di Chiara Meistro e Franco Pezzini
[È appena comparso per i tipi Mondadori, nella collana Oscar Draghi, il volume Specchi oscuri. Carmilla e altri incubi di Joseph Sheridan Le Fanu, a cura nostra, più di milleduecento pagine di testi brevi dello scrittore irlandese.]
Tra gli autori del mistero, del gotico e del fantastico di età vittoriana Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) riveste un ruolo particolarissimo. A fronte di altri ormai studiati in pletore di saggi – si pensi solo a Bram Stoker, per non parlare di Poe, e citare insieme questi tre nomi eccellenti non è (vedremo) casuale – con Le Fanu si ha sempre la sensazione di un mistero in più, di una sorta di iceberg dall’impressionante sommerso. Tanto più dall’ottica dei lettori italiani, che conoscono solo una piccola parte della sua produzione (mancano in traduzione quasi tutti i suoi romanzi, con l’illustre eccezione di Uncle Silas, presentato a suo tempo dalla straordinaria factory Gargoyle del mai abbastanza lodato Paolo De Crescenzo), per quanto la scelta tradizionale di testi brevi lefanuiani, a cura di studiosi d’eccezione come Malcolm Skey che ne aveva curata per Theoria un’ottima raccolta, abbia già fornito un’idea dell’alto livello di una scrittura.
Tuttavia, girando d’estate per le grandi librerie di catena in Inghilterra, l’autore della novella Carmilla appare raramente presente. La sua fama in effetti ha conosciuto fasi altalenanti, e forse all’estero ha trovato persino più attenzioni che nel Regno Unito (cui a dispetto della lealtà monarchica del Nostro, non appartiene più in effetti la sua Irlanda). Senza contare che il suo personaggio più noto, appunto Carmilla, ha potuto imporsi al cinema come la vampira per eccellenza degli schermi continentali europei (in un’estasi di riletture talora sovraeccitate e liberissime ma in genere di enorme fascino), laddove Dracula è mattatore assoluto di quelli angloamericani. Se aggiungiamo il prolungato mistero delle fonti di Carmilla – fonti autentiche oggi in gran parte individuate, e fonti farlocche legate a tutta una mitizzazione (si pensi solo alla tesi di certi filoni esoterici su una presunta ispirazione dalla contessa e imperatrice stiriana Barbara di Cilli) – comprendiamo il senso di straniamento e di enigmaticità addensato su un autore dalla vita in sé non così misteriosa. Non almeno nel senso romanzesco: un gentiluomo vessato da lutti, pieno d’amore e di ansie per i figli e apprezzato dagli amici per la sua bonomia. La vita di Le Fanu non ha granché del “maledettismo” di quella di Poe – cui è silenziosamente legato dal comune avvio come poeti e da un intreccio di reciproche ispirazioni, ma dal quale caratterialmente risulta lontanissimo; e, per quanto non avara di riconoscimenti, non incontra il successo sociale che troverà Stoker da lui forse protetto a inizio carriera e di cui rappresenterà per molti versi un modello. Di certo, esattamente come per Poe e anche per Stoker (a dispetto di avventurose interpretazioni anche recenti), il peso dell’occultismo nella sua opera non va sopravvalutato.
Alcuni misteri sono più fondati. Fino a tempi recentissimi, alcune datazioni di racconti di Le Fanu erano riportate con errori ed esiste un bacino abbastanza ampio di opere a lui collegate ma di dubbia paternità. Di fronte a richiami spesso fuggevoli nelle note biografiche sull’autore, ha senso leggere almeno alcuni di questi testi per capire di cosa si tratti (anche per notare la differenza tra lo stile elegantissimo di Le Fanu e quello di apocrifi più o meno coevi). Su un intero polmone di testi almeno passatigli tra le mani tra le scrivanie della rivista principale da lui curata, il “Dublin University Magazine”, occorrerebbe però uno studio autonomo, che mappasse la frequenza dei vocaboli utilizzati e analizzasse stile e approccio, distinguendo i suoi da contributi dei collaboratori redazionali. Da capire resta insomma parecchio, e muovendo nella Babele dei social si resta colpiti dal fascino magnetico immediatamente esercitato dal nome di Le Fanu – più ancora che da quelli di altri narratori eccellenti di fantasmi (usiamo apposta una dicitura limitante) come Dickens o M.R. James. Dal lettore che sostiene di saper tutto su Carmilla in ogni forma artistica e mediatica – registriamo con ammirazione, perché i rivoli sono talmente infiniti che pare arduo poter proclamare ciò con tanta sicurezza – all’altro che giura sull’esistenza di altre storie sul dottor Hesselius oltre quelle di In a Glass Darkly – e in effetti alcuni apocrifi circolano, ma saremmo i primi a compiacerci se saltasse fuori una fonte ottocentesca che li riporta. Le riviste alle quali Le Fanu collaborava sono oggi in larghissima parte scansite e reperibili online, quindi il dubbio può vertere sulla mancata esplicitazione di una paternità, più che sull’esistenza in sé di testi. Poi, per carità, non si può escludere nulla: alcune sorprese potrebbero ancora emergere, come per lo Spalatro ascritto solo in tempi relativamente recenti (da W. J. McCormack, 1980) al canone lefanuiano.
Misteri a parte, avvicinando la messe della sua produzione, emergono alcune caratteristiche di estremo interesse proprio sul piano dell’approccio narrativo.
