di Andrea Berneschi
Era il 2015 ed entravamo al cinema incuriositi dal trailer di quello che sarebbe stato il quarto film della serie di Mad Max, cult assoluto degli anni ‘80 e foriero di derivazioni in ogni altro mezzo espressivo (per dirne una, Hokuto no Ken di Buronson e Tetsuo Hara). Questa pellicola sembrava diversa dal resto della serie, e non solo per l’assenza di Mel Gibson. Pareva un trattato di antropologia del futuro, più che un tipico action movie hollywoodiano; per quanto il trailer mostrasse inseguimenti, scontri ed esplosioni a volontà la nostra attenzione andava soprattutto alle strane tribù di guerrieri e ai loro veicoli, reperti di una civiltà totalmente altra rispetto a noi. Due ore dopo l’ingresso in sala ne uscivamo sbalorditi, affascinati da un’opera d’arte che nessuno, tranne il regista George Miller, aveva immaginato si potesse creare con cineprese, auto scassate, sabbia del deserto e ottimi attori. In parte western, in parte sci-fi, sicuramente horror, ma anche tragedia shakespeariana; più vicina alle pellicole di Jodorowsky, Herzog e di altri grandi autori del cinema tout court che ai molti film d’azione soporiferi e fatti con lo stampino a cui da qualche decennio siamo abituati.
Da quel momento abbiamo sperato di vedere prima possibile i preannunciati seguiti, spinoff, e tutto quello che sarebbe venuto.
Il trailer di Furiosa: A Mad Max saga (stavolta non manca solo Gibson, ma proprio il personaggio di Max, anche se lo si vede in una brevissima scena, di spalle) ci ha spiazzato. Ambientazione, dinamiche, colori e veicoli li conosciamo già; sono cambiati gli attori, Anya Taylor-Joy che forse temevamo troppo delicata per le wasteland e per il ruolo che era stato di Charlize Theron, e un Chris Hemsworth dal naso particolarmente buffo. Ma per chi ha apprezzato Fury Road era impossibile perdersi questo nuovo capitolo, che in realtà è un prequel, e così abbiamo comprato un nuovo biglietto… e il film ha mantenuto le promesse implicite nel trailer.
Furiosa: A Mad Max saga non è un salto in avanti; è piuttosto un tassello che aggiunge qualcosa a un’opera già iniziata, come la pala centrale di un trittico. Forse l’apprezzeremo ancora di più dopo un altro film, che mi auguro non tardi ancora un decennio, ma si può godere assolutamente già da subito.
Conosciamo già il mondo postatomico immaginato da George Miller, la sua economia basata sul petrolio, sull’acqua potabile e sul sangue, e abbiamo già incontrato il personaggio di Furiosa, luogotenente del cattivo Immortan Joe. Il film scorre, non siamo così scontenti da percepire una delusione, le scene d’azione sono formidabili, ma ci aspettiamo soprattutto novità, trovate originali. Ci sono. E di quali novità si tratta?
La prima sta nella struttura del racconto. Fury Road era un lungo inseguimento, una sequenza singola ben definita che lasciava allo spettatore il compito di ricostruire mentalmente il mondo ai due lati della strada: la genesi della cittadella, le folli dinamiche tra le sue classi sociali (Immortan e i suoi collaboratori più stretti, i warboys, le mogli e le produttrici di latte, i meccanici e gli addetti all’ascensore, gli outcast che vivono al livello del suolo aspettando l’elemosina dell’acqua); questa invece, lo dice il titolo, è una saga, il racconto di eventi che durano almeno venti anni, e che ha per oggetto il personaggio di Furiosa, il suo carattere, i cambiamenti nella sua vita. Materiale così abbondante che avrebbe potuto benissimo essere spalmato in due stagioni di una serie televisiva. Sempre però nello stile di George Miller, maestro supremo dello show, don’t tell, coi personaggi che parlano il meno possibile e dialogano soprattutto a gesti durante le scene d’azione.
