di Luca Baiada
Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 128, € 12.
Diciamo subito. Chi con questo titolo si aspetta dimostrazioni o confutazioni su Dio, resta deluso, e chi cerca la mappa perduta dell’utopia, prima si metta gli occhiali giusti. Sulla religione:
Non è sostituibile – è la tesi di questo piccolo libro – se non con una prospettiva utopico-politica che si ponga in concorrenza, e al tempo stesso al fianco, delle religioni storiche, scontando però, rispetto a queste, una debolezza intrinseca, che consiste nel proporre una rottura con quel retroterra tradizionale propriamente culturale a cui esse, invece, restano saldamente ancorate.
Piccolo libro? Forse nel numero delle pagine. Di certo il peso delle questioni comprime i temi alla densità di un buco nero, che inghiotte la luce e si rende imperscrutabile. Scelta abile, anche se, malgrado l’autore sia filosofo, tutto il discorso cede linearità in favore di un’irresistibile suggestione. Che lo faccia apposta? In fondo, a proposito del lavoro culturale, anni fa ha scritto: «Mai arrendersi completamente. Fuggire sempre – anche dal proprio fallimento»[1].
Qualche punto debole. «La credenza di tipo religioso, la fede, ha in sé l’altra fede come qualcosa da superare nel tempo o da abbattere nello spazio. Di qui un’autoconsistenza che la rende particolarmente adatta a qualsiasi pretesa identitaria, anche in senso aggressivo». Sì, ma siamo sicuri che l’utopia eviti l’aggressività? La conquista del West, per esempio, col mito della frontiera, dava ai pionieri un’aura di progresso intrisa di utopia, oltre che di messianismo protestante. Ma non era identitaria e aggressiva?
Ancora. «Il riconoscimento della pluralità delle religioni, e della loro crescente importanza culturale, ha messo in stato d’impasse la tendenza liberale a far convivere ragione e religione, che meglio poteva esprimersi quando la società mondiale pareva avviata al trionfo dell’Aufklärung e all’affermazione del solo cristianesimo»[2]. C’è del vero. Ma se fosse una coincidenza? Il nesso causale fra riconoscimento e crisi è da dimostrare. Ci sono di mezzo la decolonizzazione e il suo fallimento, cioè la sostituzione del colonialismo con nuove forme di dominio. L’oppressione prosegue con altri mezzi; perché, allora, non può esserci un’intolleranza travestita da pluralismo, persino da terzomondismo? Sui confini di campi minati, le intuizioni sono lancinanti ma non risolutive:
Sebbene rivali, la scienza e la religione hanno sottoscritto un tacito patto che potrebbe essere detto obiettivamente antilluministico per la insipienza intellettuale che ha finito con lo spargere intorno a sé. Da un certo momento in poi, infatti, ciascuna di esse è restata padrona a casa propria, evitando di pestare i piedi all’altra: e ciò proprio nel segno della differenziazione funzionale.
Soprattutto c’è da chiedersi se, e in che modo, l’utopia possa portare a un ribaltamento drastico dei rapporti di forza nella società. È un esito che il testo non sposa apertamente. Da un lato promette altro:
È in un gioco reciproco di politica e diritto, considerando il secondo come qualcosa di modificabile attraverso la prima, che va visto il dispiegarsi di un’utopia pragmatica esprimentesi in una strategia di riforme.
Dall’altro lato, in un affondo con l’eco di Guy Debord, arriva la doccia fredda, dotta e implacabile:
È il soggetto come homo faber che non tiene più: soprattutto per via di una mutata consapevolezza del rapporto tra la natura e la cultura, in cui quest’ultima non è più l’alfa e l’omega di una vicenda storica della quale la natura sarebbe il semplice fondale. […] L’utopia ritorna così a coincidere con la «liberazione dal lavoro» (secondo un’accezione postmarxiana), nel senso di una progressiva riduzione della giornata lavorativa, di una dissoluzione degli oneri e dei vincoli imposti dal carattere costrittivo della banausia (come la chiamava Aristotele) nell’ambito di un’automazione crescente, governata da una comunicazione sociale consapevole, sottratta ai centri di potere e alle agenzie della estetizzazione diffusa, che ne limitano o tradiscono il contenuto di emancipazione.
