di Paolo Lago
Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, Besa Muci, Nardò, 2024, pp.120, euro 14,00.
Deleuze e Guattari analizzano l’opera di Kafka come una “deterritorializzazione” continua, strategicamente attraversata da un percorso di linee di fuga dirette verso dinamiche di assenza e di sottrazione. Una di queste strategie, per i due studiosi, è il “divenire animale”, come succede al protagonista di La metamorfosi (cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 56): “Noi diciamo che per Kafka l’essenza animale è la via d’uscita, la linea di fuga, anche senza spostarsi dalla stanza, anche restando nella gabbia”. Linee di fuga, percorsi strategici di sottrazione a una ‘maggioranza’, vie d’uscita per sfuggire al controllo inesauribile di un oscuro potere sono assai presenti anche nella raccolta di racconti di Daniele Comberiati, Il diario delle mie sparizioni, recentemente pubblicata da Besa Muci, che si configura davvero come un piccolo gioiello di narrativa weird contemporanea. Le strategie di sottrazione al potere, nei racconti di Comberiati, non vengono però attuate mediante il “divenire animale”, come nell’opera di Kafka, ma attraverso veri e propri percorsi di “sparizione”, di assenza, di divenire minore e minoritario semplicemente sparendo.
Lo sfondo delle storie narrate è sempre costituito da una società greve e oppressiva, che spia e controlla, che incasella le esistenze degli individui in percorsi obbligati. Nel racconto che apre la raccolta, Sessantacinque anni, viene messa in scena una società del futuro in cui il capitalismo è caduto (nel 2035 che è già, sembra, un lontano passato nel momento della narrazione) e in cui vige un oscuro potere che – per risolvere il problema della sovrappopolazione e per garantire, apparentemente, una vita migliore – impone di non vivere oltre i sessantacinque anni d’età. In un universo distopico che ricorda quello allestito da Elias Canetti nel suo testo teatrale Vite a scadenza, in cui gli esseri umani hanno già impresso fin dalla nascita, in una capsula, il numero di anni che sono tenuti a vivere, c’è un personaggio che si ribella, il padre del cinico Emiliano, spinto unicamente dall’istinto vitale a vivere e sopravvivere:
Quante cazzate… sembra che la Los Angeles ricca e alternativa di inizio ventunesimo secolo – un frullato di finte filosofie orientali, biologico e prezzi esorbitanti e crudele gerarchia sociale – sia il modello che ha vinto. Per questo, però, dobbiamo essere pochi o, almeno, troppi. Per questo, a sessantacinque anni, andiamo tutti al Dépanneur. Per rigenerare il corpo sociale e collettivo di cui tutt* facciamo parte”. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. Io voglio vivere, e non m’importa come né a discapito di chi. Voglio ancora l’illusione di quando si viveva senza pensare alla morte. Come se non esistesse (p. 14).
Il personaggio ribelle, braccato dalla polizia segreta, il Sigurimi, si allontana dalla società rifugiandosi in una fantomatica comunità di ribelli chiamata “Veneranda” (che può ricordare la comunità segreta degli “uomini-libro” in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e nel film di Truffaut tratto dal romanzo) che si trova nel parco cittadino, dove si nascondono coloro che, raggiunti i sessantacinque anni, non hanno alcuna intenzione di morire. È con una fuga, con una sparizione, con un’assenza che il personaggio si allontana dalla crudele e greve realtà in cui persino i suoi familiari più stretti (il figlio e i nipoti) non intendono trasgredire le ciniche e disumane leggi dello stato.
Il tema dell’assenza e della sparizione è presente anche nel successivo racconto, 1993, in cui una comunità in Italia, vicino Roma, vive ed è autorganizzata secondo lo stile di vita, appunto, del 1993. Il protagonista, che vi si reca per intervistare il fondatore, cerca di scoprire i motivi di questa scelta: chissà – pensa – forse i membri della comunità volevano ricominciare da un anno simbolo in cui si poteva ancora svoltare per non incorrere in successivi errori. Non si può non ricordare infatti che, emblematicamente, il 1993 rappresenta l’ultimo anno prima della vittoria politica di Berlusconi che formerà il suo primo governo proprio nel 1994. Però, probabilmente, avrebbero dovuto scegliere un anno prima del 1980, data che simbolicamente segna l’avvento del disimpegno, dell’edonismo, della “Milano da bere”, in cui il berlusconismo (pur non essendo ancora palesemente legato alla politica) si insinuava in modo strisciante nelle coscienze degli individui. Infatti, nel 1993, come si evince anche dal racconto, è già assai presente una cultura edonistica all’insegna dell’individualismo che si intravede soprattutto nell’avvento di una grossa catena di noleggio di home video, la Blockbuster, presente anche nell’immagine di copertina del libro. Una grande catena, imposta dai meccanismi del capitale, deputata alla distribuzione di un piccolo cinema domestico, antenato delle piattaforme digitali di oggi, che ha contribuito a spopolare i cinema e a costringere gli individui nella solitudine dei propri salotti.
