di Luca Baiada

Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Bompiani, Firenze-Milano 2024, pp. 336, euro 17,10

 

Tra i punti di forza, l’apparato di fonti. Sul contesto, buona conoscenza del Polesine e ampi riferimenti ad autori e personaggi. Attenzione allo sviluppo delle leghe e delle casse rurali, agli effetti della malaria, della pellagra, delle alluvioni e delle bonifiche. Sul protagonista, padronanza dei fatti. Eppure, tutto lo studio risente di qualcosa; probabilmente di un orientamento cattolico troppo rigido che condiziona la lettura dei dati.

La difficoltà di capire il passato è ricondotta bene al presente: «Matteotti divenne un’icona da rispolverare nelle occasioni ufficiali». Ma per altri aspetti non ci siamo:

Con la dissoluzione della prima repubblica e dei partiti che l’avevano costruita, Giacomo Matteotti è uscito definitivamente dagli appiattimenti di parte, dalle contrapposizioni ideologiche, da gelosie e rivalità che erano sopravvissute alle divisioni del passato, ed è entrato definitivamente nella dimensione che gli è propria, quella della storia.

Le gelosie hanno solo perso il tratto da segreteria e da grisaglia, per diventare tic nervosi nei discorsi d’occasione. Le ideologie si sono spente ma Matteotti non ha ancora il posto che merita. Cosa significa?

Qualcosa di imbarazzante: non c’erano i fronteggiamenti ideologici, all’origine della messa tra parentesi. Il male è più profondo e si può capirlo solo sorbendo – ma fino all’ultima goccia amara – in politica Salvemini e Gobetti, in letteratura Sciascia. Il paese del papato e dell’inquisizione romana, delle corti e delle accademie respinse come un insetto molesto l’uomo dell’antiretorica, della prassi determinata, della certezza senza fanatismo. Gobetti, appunto, poco dopo il delitto, con la sincerità del morituro lo chiamò protestante. Romanato è realistico qui:

È uomo del postrisorgimento, estraneo alle mitologie dell’unificazione, ma estraneo anche alle rigidezze delle ideologie allora prevalenti: il positivismo, il marxismo, l’idealismo. Scontento, ribelle, inquieto, guardava al futuro, senza lasciarsi condizionare dal passato.

Sui rapporti fra Matteotti e marxismo, però, ci vorrebbero spiegazioni, anche tenendo conto del periodo: nasce poco dopo la morte di Garibaldi e poco prima della fondazione del Partito socialista. Di certo, fatta l’unità emergono problemi, insieme alla questione romana irrisolta – i fascisti la peggioreranno restituendo al papa uno Stato – e a molto altro.

Il commenti di un secolo fa riaprono ferite. Il giudizio dei comunisti fu e rimase duro, sino alla mancanza di umanità, vedendo nell’assassinio il suggello dell’errore. Riflesso automatico di fiducia nell’ineluttabilità della storia: chi cade, non può che aver torto. Gli alfieri della memoria del grande socialista si risparmiarono l’acredine, ma neanche loro furono mai all’altezza del caduto. Atroce, nel 1924, la partecipazione di una minoranza dei deputati del Psu al funerale del loro segretario; e assurde, nel dopoguerra, le commemorazioni alternate fra Psi e Psdi, per non mischiarsi mai.

Anche la confusione al monumento romano, oggi, con lapidi diverse che si contendono lo spazio, dice più disordine che insegnamento. Quell’aiuola assediata dal flusso di auto, sul lungotevere – un tempo ariosa passeggiata, adesso convulsa arteria di scorrimento – , parla da sé. Forse è un caso, ma è in un sottopassaggio, simile a uno di quelli scavati nei lungotevere per le Olimpiadi del 1960, che Fellini gira l’inizio di Otto e ½, col sogno del protagonista: nell’ingorgo, chiuso in una macchina, batte sui vetri e si divincola come Matteotti nella Lancia dei sicari, sino a che riesce a volare via.

La percezione dell’importanza del diritto nella sua posizione politica – «singolare impasto di legalitarismo e di spirito rivoluzionario» – è lucida:

[Per Matteotti] era il diritto, non il determinismo sociale, a creare la strada che conduce alla giustizia e all’uguaglianza. È qui che si deve vedere la modernità di Matteotti nella galassia dei socialisti italiani, modernità che giustificherà tanto la sua proposta di insurrezione per fermare l’entrata in guerra (lo Stato aveva violato le regole e quindi andava fermato con la forza) quanto, in seguito, la sua lotta solitaria contro il fascismo, fondata sulla difesa della legalità e della rappresentanza parlamentare. Chi infrangeva le regole del gioco legittimava chi le violava, a sua volta, per legittima difesa.