Qui sta il punto. Tecniche, lavori e abitudini, adesso, rendono difficili le lotte sociali strutturate:
Il conflitto sociale diventa aleatorio. Proprio per questo è indispensabile rilanciare l’utopia, la sua intenzione di rottura con il presente, nella consapevolezza che perfino le lotte sociali «ordinarie», come quelle rivendicative economiche, hanno bisogno di un di più di orizzonte – non soltanto per raggiungere dei risultati, ma anche per attivarsi.
È, in fondo, un altro modo di dire ciò che denunciava Pier Paolo Pasolini, quando notava di aver incontrato persone con problemi ben più gravi della povertà. Per questo non ci sono sconti – e qui si vede lontano – neanche su temi che la sinistra considerava terreno facile:
Si è aggiunto il problema di un tempo libero consumisticamente distorto in senso ripetitivo o drammaticamente vuoto: cosicché uno dei provvedimenti più avanzati della Comune di Parigi – vietare il lavoro notturno dei fornai, in modo che essi potessero prendere parte alle lotte sociali e alle discussioni politiche – magari si presenta oggi in termini paradossalmente rovesciati: come lavorare di notte, facendo risparmiare il padrone sul costo dell’elettricità, e avere poi più tempo libero per il fitness?
Davvero, non manca un’ironia macabra, un ragionare col limone in bocca, a questo peripatetico di lunga distanza.
Sotto altri aspetti, però, il messianismo che finisce per ripresentarsi, unito a una lettura impietosa del socialismo reale novecentesco, riconosce all’utopia una credibilità simile alle promesse delle religioni. Si tingono le cose di aurora, sì, ma complicandole:
La mancanza di prove certe circa la possibilità di una vita sociale sottratta al principio di prestazione e allo spirito del capitalismo, garantisce all’utopia la sua immaginabilità, indipendentemente dal fatto che tutti gli esperimenti di socialismo fin qui realizzati, presi nel loro insieme, siano da considerare dei fallimenti. La circostanza che, partendo da guerre e da rivoluzioni (in Russia, in Cina o altrove), e in un quadro per lo più rigidamente statale, non si sia riusciti a tenere insieme solidarismo e libertà, non dice ancora nulla, infatti, sulla impossibile possibilità di un socialismo democratico.
Su questo il libro, citando Gilles Martinet e Riccardo Lombardi, prosegue: «Il contenuto dell’utopia è quello di un “riformismo rivoluzionario” che prova a modificare in profondo le strutture della società all’interno di una cornice democratica». Poi indica l’obiettivo: «Uscita graduale dal principio di prestazione e da una forma di vita competitiva verso un’altra basata sull’associazione e sulla cooperazione».
Il pensatore gira intorno ai due oggetti misteriosi del suo cercare. Proviamo a seguirlo:
Come le religioni non scompaiono mai del tutto, così l’utopia. Qualcosa resta: non tanto ciò che si deposita nella «tradizione degli oppressi», come avrebbe detto Walter Benjamin, quanto piuttosto il senso di un orizzonte che per un momento si era aperto e poi rapidamente richiuso. È quindi dalla delusione di una aspettativa che prende le mosse, reagendo alla rassegnazione, il desiderio di provarci ancora. Si può allora stabilire un parallelismo tra il credo quia absurdum, o il paradosso della fede secondo Kierkegaard, e il pensiero di un’utopia che rinasce dalle proprie ceneri.
La resurrezione dell’utopia ha qualcosa di magico, di iniziatico. Ma forse qui una maschera nasconde la sostanza del discorso: il vero protagonista di questo ripresentarsi non sarebbe la casta utopia, ma la sua sorella sensuale, golosa, generatrice: la traviata innominabile, la seducente dama dalle camelie: la rivoluzione.
Il moto rivoluzionario, che spezza la storia e la porta a compimento, nega la morte del passato perché genera il futuro. Chi pratica quel moto – i filosofi siano avvertiti – non percepisce un’assurdità e non fa un atto di fede. Ci sono eccezioni, certo, ma attenzione: chi fa della rivoluzione una fede può pagar caro – fu il caso di Maiakovskij – l’audace volo di Icaro. Come la dama dalle camelie, la rivoluzione è la sola a conoscere i suoi cicli, e vi accenna appena – è il gesto di Alfonsina Duplessis in La storia vera della signora dalle camelie di Bolognini – , a seconda del fiore che ha sul petto, candido o vermiglio, per concedersi o negarsi. Leggere i segni dei tempi non è per tutti.
