di Luca Baiada
Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 288, euro 18.
«Queste pagine non sono nate per comporre un ritratto idealizzato di Matteotti, magari da archiviare nella polvere di una biblioteca come si accantona una pratica fastidiosa per certi rimorsi che suscita». Ottimo proposito. Il volume, malgrado temi scabrosi, dettagli per fissare l’attenzione e insistenze su questioni superabili, prende la direzione giusta. Se c’è qualche inciampo si fa perdonare con la messe di dati, col quadro vivace degli spunti e soprattutto con l’attenzione partecipe e col tratto incalzante.
C’è una cosa di cui si è costretti a dar conto, anche se si vorrebbe farne a meno. Secondo una narrazione diffusa – l’ho sentita di persona più volte e anche a Rovigo – Matteotti durante una delle tante aggressioni fasciste, quella a Castelguglielmo nel 1921, fu sodomizzato. Il libro dà conto di questa versione senza prendere un orientamento netto sulla veridicità. Qui non cerchiamo l’esattezza; farlo sarebbe un’ispezione corporale e offenderebbe chi non può replicare. Sul punto, la dichiarazione di Matteotti alla Camera – anche lì, in aula, i fascisti lo canzonavano con quel pretesto – è più importante:
Devo per conto mio apertamente dichiarare che accennano a cose perfettamente, assolutamente false. Se fossero vere, io stesso le avrei denunziate perché rappresenterebbero non la vergogna della vittima, ma la vergogna di una fazione arrivata a tali estremi.
Che si ripetano queste cose – aggiunge – esprime le «più basse e vergognose attitudini, abitudini, capacità morali». In questo, sì, sta la risposta migliore alla questione dello stupro, una cosa su cui i fascisti vollero sempre insistere; una cosa che Piero Gobetti ritenne falsa già nel 1924[1]. Con quelle parole Matteotti smaschera – è un punto di grande modernità – la colpevolizzazione della vittima e il carattere perverso del fascismo. Ribadisce quel carattere la circostanza che, dopo l’assassinio, sia stata fatta circolare la voce di un’evirazione.
La colpevolizzazione può riguardare indifferentemente una vittima vera o falsa, perché la realtà è una cosa di cui i persecutori non hanno bisogno. E ancora: la prova più evidente della perversione fascista è proprio nell’equivalenza, per il persecutore, della sessualità scelta e di quella subita: il socialista era accusato sia di essere stato stuprato sia di essere omosessuale; e ciò con motteggi, allusioni, doppi sensi. Lazzi e giochi di parole sono da sempre cari al linguaggio fascista, anche se ebbero il loro periodo più florido sotto occupazione tedesca, nella Rsi, fucina di scioglilingua odiosi, torve malizie e battutame. In Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini, uno dei torturatori racconta una barzelletta davanti a un cadavere: Perotto e un amico si perdono nel buio, l’amico intravede qualcosa e chiede: «Sei Perotto?» – risposta: «Quarantotto!». I fascisti ridono.
L’omosessualità attribuita a Matteotti – detto incidentalmente – contrasta col fatto che Mussolini in un incontro con funzionari esteri, dopo la sparizione del deputato e prima del ritrovamento della salma, abbia gettato lì l’ipotesi che fosse «andato a puttane». Ma è inutile chiedere coerenza ai fascisti. Nel loro quadro mentale, ancor oggi, l’adesione forzata di milioni di persone (il giuramento, la tessera, le adunate, le divise eccetera), benché fatta per evitare violenza e licenziamento, è la prova che gli italiani volessero la dittatura. In questo sì, c’è un’oscura coerenza: se milioni di italiani costretti al fascismo sono di conseguenza fascisti, l’uomo vittima di sesso anale forzato è di conseguenza un omosessuale. Sullo sfondo c’è il modo contorto in cui il fascismo vive la sessualità e la fisicità, in un groviglio di attenzioni stercorarie per i riottosi (l’olio di ricino) e di eccitazione avida per il corpo del capo. Gli estranei vengono svuotati, il capo sazia gli eletti. Ecco un articolo del 1936:
Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. […] Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alla bardature. Ansiosi e insofferenti, noi stessi gliele strappiamo di dosso. […] Ma dobbiamo amarlo pur senza desiderare di essere le favorite di un harem.
