che sarebbe presto diventata moneta corrente.
Kaczinsky, che pure benissimo non stava, di certo non era un serial killer: l’intento alla base delle sue azioni non fu mai quello di uccidere per sadismo o per una patologia, quanto portare avanti un proprio (improbabile) programma politico.
E nel Corso degli anni il suo manifesto è stato tradotto e ripubblicato più e più volte; a reclutarlo nel proprio Pantheon ideologico ci hanno pensato soprattutto anarchici primitivisti e accelerazionisti di estrema destra.
La repulsione verso i legacci sociali della civiltà industriale e le sue forme di vita, il rifiuto del liberalismo, la ricerca di una primigenia purezza umana (non etnica, attenzione), creano un humus di pensiero contraddittorio e malleabile, buono per essere tirato dalla giacchetta.
Ma sarebbe ingiusto, oltre che stupidamente riduttivo, vedere in Kaczinsky semplicemente un anarchico (in parte certamente lo era) piuttosto che un neonazista (il suo esplicito rifiuto del razzismo e delle formazioni fasciste basterebbe a sventare l’accusa).
Kaczinsky, nelle sue mille contraddizioni, è a ben vedere il primo prodotto compiuto dell’impazzimento della cultura americana: è soprattutto ad essa che si rifà nello stendere il manifesto. Novello Thoureau in ritiro tra i boschi di Walden, ma in salsa insurrezionalista.
Rifiuta i tempi dettati dalla macchina industriale, ne aborra i bisogni indotti perchè mortificano lo sviluppo libero degli individui, veri depositari del “sacro”, costretti a una socializzazione che ne perverte lo spirito, dirottandolo verso la ricerca di appagamento di desideri artificiali che lo allontanano da sé stesso.
Non si scaglia (al contrario di un anarchico) contro chi comanda la macchina e tiene le redini dello sfruttamento. Si concentra su una condanna tout court del mondo di produzione in sé.
Aspira a un’idea di società che è quella delle comunità rurali, della democrazia diretta dei villaggi. Disseppellisce così non tanto un ideale confederale ma lo spettro dei primi insediamenti di disperati e sognatori europei sul suolo americano, fuggiaschi e usurpatori allo stesso tempo.
Un umanesimo americano della frontiera trasuda dalle pagine del Manifesto.
Non a caso rifiuta il lavoro integrato nella macchina industriale ma vede coincidere il lavoro “originario”, quello dei primi coltivatori o dei cacciatori/raccoglitori come stanziale forma della libertà. È il lavoro come messa in forma delle proprie capacità soggettive a intagliare il valore dell’individuo, molto protestante, abbastanza socialista…
Questi miti trasfigurati ma completamente americani, che pervadono l’opera di Kaczinsky, si inseriscono nell’epoca della loro definitiva degenerazione tardo-capitalista; e lui ne incarna una rievocazione vendicativa. Mette in atto l’accusa dei boschi e dei sogni infranti degli ultimi d’America. Quelli per cui la promessa di futuro si è sempre rivelata una lunga scia di dolore.
Kaczinsky fu per lungo tempo un latitante inafferrabile, grazie ad una strategia semplice ma geniale: spediva suoi pacchi bomba tramite le poste ordinarie, da diverse città, a indirizzi finti, di modo che tornassero al mittente segnalato, vero destinatario dell’ordigno.
Questo ribaltamento della logistica, disciplina centrale del modo di produzione contemporaneo, lontanissimo dagli schemi dei tradizionali primitivisti, lo rende (suo malgrado) una creatura iper moderna.
Il suo continuo intrecciarsi di volontà rivoluzionarie e istanze conservatrici, diserzione dalla modernità e suo controutilizzo, lo rendono un fenomeno irriducibile a schemi preimpostati; inquietante e prolifico, è questo tratto conturbante ad avergli dato un’aura mistica, facendolo tracimare nella cultura pop e nell’opera di intellettuali più fini.
È quindi assolutamente logico il suo riemergere alla fine degli anni dieci, nel pieno tramonto dell’occidente: la crisi di presenza di cui si faceva avanguardia vendicatrice è oggi la condizione psichica comune di questo pezzo di mondo alla deriva.
Il rifiuto di una forma di vita perennemente incompiuta, il rancore per i sogni infranti e la frustrazione di una fuga impossibile dalla gabbia d’acciaio della modernità, hanno inconsapevolmente rimodulato le mitologie sociali. Negli smottamenti di una società che ha perso il filo logico tornano a respirare nuova aria le epifanie dei pazzi.
In questa temperie il Manifesto, corredato da una rinnovata cornice analitica e arricchito da testi inediti, recentemente pubblicato da D Editore, inaugura ora La Freedom Club Collection: una collana integralmente dedicata alla raccolta degli scritti di Kaczinsky: una paziente opera di analisi, scavo e di corrispondenza che va a grattare via cumuli di incrostazioni ideologiche e banalizzazioni. Un’operazione editoriale coraggiosa (sicuramente mai tentata in Italia), che restituisce finalmente tutta la complessità irriducibile nonché l’opera omnia di una delle ombre che vorremmo rimuovere ma non possiamo fare a meno di contemplare.