E allora. La rivoluzione abita questo libro, senza il nome sulla porta? Non è detto. Di certo, il discorso è stimolante quando si mostra dubbioso sui confini:
In tutte le forme religiose, anche quelle «primitive» come l’animismo o il totemismo, è rintracciabile un nucleo di socialità solidale, cooperativa e non competitiva, pur nell’ambito della funzione fondamentale di ogni religione, che consiste nel controllo dell’alterità in generale, come può essere il far fronte al destino mortale degli umani. Da questo nucleo va estratto il succo utopico. Se ne trova più qua dentro di quanto mai se ne sia visto in quella istituzionalizzazione di una politica dell’utopia che ne determinò la rapida caduta in una vuota routine dispotico-burocratica e in un potere totalitario.
Stimolante, ma l’esito non va affatto. Nel crollo del blocco socialista è stato determinante l’assedio da parte del blocco avversario, quello capitalista, che ha potuto contare sull’appoggio delle religioni istituzionalizzate: soprattutto, a occidente sul cattolicesimo polacco e a oriente sull’islam fondamentalista. Il 1989 passa da Varsavia e da Kabul. C’è un nucleo utopico sociale nelle rivelazioni religiose; ma alla lunga quella socialità, identitaria e interclassista, ha favorito la dissoluzione di un modello e il successo dell’altro, con la conseguenza di aprire a uno squilibrio del terrore, alla guerra.
Un terreno di frizione evidente è stata la Jugoslavia. Non so se fosse utopia, unire gruppi nazionali e religiosi in un’economia socialista e cooperativa, che per decenni funzionò. Ma certamente il solidarismo riconoscibile nelle religioni – in Jugoslavia c’erano praticamente tutte quelle dell’Europa e del Mediterraneo – negli anni Novanta non ha impedito massacri che hanno richiesto una corte internazionale sul modello di Norimberga. Presentando la questione se la politica dell’utopia e le religioni siano imparentate, certo l’autore non intende far preferire alla luce fredda della politica il calore del sacro; sa bene che esso può diventare rogo e cenere, quando si fanatizza o si prostituisce al servizio del classismo e del capitalismo.
Sulle questioni memoriali c’è un colpo d’ala. Si prende atto dell’inevitabilità della memoria contesa, che poggia sul bisogno di dare un senso – basta coi trucchi della memoria condivisa o, come si è balbettato, comune o attiva – , e si va oltre: «Il discorso storiografico potrebbe così essere avvicinato a quello teologico, che ha conosciuto nei secoli più controversie che momenti di accordo». Giusto. Allo stesso tempo, ogni discorso storiografico porta con sé ipotesi alternative: come sarebbe andata se…? Qui leggiamo: «Una storia controfattuale è l’unica che regga a uno sguardo critico». Fermi tutti: proprio non ci siamo. Ma ai filosofi si perdonano i paradossi e l’argomento è accattivante. Genovese lo scruta e ci spiazza:
Da questa situazione, che sarebbe d’impasse, si esce con un passaggio di genere, balzando cioè dal discorso storiografico a quello utopico, che reca in sé un contenuto assiologico-normativo, con la conseguenza che la storiografia può inserirsi nella storia soltanto mediante un consapevole progetto di futuro – altrimenti essa non è nulla più che una raccolta di fatti e documenti, la cui interpretazione è comunque opinabile.
Personalmente sono convinto da tempo della necessità di rivolgere gli storici al futuro, a ciò che sarà. E questo, anche spingendoli a fare i conti con la giustizia per ciò che è stato. Anzi, a volte – certe parole micidiali di Gaetano Salvemini mi confortano[3] – sento la necessità di giudicarli, gli storici, perciò metto anche l’utopia, quella alla Genovese, sul piatto della bilancia, con gli storici come imputati. Del resto: il passato è già stato, mentre il futuro può seguire i nostri progetti, calpestarli o andare in qualche altro modo imprevedibile; sicché il progetto consapevole che si vagheggia, più è al di là dell’orizzonte e più il balzo riscatta l’impasse.
Amare la libertà, anche quella di cambiare, sino a contraddire la narrazione conformista sul socialismo, in voga dal 1989? Si può farlo percorrendo un filo sulla vertigine:
La servitù volontaria è diventata predominante per via di una diffusa ignoranza, ammantata da un presunto rifiuto dell’ideologia. Il fatto che in passato un’ideologia legata al «socialismo reale» abbia svolto una funzione di blocco dell’utopia (tuttavia in misura non molto maggiore di quella svolta dalla stessa socialdemocrazia occidentale) non toglie nulla alla circostanza che perfino un’infarinatura di materialismo dialettico sovietico sia meglio del non avere alcuna cognizione: «meglio» nel senso di predisporre il soggetto a quel cambio di paradigma in cui l’utopia consiste. Per procedere in direzione dell’utopia, infatti, bisogna realizzare uno spostamento del punto di vista.