L’autore di questo corteggiamento era un giornalista con un futuro: Indro Montanelli[2]. Allora: la sostanza della storia di Castelguglielmo ci ribadisce quanto il fascismo sia male. Perché quella storia chiarisce le cose senza insozzare il bersaglio, partendo da dettagli imbarazzanti? Forse perché ci sono persone così belle, che anche l’odio delle carogne le fa più belle.
Fra le canzonacce e sfide dei fascisti riportate dagli autori, risalta questa: «Matteotti, Matteotti! / Quanta malinconia nel tuo sorriso / avevi un posticino in Parlamento / te l’ha levato il fascio in un momento». Effettivamente nelle fotografie che circolarono dopo il delitto c’è un’espressione enigmatica, anche triste e tragica; ma l’angustia mentale ci vede motivazioni personali – il posticino, cioè l’attaccamento, si direbbe oggi, alla casta, alla poltrona – e non lo sconcerto per il disastro in cui il fascismo ha cacciato l’Italia. L’egoismo per mestiere e la cecità morale non immaginano che qualcuno si doni agli altri. Tutti sono sporchi, la democrazia è sporca, ovunque c’è un complotto, tutti rubano alla stessa maniera, la guerra è l’igiene del mondo. Quanto ai posticini, adesso, dopo anni di demagogia, leggi elettorali orrende e un bruttissimo referendum, in maniera incruenta sono stati soppressi molti seggi parlamentari, al punto che, se si considerano le Camere in rapporto al popolo, rispetto all’epoca della Costituente il Parlamento è dimezzato.
Su un aspetto, invece, il volume ha un orientamento preciso: la versione che, con varie sfumature, riconduce il delitto Matteotti a uno scandalo su concessioni petrolifere. Gli autori la escludono, in più punti, con considerazioni non del tutto sovrapponibili[3]. I loro rilievi, quando accomunano questa tesi alle bugie che attribuiscono il delitto alla sinistra o che negano il coinvolgimento di Mussolini, sono eccessivi. È da condividere, però, il brano in cui si riconduce il crimine all’insieme delle posizioni del socialista e si riconosce un ruolo anche a Un anno di dominazione fascista, il testo uscito fra grandi difficoltà poco prima della morte, dove si illustrano in modo documentatissimo le mascalzonate del regime.
Il punto è se a queste cause se ne siano accompagnate altre. Gli autori hanno la correttezza di ammettere che per alcuni osservatori la pista del petrolio non esclude quella politica. Qui non approfondisco tutta la questione, che richiederebbe l’analisi di molti elementi; fra i più importanti, la data effettiva della decisione di passare alla violenza estrema contro il deputato[4]. In genere, poi, le spiegazioni monocausali non si adattano a fatti così gravi. Invece di cercare un movente inconfutabile del delitto, o un dosaggio preciso di moventi diversi, è meglio segnalare un tema di metodo.
Le spiegazioni accentrate appiattiscono i fatti sulla cronaca, quelle diffuse sono per la storia; i laboratori della polizia scientifica e le aule giudiziarie si prestano meglio alla prima; le accademie di solito preferiscono la seconda. C’è di mezzo l’idea che le due cose fatichino a trovare una sintesi, insomma l’idea che si rischi di farsi rimpicciolire, o al contrario disperdere, valorizzando l’una o l’altra tendenza. C’è chi teme di diventare una talpa e chi una nuvola. Eppure, come sarebbe bello se le talpe imparassero a volare e le nuvole a scavare! Se poi si guarda agli intellettuali militanti del Ventesimo Secolo, Matteotti è fra i più vicini a questo ircocervo: mentre lavorava in grande per un mondo nuovo, passava giorni a studiare le carte contabili di quello vecchio, per denunciarne le falsificazioni, le poste truccate, i debiti nascosti. Non gli fu perdonato.
Sempre per escludere la pista del petrolio, gli autori fanno una considerazione d’ordine generale:
La pista che il sangue di Matteotti indica, invece, è la più nobile e la meno materiale che si possa immaginare, perché da quel sangue – e da quello di tutte le altre vittime della Ceka [la banda di sicari fascisti con sede al Viminale] – è derivata la semente della nostra Repubblica.