I giuristi, però, non valorizzarono le sue ricerche e proposte. Più in generale, anche molti intellettuali furono inadeguati; il testo li ricorda ma vanno ridimensionati meglio. Per esempio:

Ivo Andrić, futuro premio Nobel per la letteratura, che allora era in servizio a Roma presso la legazione diplomatica del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la futura Jugoslavia: «La crisi del fascismo è iniziata. A causa del delitto Matteotti. Un caso che è allo stesso tempo incredibile e terribile, semplice e banale. Incredibile e terribile è che in Europa, nel Paese che rivendica la paternità del diritto, nel centro di Roma a mezzogiorno sei mercenari possano rapire un deputato popolare inerme, segretario di un partito, portarlo fuori città e ucciderlo».

Andrić non ha capito. Proprio perché siamo nella culla del diritto, lo stragismo portato dalla guerra, con una massa di reduci storditi e incarogniti, e col padronato che non vuole mantenere le promesse – pace perpetua, giustizia, lavoro – , apre al fascismo. Esso è anche il passaggio dal massacro indiscriminato, in guerra, al massacro selettivo, in pace. L’assassinio di Matteotti, giurista e per questo più scomodo, è il segno di un’epoca. La civile Europa, nel paese della paternità del diritto, ha covato un patrigno in camicia nera: presto avrà molti figliastri. La Roma mussoliniana – in questo terribilmente moderna – con le borgate di deportati dal centro per gli sventramenti, con le scenografie di cartapesta per le parate, con le burocrazie labirintiche, diventa insieme culla e bara. Già nel 1934 il groviglio umano dell’Urbe è colto in un romanzo di Marguerite Yourcenar, con un cenno al delitto di dieci anni prima[1].

Un italiano diverso presenta il socialista senza encomi prevedibili:

Un personaggio duro, intransigente, mai disponibile al compromesso, talora anche sgradevole. […] Un uomo di parte, spesso settario, che non dava confidenza e non faceva sconti a nessuno. […] Ante mortem Matteotti fu un uomo profondamente divisivo. Il ritratto che ne scrisse Piero Gobetti a ridosso dell’assassinio, centrato sul tema della solitudine, a mio parere, rimane pur con qualche forzatura, l’interpretazione più penetrante che ne sia stata proposta.

Il punto di vista gobettiano è stato criticato da chi vuole interpretazioni concilianti; ma se forzatura c’è, in Gobetti, è perché quel testo era costretto a una densità alchemica[2].

Un elemento critico. Si insiste sul fatto che il padre di Matteotti avesse prestato denaro a usura:

Le fonti che ne parlano sono numerose e circostanziate. […] Non è fuori luogo ipotizzare che i rancori accumulati per questo motivo contro di lui possano essere arrivati a lambire anche le motivazioni del delitto, considerando il ruolo che in esso ebbero […] due fascisti polesani che conoscevano Matteotti fin dagli anni di scuola: Giovanni Marinelli e (ma in questo caso il coinvolgimento è molto meno sicuro) Aldo Finzi.

La questione è contraddittoria: gli immobili della famiglia erano sparpagliati perché erano frutto di acquisti occasionati dalla fretta dei venditori, all’epoca dell’emigrazione postunitaria; ma questo – felix culpa – permise a due figli, Matteo e Giacomo, di candidarsi in più comuni (all’epoca ogni proprietà dava diritto al voto nel suo comune). Che i rancori locali abbiano contribuito al delitto non è dimostrato, ma di certo l’assassinio fu anche una vendetta castale: come altri – i fratelli Rosselli, per esempio, poi Giangiacomo Feltrinelli e Pier Paolo Pasolini – Matteotti è un traditore della sua classe. Mentre Romanato offre pagine e pagine sullo strozzinaggio del padre, proviamo a chiederci: e se proprio quella provenienza della ricchezza fosse stata determinante nella scelta di far del bene, di schierarsi con gli sfruttati e contro gli sfruttatori?

Dell’epistolario fra Giacomo e Velia si dimostra frequentazione ma non altrettanta comprensione:

C’è più ragionamento che attrazione, sia prima sia dopo il matrimonio, anche quando la lontananza fisica […] rende forte ed esplicito il desiderio reciproco, il bisogno di rivedersi, di toccarsi, di baciarsi. […] Chi leggesse queste lettere pensando di trovarvi riferimenti erotici rimarrebbe deluso. E non soltanto perché il linguaggio del tempo era molto più riservato del nostro, ma perché nel rapporto fra questi due giovani la fisicità è sopraffatta dal ragionamento.