Ciò di cui l’autore sta parlando, quello spostamento, è molto simile alla metanoia (μετάνοια), cioè a un oggetto teologico. L’utopia è più imparentata con la religione di quanto si immagini? Bella forza. Ma anche il socialismo reale bloccava l’utopia meno di quanto sembri, per chi non ci viveva dentro; eppure non c’entrava il materialismo dialettico sovietico, quello che chiamavano diamat. Piuttosto, via, siamo seri: erano determinanti le ingiustizie del padronato e degli sfruttatori, contrastate da gruppi sociali e organizzazioni capaci di comunicare, di superare l’isolamento e l’individualismo, di fare lotta di classe. Di qua dal Muro di Berlino erano quelle ingiustizie, non le infarinature parolaie, a chiarire anche alle menti più semplici l’urgenza del cambiamento.
Il tentativo di mettere il tema nella storia italiana porta più domande che risposte. Si denuncia la mancanza di lotte ragionate, volte a conquiste che spostano in là l’obiettivo mentre lo realizzano, e si analizzano le conseguenze della lacuna nel secondo Novecento:
Si può osservare come la mobilità della linea dell’orizzonte faccia parte del concetto stesso dell’utopia. Ma nel dopoguerra ciò avveniva senza la coscienza stessa del paradosso, inducendo cioè nelle masse lavoratrici, a scopi elettorali, la credenza in un fine ultimo a portata di mano sull’esempio della Russia sovietica: fraintendimento che, nei decenni successivi, doveva pesare sui partiti del movimento operaio italiano fino alla loro scomparsa. Un riformismo che non diceva il suo nome, o che, quando lo diceva (come nel caso del Psi dopo il 1956), si cacciava in una collaborazione al ribasso con le forze moderate – stanno in questo qui pro quo le radici della liquidazione di qualsiasi socialismo e l’approdo finale della maggior parte della sinistra italiana a posizioni puramente liberaldemocratiche. Una volta messa da parte la versione «massimalista» dell’utopia, ne sortiva, per un grave deficit di consapevolezza, la dissoluzione dello stesso spirito utopico.
Troppo facile obiettare che tutti i partiti furono ambigui. Meglio osservare che, ragionando come Genovese, l’opzione storica rivoluzionaria viene negata ma presupposta come indispensabile – simile in questo al Dio che, osserva l’autore, le religioni vogliono far restare invisibile.
Ma c’è qualcosa in più, e non è nelle contraddizioni che uno studio come questo porta con sé. A colpire è questa soteriologia dell’utopia, che parte dalla dannazione di un cattivo gradualismo, di un riformismo della vergogna; questa tesi, se proviamo a leggerla in direzione inversa, si mostra ancor più intrecciata al paradosso: un riformismo consapevole, e soprattutto vincente, avrebbe salvato anche i massimalisti? magari persino i comunisti? e gli stalinisti? Quantomeno li avrebbe assorbiti in un più ampio destino. L’altra storia possibile, allora. E un’altra versione controfattuale. Davvero, tutto questo somiglia a lontane eresie: la salvezza riscatta tutti, il Demonio è il punto più profondo di Dio, il Messia salva anche Satana.
Magari è proprio questa, chissà, la suggestione profonda del piccolo libro. È tra quelli che valgono più per le contraddizioni che per la coerenza? Mentre cerchiamo il confine tra religione e utopia, mentre saliamo per il tortuoso sentiero, la questione ci sguscia dalle mani, vola via, e forse l’autore fa come il maestro nella Montagna sacra di Jodorowski, nella scena finale: sulla vetta ci invita alla mensa iniziatica, sfiliamo il cappuccio ai maghi, e oplà: sono manichini. Ha fatto la sua parte, adesso ci rende la libertà e sono fatti nostri.
[1] Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma. Dal diario dell’esilio mentale, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 176.
[2] In questa citazione e nelle altre da Rino Genovese, L’inesistenza di Dio e l’utopia, Quodlibet, Macerata 2023, i corsivi sono nell’originale.
[3] «Io penso qualche volta che se si vuole far rispettare la pace sulla terra la maggior parte dei professori di storia – per lo meno in Europa – dovrebbero essere impiccati», Gaetano Salvemini, Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1948, pp. 48-49.