di Emanuela Cocco
Davide Grittani, Il gregge, pp. 269, € 18, Alter Ego, Viterbo 2024.
Oggi lavoriamo insieme per la prima volta. Non so cosa aspettarmi, vado incontro al debutto con sinistra euforia.
Il gregge di Davide Grittani è un romanzo amaro, scritto con sdegno, spirito di serietà, il piglio di chi ha trovato nelle vicende della storia un motivo di ribellione a un posto nel mondo nel quale stenta a riconoscersi. La storia si apre su una rimpatriata del disincanto. Vecchi compagni di scuola si incontrano di nuovo, come fosse per caso, ma sono passati quasi trent’anni e la vita li ha cambiati. I volti sbiaditi di quelli che sono stati amici, fratelli, protagonisti di una parte dorata della vita, quella in cui si credeva ancora in qualcosa, gli anni feroci della passione e della crudeltà, quelli dell’amicizia, dell’amore, delle risate e delle prese in giro, riemergono dall’oblio di una vita intera. Si ritrovano tutti, molti anni dopo, per un incontro di lavoro. A organizzarlo è stato proprio l’uomo, a quei tempi un ragazzino, che da questo gruppo di amici era escluso, Matteo Migliore, ai tempi, detto Croce rossa, l’oggetto del loro scherno, ragazzino privilegiato, abituato ad avere qualsiasi cosa per diritto di nascita ma incapace di stare al mondo tra pari, di sentirsi parte della compagnia e che si troverà, nel mondo adulto ormai privo di sogni, a gestirla, questa compagnia di uomini non più spavaldi, ora feriti dalla vita, sfiancati dalla precarietà, finalmente pronti a prostrarsi ai suoi piedi, a ridere alle sue battute fiacche, ad applaudirlo, ad eseguire gli ordini.
«Vota Migliore» provoco l’omino.
«Vincere e vinceremo» mi dileggia.
Migliore, infatti, è il nuovo candidato sindaco, i tempi del liceo, la mai dimenticata V D del Liceo Pasolini, sono lontani: da bambino ricco, viziato ma incapace di stare al mondo, Migliore è diventato, o almeno si racconta come tale, il volto della nuova politica ed è intenzionato a prendersi tutto, con ogni mezzo, e con gli interessi. Spetterà proprio ai suoi vecchi compagni di classe, ora incaricati di gestire la sua campagna elettorale, lavorare per lui, fare in modo che le sue facili promesse, il suo malcelato disprezzo per la verità, la sua assenza di lealtà, si concretizzino in una vittoria, amara, strappata con l’inganno e la menzogna, ma pur sempre qualcosa che gli permetta di tenere stretto l’incarico, il lavoro, una promessa di cambiamento, magari una svolta capace di rimettere in moto vite che sembrano non essere mai partite.
Perché me ne sono andato? Perché non mi sono preso cura di loro? Anch’io mi sono inchinato al male minore, confondendo lo stesso egoismo dei miei compagni col presunto benessere che ogni giorno ci disseta delle pay-tv. Io non c’ero, questa la mia colpa, non il mio alibi.
Il gregge di Davide Grittani, abbracciando la poetica del prima del dopo, del possibile, e del mai, dell’ideale e della sua rinuncia, costruisce una storia dura e coinvolgente, con al centro la scoperta di una ingiustizia manifesta e inestirpabile, presagita quasi dal protagonista, che ha il coraggio di non invocare la sua estraneità ai fatti. Un delitto commesso nel passato si riverbera su ambizioni e macchinazioni politiche del presente. Qualcuno, nel mezzo, ha perso la vita, altri, ancora vivi, sopravvissuti a tutto, sono rimasti menomati dal conflitto, hanno perso e continuano a perdere la dignità. È proprio questa dimensione di sconfitta senza contesa, questo modo che hanno i suoi personaggi di lasciarsi ingannare e sottomettere, o di ribellarsi con armi ormai spuntate dal rimorso e la malinconia, quello su cui si concentra l’attenzione dell’autore, che non imbastisce una condiscendente fiaba di riscatto e rivolta. E convince la capacità della storia di mostrare lo scacco morale e il fallimento esistenziale di una generazione intera che ora si ritrova a dover elemosinare i favori di chi un tempo disprezzava.
Non tutti partecipano, ma chi non lo fa non è più innocente degli altri.
Gli ideali, sembra dire Grittani, costano un prezzo che non tutti sono disposti a pagare, e che l’autore del romanzo vuole saldare facendoci attraversare senza accomodamenti la vergogna, l’imbarazzo, il senso di colpa del protagonista, che sente di non aver creduto abbastanza in sé stesso, e in quelli che un tempo, che ora gli pare lontanissimo, sono stati i suoi fratelli, compagni di lotta che sa di aver tradito attraverso la sua dimenticanza. In una terra nella quale sostenitori e antagonisti sono continuamente destinati a cambiarsi di posto, dove la corte che insegue il premio è la dimensione agognata dai più, Grittani scrive un romanzo defilato, dalla prosa scarna, i passaggi intimi, crepuscolari, con un rigore morale d’altri tempi, una storia che vi invito a leggere, aliena al clamore, ai facili colpi di scena, piena di domande e rimproveri mai urlati ma per questo ancora più spaventosi, quelli che rivolgiamo a noi stessi, a volte, come trafitti da una terribile illuminazione, quando capiamo che se tutto è ammesso forse è perché niente vale, o così sembra, così sarà, finché ognuno, nei modi che riuscirà a trovare, avrà il tempo, la voglia e il coraggio di aprirsi alla sua utopia personale.