Nella commemorazione alla Camera, il 30 maggio – brutta nel suo lato spettacolare e ingannevole in quello politico – , anche Bruno Vespa ha escluso l’erotismo di quello che invece è un palpitante documento amoroso; questo libro ha un’altra statura, eppure si sente una mentalità che non si accorge dell’eros se non sobbalzano carni. Così sono fraintese in senso negativo le schermaglie, le sofferenze e le ammissioni reciproche di scoramento, che fanno parte di quell’unione. Il fatto che i due si scrivessero anche mentre erano nella stessa città è una «bizzarria»; e pensare che Victor Hugo e Juliette Drouet si scrivevano anche mentre vivevano insieme.

Altri malintesi. Si legge che in Matteotti c’era «l’ansia di fare, e anche di strafare», perché scrisse: «Il desiderio di una vita molteplice, e quindi allora soltanto compiuta, sta diventando una mia ossessione». Questa è l’eco di una profonda inquietudine, di stampo ottocentesco, come quella che fremeva in Arthur Rimbaud. In Une saison en enfer il poeta aveva scritto: «A chaque être, plusieurs autres vies me semblaient dues»; e infatti Matteotti: «Vorrei avere dieci vite». La competenza giuridica, amministrativa e contabile del polesano ha oscurato la creatività; ma a modo suo, anch’egli fu ladro di fuoco e veggente.

Quando si ricorda che per Matteotti l’amore per la propria patria non deve portare a sopraffare le altre – lo scrive a proposito di suo figlio e di un bambino abbandonato di cui si prende cura – non si deve tacere che quel principio e quel senso di umanità vengono da Giuseppe Mazzini. Il Polesine è terra di lotta di classe, sì, ma prima di Risorgimento. E poi. Romanato vede nell’attenzione di Matteotti per l’educazione un’anticipazione di Lorenzo Milani, ma è più immediato pensare a un seguito di Alberto Mario, polesano di Lendinara, piccolo centro che gli ha dedicato un monumento gagliardo. L’autore, che conosce il patriota perché accenna agli studi sull’Italia postunitaria della moglie, Jessie White, non ricorda l’impegno di Mario per i ragazzi da garibaldino.

Nel libro si sentono le insistenze sugli errori dei socialisti e la benevolenza verso il Partito popolare. Quanto agli effetti tremendi della violenza squadrista, vanno posti nel giusto rilievo; per esempio, bisogna sempre precisare che, negli enti locali, le dimissioni dei socialisti erano imposte dai fascisti e le autorità non proteggevano i rappresentanti eletti. L’autore cita come attendibile questa analisi, presa dal giornale dei popolari:

Tacerà il vento di follia quando gli onesti di ogni partito si adopereranno seriamente e fermamente a richiamare i propri aderenti alla legge. È giunto il momento di proclamare che tutti ebbero torto, che esiste per tutti, socialisti e fascisti, il dovere di rientrare per sempre nella legalità. La provincia domanda a tutti i partiti e a tutte le fedi di liberarsi dalle forme degenerative della loro attività.

Sembra l’«Osservatore romano» del marzo 1944, dopo le Fosse Ardeatine, quando chiede a tutti, nella Roma occupata dai nazisti, «serenità» e «calma», «al di fuori, al di sopra delle contese»[3].

Da queste premesse viene l’accusa che il socialismo abbia determinato l’avvento del fascismo; così Matteotti diventa un colpevole. Nel discorso ha un ruolo anche l’avversione alla guerra, ed ecco che il pacifismo diventa colpevole di guerra civile. Sono tesi superate, eppure l’autore, malgrado un bagaglio culturale raffinato, ne sente la fascinazione:

Anni decisivi, quelli del trionfo massimalista, dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 e l’affermazione di Mussolini. Questi poi prenderà tutt’altre strade, tuttavia dal virus dell’estremismo il socialismo italiano non guarirà più. La sconfitta storica di Turati, e della linea riformista, maturarono allora. Quando Mussolini, nel suo primo discorso parlamentare, disse cinicamente che la sinistra la conosceva bene – «io per primo ho infettato codesta gente» – diceva una incontestabile verità.

Invece no. Altro che incontestabile. L’estremismo non fu una prerogativa del socialismo, e comunque il fanatismo determinante fu quello della borghesia nel difendere privilegi di classe.

Affiorano cedimenti al complottismo. Quasi si avalla l’ipotesi che il socialista fosse austriacante, e quindi neutralista, per legami familiari. Si sottolinea che il vero motivo dell’assassinio non è ancora sicuro e si cita la pista petrolifera senza una riflessione di accompagnamento. Si fanno congetture sul movente con punti interrogativi, supposizioni, cenni: il petrolio, le case da gioco dei fascisti, la massoneria, i documenti nella borsa, un cenno nel diario di Ciano. Su Aldo Finzi, squadrista e fascista che morirà alle Ardeatine, scivola un dubbio:

Si volle chiudere in questo modo la bocca del maggior testimone del delitto Matteotti? È un’ipotesi che non ha mai avuto conferme, anche se è quasi certo che Mussolini, pure sollecitato, non intervenne per salvargli la vita.