L’argomento non convince. Il proposito di rafforzare il fascismo eliminando un dirigente politico preparato e coraggioso non è meno materiale di quello di nascondere uno specifico crimine economico; solo che il primo intento è più vasto, il secondo più perimetrato. La presenza di più moventi non toglie nulla alla nobiltà di Matteotti. Il grande socialista anzi si dimostra – tutta la sua storia è così – un uomo che si informa e si batte sia sulle ampie questioni del paese sia su vicende specifiche.
Se poi si guarda al seme del futuro, i nemici della Repubblica sono da sempre fascisti o criminali o corrotti (i peggiori, le tre cose insieme), e questo fa pensare che la coincidenza di politica e corruzione nel delitto Matteotti sia in linea con la storia italiana. Per esempio: sarebbe difficile distinguere cosa è politica, cosa è crimine e cosa è accaparramento economico nella morte di Enrico Mattei. Questo non prova nulla, eppure: nel caso Mattei, che si presta abbastanza bene al paragone, c’è il petrolio.
Sul posizionamento dei segmenti della classe dirigente e intellettuale, vecchi e nuovi, considerati tenendo presente il delitto Matteotti, questo studio si ripiega, più che altro per tendenza metodologica, quasi in una lettura assolutoria indiretta, che per bizzarro esito finisce per giovare alla destra che precedette la Prima guerra mondiale come alla sinistra successiva alla Seconda.
In particolare, il testo è benevolo coi giuristi, mentre avrebbe fatto meglio a essere severo; di alcuni baroni accademici è additata la complicità col regime, ma su altri c’è timidezza. Gli elogi illustri a Matteotti, in vita e in morte, sono una documentazione preziosa ma per lo più dimostrano l’abitudine all’ipocrisia. Del resto si capisce quanto il socialista potesse essere malvisto, e non solo a destra, seguendo ancora Gobetti:
Eretico e oppositore nel partito socialista, poi tra gli unitari una specie di guardiano della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri: sempre alle funzioni più ingrate e alle battaglie più compromesse. Combatté tutta la vita il confusionismo dei blocchi, la massoneria, l’affarismo dei partiti popolari. Era implacabile critico dei dirigenti e si ricorda che giovanissimo, in una riunione socialista, un nume del socialismo locale aveva dovuto interromperlo: «Tasi ti che te ga le braghe curte!»[5].
Di un giurista furbo, Alfredo Rocco, si ricorda che andò alla stazione di Monterotondo ad accogliere la bara e che mandò alla vedova un «nobile telegramma». Altro che nobiltà: il suo comportamento da presidente dell’ultima seduta con Matteotti, alla Camera, fu miserabile, e in seguito la sua sudditanza al regime fu assidua e profonda. Di un altro, Luigi Lucchini, si ricordano i solleciti bonari a tornare agli studi, e la risposta in cui Matteotti ringrazia e spiega che deve restare al suo posto; ma Lucchini, prima favorevole ai lavoratori, era diventato così conservatore da definire il socialismo «delitto comune»[6].
Esaminando la posizione dei giovani, specialmente la loro aggressività acuita dal vaniloquio rivoluzionario fascista, e scegliendo un esempio significativo, gli autori chiosano:
Questi giovani, così come il giovanissimo Vittorini, avevano anche sentito parlare di socialismo ed erano quindi indotti a mescolare fascismo e socialismo con un’equivoca ma resistente ambivalenza, che si troverà più tardi al fondo del cosiddetto «fascismo di sinistra» e che porterà, dopo un «lungo viaggio» e il trauma della guerra perduta, molti di quei giovani, tra cui lo stesso scrittore, fuori dell’ideologia fascista verso il comunismo. A dimostrazione che la figura e il sacrificio di Matteotti agirono in qualche modo, se pur per iniziale contrasto, come efficace reagente anche nello spirito e nella mente degli avversari primieramente più riottosi.
La premessa è giusta: c’era l’ambivalenza, frutto del camuffamento fascista; c’era la voglia di menar le mani, stuzzicata da un’educazione alla sopraffazione, al bullismo di massa, al razzismo; e c’è stato il trauma. Ma troppo rassicurante è il giudizio che si dà dell’esito.