E sì, Anya Taylor-Joy (seconda novità) se la cava benissimo; sbaglia chi temeva prima della visione del film (per mancanza di fiducia o puro pregiudizio maschilista) di dover assistere alla replica de La Regina degli Scacchi ambientata nelle wasteland, con una protagonista senza spessore e sostanzialmente priva di carisma che riesce senza sforzo in tutto quello che fa, giusto perché la storia lo richiede. La Furiosa di Anya Taylor-Joy non è un’eroina Disney o Marvel senza macchia e senza paura, ma un personaggio dolente, che passa di fallimento in fallimento; rinuncia a quasi tutti i suoi sogni, ma senza piegarsi. Una guerriera che in questo film non pensa nemmeno a cambiare le cose, a scardinare il potere; se vuole sopravvivere l’unica strada è accettare il compromesso, lavorare per uno dei due principali Signori della Guerra mentre medita vendetta sull’altro. Non una rivoluzionaria o un’eletta, dunque, ma il corrispettivo postatomico di una lavoratrice precaria.
La terza importante novità è rappresentata dal villain principale, Dementus. Immortan Joe, il cattivo di Fury Road, rappresentava al massimo grado ciò che aveva causato la rovina del pianeta: maschilista, ultraliberista ma col monopolio delle risorse idriche, ex-militare, pure teocrate. E la sua cittadella funzionava alla perfezione, una tipica distopia nera da fiction; godeva di approvvigionamenti di gas e di proiettili, sfornava macchine truccate, addestrava in continuazione folli guerrieri suicidi. E Immortan faceva stare ognuno al suo posto, con la violenza, con il ricatto dell’acqua o con la promessa di un aldilà glorioso (il Valhalla).
Il personaggio interpretato da Hemsworth ha un altro background rispetto a Immortan. Si tratta di un ex-biker particolarmente crudele e, per usare una parola ormai inflazionata, narcisista (il suo carattere è peggiorato dopo che ha visto morire la propria famiglia, o almeno così racconta) e incarna un aspetto del potere più vicino all’esperienza che abbiamo noi italiani della classe dirigente: l’incapacità. Sì, perché Dementus vuole conquistare, ampliare il suo potere, e in qualche misura ci riesce… ma una volta che l’ha ottenuto non sa come gestirlo. Non riuscirebbe mai a tenere insieme i soldati, i meccanici e gli schiavi della cittadella di Immortan. Con una battaglia prende il controllo di Gastown, dove viene prodotto il bene più prezioso, l’energia, ma non sa come gestirla. I lavoratori-schiavi gli si rivoltano contro, e non basteranno le armi dei suoi scherani per riportarli all’ordine. Anche una banda di cattivi, che ha visto i propri membri sacrificati cinicamente durante uno scontro, finirà per abbandonarlo mettendosi per conto proprio. Dementus è puro appetito, eterna sete di dominio sugli altri, ma non ha le capacità o la volontà di organizzare un sistema economico-politico, per quanto primitivo, che possa durare. Vuole il potere, ma senza le responsabilità che a questo sono necessariamente collegate. Vi ricorda qualcuno?
Immortan aveva l’ossessione di procurarsi una discendenza sana, non contaminata dai veleni del dopobomba, Dementus invece al futuro non pensa. “Non c’è speranza!” è il suo motto. Dunque l’unica cosa da fare è prendere quanto più possibile, arraffare senza pensare a un domani. A lasciarlo fare, il mondo post-atomico diverrebbe ancora più povero, più disorganizzato, più caotico.
Le compagnie petrolifere, le industrie delle armi, la bella classe dirigente che oggi dà il ritmo alle nostre vite, lo stanno facendo per costruire un mondo perfetto e senza scampo come un incubo kafkiano o per una fondamentale incapacità, per campare alla giornata? La seconda ipotesi appare più realistica della prima, e non è detto che sia meno cupa.