Per Romanato, di Finzi non è ben sicuro il coinvolgimento ma Finzi è il maggior testimone? Di certo, Finzi l’occasione per aprire bocca la ebbe e non la usò. Quanto a Mussolini, c’è da stupirsi? Non intervenne neanche per salvare il genero dalla fucilazione.

Altre accuse. Si dà spazio a critiche di doppiezza: Matteotti estremista nel Polesine e moderato a Roma. Anche il banditismo veneto, con la repressione austriaca, e poi la rivolta nota come «La boje» contribuiscono alla colpevolizzazione del socialismo. Citando di tutto, anche Sturzo e Galli della Loggia, si addebita ai socialisti di non aver risolto le incertezze interne, con gravi conseguenze.

Come può salvarsi, Matteotti, da tante colpe? E infatti, per l’autore sono involontariamente profetiche le parole rivoltegli da un periodico cattolico:

Buffone e istrione! Tu continui a solleticare nelle folle lo spirito della rivolta. Parola di galantuomo: sarai il primo a pagare il fio di questa improntitudine da istrione. I Danton e i Robespierre furono le prime vittime della loro nefasta propaganda.

Profezia falsa: Matteotti fu assassinato per le doti di denuncia, critica e organizzazione, concretizzate su basi amministrative, legali e contabili. Cadde proprio perché non era un tagliatore di teste ma un tessitore di contatti e sindacalismo, cooperative e relazioni internazionali, persino nessi profondi fra teorie giuridiche e interessi sociali.

Si affaccia una tematica che sa di tempi meno lontani. Riguarda il progetto di un fronte antifascista e qui si può solo segnalarla:

[Matteotti] pensava nel suo intimo anche ai cattolici di Sturzo, che non appartenevano alla sinistra ma rappresentavano […] una forza popolare, benché estranea ai partiti di classe, che non poteva essere confusa con la borghesia italiana ormai fascistizzata. La speranza nella possibilità di quest’incontro divenne concreta soltanto dopo la sua morte, […] ma venne fermata da un intervento esterno alla politica italiana: il veto pontificio.

In queste vicinanze intime c’è da capire. Per un verso, può confermare quest’attenzione all’incontro la citazione di un articolo di Ernesto Buonaiuti, sacerdote perseguitato dalle autorità ecclesiastiche: uscito su un quotidiano di orientamento laico, commenta il discorso di Turati per Matteotti e paragona la morte del socialista al sacrificio di Cristo. Per un altro, viene naturale il paragone con un altro incontro, molti anni dopo; quello fra comunisti e democristiani, con un perno: Aldo Moro. Allora, subito un altro raffronto viene spontaneo: quello con la posizione del Vaticano mentre Moro era nelle mani delle Brigate rosse. Questo paragone costringerebbe a rileggere la lettera di Paolo VI che non provò per davvero a salvare il democristiano, anzi. Un altro veto pontificio.

Romanato scrive: «Ogni ricostruzione del passato non è mai tutto il passato. C’è sempre una zona che sfugge, o per mancanza di fonti, o per insufficienza dello storico, o per il velo di silenzio con il quale, spesso, l’animo umano cela i propri riposti intendimenti, che determinano i fatti più di quanto immaginiamo». Qui il libro si fa perdonare i difetti con l’onestà dell’autore. E a questo punto, se lui non dice i suoi intendimenti, sia il recensore a diradare il suo velo.

Sono un giurista, lavoro con le regole anche quando non le condivido. Con Matteotti ho incontrato un modo coraggioso e concreto di vivere la condizione del giureconsulto: una tensione verso il bene che non cede né al formalismo né al fanatismo né al compromesso. Una cosa che il lavoro legale e giudiziario non insegna, anzi, fa di tutto per mortificare. Neanche di me, quindi, si fidi del tutto chi legge. La zona che sfugge riguarda anche il mio modo di vedere le cose. Matteotti, per tutti noi, in fondo è un monito severo.

 

[1] Marguerite Yourcenar, Denier du rêve, Grasset 1934; poi, in nuova versione, Plon 1959. La prima edizione italiana è Moneta del sogno, Bompiani 1984, traduzione di Oreste Del Buono.

[2] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924.

[3] «L’Osservatore romano», 26 marzo 1944, p. 1.