Il punto – senza sopravvalutare il caso di Vittorini – è che l’efficace reagente è in realtà un tossico edulcorato, ben lontano dall’intransigenza di Matteotti. Per capire la vera portata di quel fuori e verso, bisognerebbe misurare quanta faziosità, quanta ginnastica parolaia e quanta voglia di padrone quei giovani si portarono dietro, allora, iniettando nella sinistra del dopoguerra virus che pesarono a lungo. Per esempio sui rapporti fra Psi e Pci, sulle smanie rivoluzionarie che nascondevano compromessi perdenti, sulla distanza che correva tra la lingua dei comizi e quella delle segreterie, dei corridoi parlamentari, degli uffici negli enti locali. Tutte cose che contribuirono alla difficoltà di realizzare una sinistra di massa capace, un giorno, di sopravvivere al crollo del blocco sovietico. Forse stiamo ancora pagando – penso in parte ai Cinque stelle, senz’altro al Pd e a quel che c’è alla sua sinistra – certe mescole appiccicose, certi «lunghi viaggi» senza biglietto. Così due guerre diventano comodi lavacri: la prima offre l’alibi del salto nel buio e i conservatori si adattano al fascismo; la seconda offre quello del buio alle spalle e i fascisti frondisti, inquieti, ravveduti passano all’antifascismo.
Quanto a Matteotti, il suo impegno contro la partecipazione al conflitto mondiale veniva naturale. Il libro ne coglie il senso profondo:
Assolutamente alieno da ogni infatuazione nazionalistica e suggestione letteraria, antidannunziano per costituzione organica, è soprattutto refrattario a quelle motivazioni agitate dall’interventismo della sinistra, che in qualche misura determinano incertezze e defezioni nelle correnti più estreme e radicaleggianti del suo partito. […] L’avversione alla guerra dei riformisti come Matteotti, Altobelli, Badaloni, Prampolini si spiega anche con la vicinanza a quel mondo contadino della Valle Padana che aveva aderito al socialismo in virtù di una propaganda di natura quasi religiosa che parlava di fratellanza tra i popoli e di pace (di Prampolini, per esempio, è l’opuscolo diffusissimo La predica di Natale).
Eccoci dunque ai riformisti. La questione del riformismo è il punto su cui il timbro espressivo, dovuto ai differenti percorsi professionali degli autori, si rivela un’ottima risorsa e offre le pagine più interessanti, perché valorizza le competenze dello storico e cavalca spigliato la prosa giornalistica. Matteotti è visto di fronte:
Lo predispone […] a questa militanza, per molti aspetti precipuamente tecnica, la sua solida preparazione giuridica ed economica applicata lucidamente ai problemi amministrativi e a quelli dell’organizzazione del lavoro. […] Insomma un riformismo che non era un generico ideale umanitario né tanto meno un impaziente rivoluzionarismo velleitario, ma un metodo volto ad alimentare e indirizzare a buon esito l’incessante processo di trasformazione delle condizioni del proletariato e di profonda riforma delle leggi.
Matteotti riformista, rivoluzionario o, come si dirà, portatore di un riformismo rivoluzionario? Ci aiuta sempre Gobetti: «Accettava da Marx l’imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente; e pur con riserve poco ortodosse non repudiava neppure il collettivismo»[7]. Questo volume indica il gradualismo ma lo ridimensiona citando da uno scritto di Matteotti del 1919:
Le lotte economiche sono prima per l’aumento del salario, come condizione di vita; quindi sono per il controllo dell’azienda; più tardi ancora per l’assunzione diretta delle aziende, sostituendosi al capitalismo. [Si tratta di] imporre alla stessa borghesia istituzioni sempre più conformi all’interesse del proletariato, costituendo coi comuni socialisti, colle scuole, con le cooperative, ecc. tanti nuclei pronti per il regime socialista di domani.
Non certo il programma di un moderato, semmai quello di un rivoluzionario sui tempi lunghi; uno che alza barricate, invece che accumulando alla svelta rottami, cementando un po’ alla volta mattoni di qualità. C’è in lui una consapevolezza da giurista e da socialista: corruzione e falsificazione contabile sono armi della lotta di classe borghese contro i lavoratori. Di fronte a questo, distribuire esattamente le parti di responsabilità, nel delitto Matteotti, fra criminalità economica e oppressione di classe, sbiadisce di senso: con la scoperta di uno scandalo sul petrolio quelle barricate sono ancora più robuste.
