di Serena Penni

Giusi D’Urso, Se camminare fa troppo rumore, Il ramo e la foglia, Roma, 2024, pp. 224, euro 16,00.

Se camminare fa troppo rumore racconta la storia di un risveglio, di una presa di coscienza dolorosa e faticosa, di un progressivo e inevitabile avvicinamento alla realtà da parte della protagonista, Sofia.
Il romanzo è strutturato su un duplice binario: quello del passato e quello del presente narrativo. Nel passato c’è una bambina che nasce e cresce in Sicilia. È inserita in una famiglia apparentemente normale, costituita da un padre, una madre e una nonna. Tutto scorre tranquillo, peccato che i genitori ogni tanto giochino in un modo un po’ troppo rumoroso, che il padre scherzi alzando un po’ troppo la voce, che un occhio della madre ogni tanto, come per magia, si tinga di azzurro, costringendola a truccare anche l’altro con un ombretto dello stesso colore, per amore di simmetria ma soprattutto per dare l’impressione che il suo sia “un matrimonio per bene”, volendo dirla con Doris Lessing.

Come tutti i bambini, Sofia va a scuola e qui si imbatte in Filomena, bruna, alta e sgraziata: tanto Sofia è studentessa modello, quanto Filomena appare negata per la scrittura, la lettura e, insomma, ogni attività di tipo didattico. Ma tra le due nasce un legame profondo, che va ben oltre le differenze anzi, che proprio delle differenze sembra nutrirsi. Un legame che non piace agli adulti, specialmente ai familiari di Sofia, le cui frasi a mezza voce giungono alle orecchie della bambina senza che lei le possa davvero comprendere, ma lasciandole addosso un senso di mistero e di oscura fatalità. Un legame di cui solo alla fine del romanzo capiremo il valore e la portata.

L’adolescenza di Sofia è segnata dall’improvviso trasferimento a Pisa – e il romanzo si apre proprio con la descrizione di questa città, vista con gli occhi di una ragazza fragile e sensibile, capace di coglierne la bellezza ma anche l’estraneità. Anche il mistero del trasferimento, così come quello del legame con Filomena, osteggiato dagli adulti, si chiarirà alla fine della narrazione, quando tutti i pezzi del puzzle torneranno al loro posto.

Sofia cresce e si iscrive alla facoltà di medicina. Con il passare del tempo, le dinamiche di sopraffazione che infestano la sua famiglia le divengono tristemente chiare: capisce la violenza del padre, l’ombretto azzurro della madre. I fantasmi del passato e del presente salgono in superficie, ben simboleggiati dalle scutigere, insetti striscianti richiamati dall’umidità, che popolano la vita e soprattutto l’immaginazione di Sofia. Alla madre, la giovane cerca di aprire gli occhi. Ma la donna sulle prime non accetta la realtà, di cui tuttavia è la prima vittima. È troppo attaccata a un’idea, soprattutto, è troppo attaccata al gioco dei ruoli per potersene liberare. Lo farà solo gradualmente, e mai del tutto. Assai interessante appare l’evoluzione del personaggio del padre di Sofia, o meglio, dell’immagine che la protagonista ha di lui. Se da bambina, come ogni figlia, lo idealizza, da ragazza ne scopre l’aggressività e la natura di essere fallimentare. Non tanto e non solo perché l’uomo è un artista mancato, ma perché non accetta di esserlo. anzi, mette in atto una forma di autodifesa che gli impedisce persino di rendersene conto, dirottando la sua rabbia altrove. Poi, Sofia arriva a vedere in lui un uomo malato – la malattia psichica, da sempre latente, si rivela a un tratto in tutta la sua gravità, seguita poi – e non sembra essere un caso – da quella fisica, descritta come terribile, degradante, invalidante. È forse l’ultimo strumento, attivato inconsapevolmente da parte dell’uomo, per tenere legata a sé una moglie che, seppure a fatica, ha preso emotivamente le distanze da lui.

L’amicizia tra Sofia e Filomena non si interrompe con la partenza della prima per Pisa anzi, sembra quasi rafforzarsi, perché ognuna trova nell’altra un antidoto alla propria solitudine: le due instaurano un rapporto epistolare in cui entrambe riversano le loro esperienze quotidiane ma soprattutto i loro sogni, le aspirazioni, le paure, i desideri di fuga. Poi, un bel giorno, quando si rivedono per via di una visita di Sofia in Sicilia, la protagonista rovescia addosso all’amica d’infanzia un’enorme quantità di veleno, rimanendone essa stessa colpita e turbata. Si rivedranno solo da adulte, quando Sofia ritroverà l’amica incastrata in una vita infelice, costellata di affetti che sono tali solo in apparenza e in cui nessuno dei suoi sogni di bambina, come era prevedibile, si è realizzato. Una vita che avrà un epilogo drammatico, facendo di Filomena l’ennesima Emma Bovary, vittima senz’altro delle proprie stesse aspirazioni, ma anche di un entourage crudele e maschilista, in cui vige la legge del più forte e in cui i deboli non possono che essere divorati dai forti, lasciando in chi resta inutili rimpianti e sensi di colpa.

Tutto questo riguarda il passato. Nel suo presente, Sofia si trova in un luogo non ben definito ma che, sin dalle prime pagine, intuiamo trattarsi di un ospedale psichiatrico. Il tempo è scandito dai pasti accolti senza entusiasmo, dalla luce flebile che filtra dalla finestra ma soprattutto dal dialogo con un uomo che, al pari del luogo, non è classificato ma che sembra trattarsi di uno psichiatra. È lui che, attraverso le sue domande, fa riemergere in Sofia un passato in buona parte doloroso, per lo più privo di amore e intriso di buchi neri. Sarà lui, infine, a portare Sofia a ricordare il legame che la univa a Filomena, la sua tragica presa di coscienza di esso, il bagaglio di non detti e di atti colpevoli che tale legame portava con sé. Sarà quest’uomo a permettere a Sofia di ricordare di avere, all’improvviso, visto la propria madre sotto una luce nuova, che le era intollerabile. Sarà lui a permettere a Sofia di ricordare il gesto che l’ha portata in quel luogo di cura, sì, ma anche di reclusione e dunque, paradossalmente, sarà proprio lui a liberarla.

Se camminare fa troppo rumore è un romanzo che parla di amicizia, di legami familiari, di malattia mentale, di violenza di genere, di dipendenze affettive e ancora di molto altro. L’autrice riesce a tenere il lettore incollato al libro pagina dopo pagina, grazie alla sua indubbia capacità di creare suspence, attesa, desiderio di scoprire cosa ne è – o cosa ne è stato, o cosa ne sarà – dei personaggi: della protagonista in primis, ma naturalmente non solo, perché chi legge si affeziona anche a coloro che costellano il suo mondo – interiore ed esteriore –, in particolare a Filomena. Quest’ultima appare come una sorta di doppio che non ce l’ha fatta, ma la cui immagine Sofia imparerà finalmente ad accettare, a custodire dentro di sé, per andare avanti come meglio potrà nel cammino accidentato e impervio dell’esistenza.