In Il luogo da cui tutte tornano, la sparizione è quella di diverse donne musulmane velate, che avviene a Montpellier: un avvenimento che insospettisce gli inquirenti che non esitano a tacciare le donne come “terroriste”. Si tratta di un racconto scopertamente autobiografico in quanto l’io narrante, italiano, insegna all’università (come l’autore, che è docente di letteratura e cultura italiana all’università di Montpellier) e osserva con crescente interesse e stupore gli avvenimenti relativi alle misteriose sparizioni. Nel racconto, la sparizione è anche quella che investe la donna nell’universo culturale islamico, costretta a portare il velo, diventando quasi invisibile all’interno della società, completamente sottoposta all’autorità maschile. D’altra parte, è la stessa comunità islamica a ‘sparire’ per lo sguardo occidentale, pronto ad egemonizzare e colonizzare qualsiasi altra cultura: soltanto perché portano il velo e, a un certo punto, scompaiono, le donne musulmane sono trattate come “terroriste”.
Sono invece gli asini a sparire, e a rimanere sottoterra, in Gli asini dell’Hospitalet, in cui si racconta di come la città di Barcellona, in una crisi mondiale, sia l’unica a mantenere una qualità della vita elevata grazie alla scoperta di un particolare fungo che cresce nei suoi sotterranei. Per poter estrarre il fungo sono necessari degli asini catalani, della grandezza giusta per potersi infilare nei tunnel, sui quali viene caricato il fungo per essere portato in superficie. In una società individualista, fondata su un cinico meccanismo di autosufficienza, gli asini vengono sfruttati e picchiati fino a quando… decidono di sparire. Come gli sfondi sociali presenti negli altri racconti, anche questo appare intriso di spietato individualismo e menefreghismo: “Mangiavamo carne, pesce, pasta e pane a base di fungo, ma i supermercati erano tornati a riempirsi e noi non avevamo risentito dei prezzi folli dell’inflazione mondiale. Che si uccidessero pure fra russi e ucraini, che si sciogliessero i Poli, che le estati non finissero mai per il riscaldamento climatico! Tanto noi avevamo il fungo” (pp. 72-73). L’esaltazione delle spietate libertà individuali viene messa in crisi dalla fuga verso una ‘tana’ sotterranea degli animali che, sfruttati fino alla morte, dovrebbero garantire la sopravvivenza di quelle stesse libertà. Gli asini tornano animali tout court e si ribellano, si sottraggono alla vista, entrano nelle tane kafkiane precluse agli inconsapevoli individui. Oltretutto, non ci sono solo gli asini nelle “fungaie” ma anche altri ‘invisibili’, che quotidianamente ‘spariscono’ in esse, e cioè i lavoratori che estraggono i funghi, la cui aspettativa di vita è di un terzo più bassa rispetto a coloro che lavorano in superficie: “I fungaroli, come si chiamano ormai, sono i minatori del ventunesimo secolo: senza di loro si blocca l’economia, ma vivono sottoterra, invisibili e nel mondo ‘normale’ non valgono niente” (p. 73).
L’ultimo racconto, Il diario delle mie sparizioni, è quello che conferisce il titolo alla raccolta e che appare come un vero suggello della stessa. Il personaggio io narrante, scrivendo il suo diario, dà il via libera alle sue “stranezze” raccontando le sue misteriose sparizioni che avvengono spesso durante il sonno. Naturalmente, fin da ragazzo, non è mai riuscito ad avere una vita normale, sempre soggetto a sparire per alcuni giorni, senza peraltro poterlo prevedere, come un vampiro che durante il giorno è costretto a sparire (tra l’altro vengono in mente i personaggi di Intervista col vampiro di Neil Jordan – tratto da un romanzo di Anne Rice – o di Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch). La scrittura diaristica appare come una rivincita nei confronti di un universo sociale che lo ha sempre considerato un po’ strano, emarginato e non integrato. Per opporsi a una società che gli chiude la porta in faccia, il personaggio scompare e ritorna, come ritornano alla fine della storia le donne musulmane in Il luogo da cui tutte tornano. Il personaggio, sparendo e anche scrivendo (una scrittura diaristica che diventa vampiresca e notturna, come la scrittura delle lettere di Kafka secondo Deleuze e Guattari), sviluppa la sua “legittima stranezza”, secondo quanto afferma il poeta surrealista René Char citato da Michel Foucault nella sua Storia della follia. Una “legittima stranezza” che si oppone alla rigida normalità su cui è impostato il vivere comune, una linea di fuga curva e serpentina che si scontra con la geometria dei percorsi obbligati. Sparizione è ribellione: viene allora in mente la silenziosa ribellione di Julian, in Porcile di Pasolini, che letteralmente sparirà divorato dai maiali. Perché il lato oscuro dell’esistenza è quello più interessante ma è anche quello che mai potrà essere raccontato. Nei vuoti della parola e dell’esistenza si insinuano magistralmente le narrazioni di Il diario delle mie sparizioni. Restano solo i segni, le allusioni, i non detti, le vie di fuga, le assenze e le sparizioni che si oppongono a qualsiasi forma di autorità e di potere.