Il modo di essere del nemico impone il modo di impegnarsi. Bisogna cercare alleanze e difendere tutti gli spazi politici:
Anche nel 1922 Matteotti si adopera per convincere i dirigenti del partito a promuovere un’intesa con altre formazioni antifasciste, in difesa delle libertà democratiche, allo scopo di evitare il rischio dell’isolamento e per non finire con il rinchiudersi in uno sterile atteggiamento puramente negativo.
La lungimiranza non riguarda solo la difesa delle garanzie liberali nelle aule elettive e giudiziarie; in una bozza di articolo per «Critica sociale», non pubblicato, Matteotti scrisse:
È necessario prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui; la nostra resistenza al regime dell’arbitrio deve essere più attiva; non cedere su nessun punto; non abbandonare nessuna posizione senza le più recise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e di libertà[8].
La questione della forza, dunque, gli era ben presente. Infatti nel discorso pronunciato in Belgio, poche settimane prima di morire, esortò: «Continuate a difendervi, non dicendo cose che non si fanno, ma facendo cose che non si dicono. Difendete la vostra libertà con tutta la vostra energia»[9]. È sempre lui a scrivere:
Non ho pregiudiziali per nessun metodo, né transigente né intransigente. Escludo soltanto la violenza come metodo; escludo soltanto il rinnegamento della lotta di classe in un collaborazionismo che volesse essere metodico e costante. E ritengo che ognuno abbia il dovere di esprimere il suo pensiero al fine di cercare d’accordo la tattica migliore. Ma […] mi vergogno che i nostri congressi dedichino tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni.
Una bella strigliata. La merita, adesso, chi fa i distinguo su campo largo e campo giusto mentre le condizioni del lavoro precipitano, le morti sui cantieri, nelle fabbriche e nei campi sono diventate stragi e il governo vuole manomettere la Costituzione.
Matteotti sarà sempre, come si dice, divisivo: una parola furba, una strizzatina d’occhio per insinuare che, se proprio si deve parlare di lui, sia in modo conciliante. Se divisivo è, tale Matteotti deve restare, e Il nemico di Mussolini, in questo, sul grande socialista suggerisce molti approfondimenti.
[1] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 31.
[2] Indro Montanelli, in «Meridiani», 1936, 11, riprodotto in Nazario Sauro Onofri, I giornali bolognesi nel ventennio fascista, Moderna, Bologna 1972, pp. 171-172, citato in Piero Meldini, Mussolini contro Freud. La psicoanalisi nella pubblicistica del fascismo, Guaraldi Editore, Firenze-Rimini 1976, pp. 108-109.
[3] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 181-183; una confutazione minuziosa è alle pp. 199-207, che riassumono Giampiero Buonomo, Quel che non torna nel movente affaristico del delitto Matteotti, in «Tempo Presente», ottobre 2022.
[4] Per Breda, Caretti, Il nemico di Mussolini, cit., p. 199, il delitto è deciso fra il 31 maggio e il 2 giugno 1924. Per Mauro Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 2004, capitolo I dubbi sul movente, pp. 207-240, è deciso a maggio 1924, prima del famoso discorso alla Camera: p. 221, «le prime prove certe dell’esistenza d’un disegno criminoso risalgono al 20 maggio»; p. 224, «Il gruppo della Ceka era riunito al completo a Roma agli ordini di Dumini già dal 22 maggio. Il particolare conferma che non fu il discorso alla Camera di Matteotti del 30 maggio a dare l’avvio all’organizzazione del crimine, […] ma essa era già attiva da prima».
[5] Gobetti, Matteotti, cit., p. 17.
[6] Carlo Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984, pp. 82-83, che cita Luigi Lucchini, Il nuovo assetto dei popoli, in «Rivista penale», XLV, 1919, pp. 73-75, e Luigi Lucchini, Il socialismo militante in Italia è un delitto comune, in «Rivista penale», XLVIII, 1922, pp. 26-30.
[7] Gobetti, Matteotti, cit., p. 26.
[8] Carini, Giacomo Matteotti, cit., p. 187; sulla controversa datazione del documento, ivi, p. 186, nota 48.
[9] Ivi, p. 224, che cita Alessandro Schiavi, La vita e l’opera di Giacomo Matteotti, Opere nuove, Roma 1957, pp. 123-125.