Che Carmilla, apparsa tra il dicembre 1871 e il marzo 1872 sulle pagine della rivista “The Dark Blue” (in quattro puntate), richiami in modo ossessivo rifrazioni e specularità – fin dal rapporto tra la protagonista e la narrante – è assai noto: è qualcosa del resto del tutto adeguato all’inserimento nella raccolta In a Glass Darkly (1872) fitta di doppi e raddoppiamenti spettrali, e che fin dal titolo – richiamante un’espressione paolina come resa nella Bibbia di re Giacomo – evoca lo specchio e un tipo di rifrazione oscura. Ma la cifra di doppi e duplicazioni connota un po’ tutta la produzione di Le Fanu, legandosi a quel chiodo fisso dell’identità e delle sue crisi che corre per tutta la letteratura vittoriana, ne connota alcuni filoni (il sensation novel in particolare) e in qualche modo caratterizza un po’ tutto il fantastico moderno attraverso l’evocazione di crisi di identità personali/individuali o collettive/sociali… Il doppio diventa così una sorta di chiave di denuncia dell’ambiguità della vita umana e dei suoi equilibri, delle nostre pretese morali e sociali.
Questi giochi con le forme non devono stupirci. Per esempio Poe, al di là dei temi ben noti ossessivamente ritornanti, ne richiamava alcune con frequenza – per esempio la costellazione pozzo/foro circolare/gorgo, a suggerire i temi dell’abisso, del vortice, della voragine agli estremi polari del mondo; mentre Stoker apparirà ossesso dalla rifrazione/simmetria, con motivi che paiono macchie di Rorschach (elementi simmetrici di trama, ruoli e gruppi di personaggi, singole caratteristiche) e giocano assieme sui tavoli di un’ingegneria narrativa frutto del lavoro di anni e di istanze che flirtano con l’inconscio.
Nel caso di Le Fanu la suggestione della duplicità parte dai contenuti, con la presenza di doppi, doppioni o Doppelgänger spettrali, onirici, o di temi analoghi e riscritture differenti dello stesso mito (come in An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street, 1853, rispetto al Mr Justice Harbottle di In a Glass Darkly), a riecheggiare in “some of the profoundest arcana of our dual existence, and its intermediates” il tema sottostante di una realtà paradigmaticamente duale in senso metafisico, filosofico, esistenziale.
Duplicità che investe anche il campo dell’arte, molto più rilevante in Le Fanu di quanto spesso riconosciuto: sia per sua appassionata competenza, sia per gli aspetti d’interesse che temi artistici gli permettono di declinare (il ritratto come doppio, sulla base di una riflessione classica del gotico – che in lui recupera la dimensione di richiamo non solo a un genere letterario ma anche a uno stile architettonico e artistico di stampo più propriamente medievale; la dimensione insidiosa del pittoresco; il rapporto luci/ombre, eccetera). Per questo è tanto importante la storia della sua fortuna iconografica, avviata idealmente dalla sua stessa famiglia con le illustrazioni del figlio Brinsley; per questo un altro rapporto di resa figurativa, quella attraverso i doppi dello specchio oscuro del cinema, assume un peso tanto rilevante.
Ma il doppio esonda sul piano della struttura, attraverso la riproposizione delle stesse storie in forme solo lievemente diverse. Così The Fortunes of Sir Robert Ardagh (1838) sarà poi rielaborato nella più tarda novella The Haunted Baronet. Passage in the Secret History of an Irish Countess (1838) riapparirà con poche modifiche in The Murdered Cousin, or Footsteps In The Lobby (1851), per poi trasformarsi in forma ampliata nel romanzo Uncle Silas (1864). A Chapter in the History of a Tyrone Family (1839) evolverà nel romanzo The Wyvern Mystery. Some Account of the Latter Days of the Hon. Richard Marston (1848) riapparirà in forma lievemente modificata, con il titolo The Evil Guest (1851), da cui lo sviluppo nel romanzo A Lost Name (1868)… In qualche caso il racconto conosce ritocchi minimi: Strange Event in the Life of Schalken the Painter (1839) diverrà il definitivo Schalken the Painter (1851) e The Watcher (1847) verrà riproposto nel The Familiar di In a Glass Darkly. Allora il curatore può semplicemente esplicitare in nota la variazione rispetto al testo definitivo: invece su storie più ampie, e magari destinate a sviluppi ulteriori in forma di romanzo, la necessità di salvaguardare sfumature, pesi specifici e dati genetici impone di conservare testi anche simili.
A Strange Adventure in the Life of Miss Laura Mildmay (1869) incorpora invece un racconto poi presentato autonomamente, Madam Crowl’s Ghost (1870), il cui testo in questo caso non conosce modificazioni.
Ovviamente, solo una parte di racconti di Le Fanu si declina in forme speculari: molti ci pervengono in unica versione, pur echeggiando talora temi o suggestioni presenti anche in altri, e con qualche sorpresa nei contenuti e nello stile. Ma è bene conservare mentalmente il motivo dello specchio, della rifrazione, del doppio: qualcosa che non si esaurisce nell’ossessione di un autore dell’Ottocento, ma che ci accompagna in fondo nella nostra vita quotidiana di umani (post)moderni, sempre più nudi da agenzie di certezza e fatalmente immersi nelle ambiguità del reale.