di Neil Novello

Albert Camus, Caro signor Germain, Bompiani, Milano 2024, pp. 125, 16 euro.

Albert Camus frequenta la scuola elementare in un quartiere povero e polveroso di Belcourt, ad Algeri. Nella capitale, l’autore dello Straniero nasce nel 1913. Le lettere di Caro signor Germain, scambiate con il maestro di scuola Louis Germain nell’ultimo quindicennio di vita di Camus, tra il 1945 e il 1959, nella vita dello scrittore dilatano la corrispondenza agli anni dell’infanzia quando l’Algeria è francese e Albert già elegge il “signor Germain” a “figura cruciale” del destino. E ciò prima di rendere il maestro emblematico creando il personaggio di Bernard nel postumo Primo uomo.

Fin dalla prima lettera datata 15 ottobre 1945, Louis Germain, con la dolcezza di un antico pedagogo, rievoca la propria opera educativa a Belcourt richiamando all’attenzione di Camus la “piccola parte” compiuta per orientarne il “destino” culturale. Il dialogo riporta il sentimento all’originaria ragione scolastica. E così alla fine del 1945 Camus, dapprima fa riferimento al “passato” per confessare che è “rimasto vivo per me il suo ricordo – insieme con la mia gratitudine”, finalmente testimonia a Louis Germain un segreto durato circa vent’anni. L’autore della Peste parla al maestro come a “uno dei due o tre uomini a cui devo più o meno tutto”. Quando all’inizio del 1946, Camus riscrive a Germain indicandolo come il “miglior maestro che possa esserci”, anche la leggera esitazione di fine 1945, allorché confessava di parlare come a “uno dei due o tre uomini a cui devo più o meno tutto”, è risolta dall’autoelezione a sicuro “figlio spirituale” del ritrovato interlocutore.

Nello sgomentante secondo dopoguerra, incontrandosi e scrivendosi, Camus e Germain si riconoscono in qualcosa d’altro che il maestro elementare e lo scolaro destinato alla letteratura. La loro non è la corrispondenza saltuaria o di circostanza generata da un inatteso, involontario incontro. Nella Parigi della metà degli anni Quaranta, l’epifania di Germain nella vita di Camus e l’appassionata partecipazione dello scrittore all’amicizia del vecchio insegnante, all’apparenza esprimono un dialogo mai interrotto. Un dialogo finalmente riannodato in quel “mondo impazzito” del dopoguerra, con l’espressione di Camus, in cui lo scrittore e il maestro appaiono due benefiche forze risalenti da un arcano passato e ora fortunosamente dinanzi alle rovine storiche del conflitto mondiale.

Così “colui a cui devo di essere quello che sono”, nel sentimento di Camus per Germain cresce a dismisura fino al punto che, all’inizio del 1950, l’autore che si appresta a pubblicare L’uomo in rivolta rivolge al maestro un esplicito pensiero d’amore. Camus parla a Germain come al “padre che non ho mai conosciuto”. Alla fine del 1952, Germain scrive da Algeri a Parigi commentando una fotografia di Jean, il figlio di Camus. Quando confessa all’interlocutore che “mi sembra di rivedere suo padre che ho conosciuto a quell’età” accade qualcosa di magico. Un gioco di rifrangenze ed echi, tra l’Africa e l’Europa, tra Camus e Germain testimonia una coesistenza di memoria e sentimento saldate in nome di una malcelata nostalgia per il passato. Camus guarda a Germain come al “padre” ignoto, Germain, tramite Jean, rivive un ideale ritorno al tempo infantile di Albert.

Tra Algeri e Parigi, soprattutto quando nell’ottobre 1957 è assegnato a Camus il Nobel per la Letteratura, corre più che l’ennesimo attestato di gratitudine. In tre diversi momenti, Camus ritorna sul ruolo di Germain alla scuola di Belcourt elencando in sequenza la propria condizione di “bambino povero”, il grande “insegnamento” ricevuto dal maestro e sopra ogni cosa la memoria del suo “esempio”, la vera chiave pedagogica rimarcata da un “allievo riconoscente”. E nel dialogo immediatamente successivo all’assegnazione del Nobel, Germain aggiunge un tassello esemplare all’umile onestà di Camus. Richiamando indirettamente le parole autobiografiche dello scrittore sulla materiale povertà infantile, sull’“insegnamento” e l’“esempio” ricevuti dal maestro, Germain confessa che “neppure i miei figli mi hanno manifestato un simile affetto”. Alla metà degli anni Cinquanta, a circa un decennio dal loro rincontro, in Camus la figura di Germain è ormai cresciuta fino a diventare paterna, mentre per il maestro lo scrittore è idealmente diventato un figlio:

È stato pensando al tuo papà, mio caro ragazzo, che mi sono interessato a te, come mi sono interessato agli altri orfani di guerra. Ti ho voluto bene un po’ al posto suo, per quanto ho potuto, e questo è stato il mio unico merito. Ho assolto un dovere che consideravo sacro.

Non è difficile comprendere come venga maturando in Germain la consapevolezza di un tempo perduto prima del rincontro con Camus nel 1945. E come l’ampio decennio di corrispondenza, a tutto il 1958 stimoli nel maestro algerino un’espressione esemplarmente riassuntiva, quel “mostro del mio cuore” riferito a Camus con cui, non una, ma due anime provano a turno ad amare più dell’altra. Provano cioè a rincorrere la dichiarazione sentimentale più sincera, a tenere l’altro come termine unico della propria passione. Ancora nell’ultima lettera di Camus a Germain, nell’ottobre 1959, dopo aver rispedito al maestro un “vaglia” ricevuto a compenso di una spedizione libraria ad Algeri, lo scrittore ricorda di nuovo l’antico “debito”. Per confessare che con quel “debito vivo, felice di saperlo inestinguibile”. È l’estremo atto di una gratitudine durata l’intera esistenza, una gratitudine solo incidentalmente affidata alla corrispondenza di un quindicennio. A quel punto dell’epistolario con Germain, solo qualche mese separa Camus dal fatale 4 gennaio 1960. E l’immagine del “debito” eterno, tra le ultime della vita di Camus, sembra riassumere e farsi il simbolo di una riconoscenza ancora viva perché ritenuta appunto “inestinguibile”.

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