di Gioacchino Toni
Rudi Capra, Antonio Pettierre, a cura di, Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 188, € 16,00
In chiusura degli anni Settanta del secolo scorso ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche il film australiano Interceptor (Mad Max, 1979) di George Miller. Realizzato in maniera un po’ rocambolesca, da un regista all’esordio, con un budget di 400 mila dollari, il film ha ottenuto un successo che è andato ben oltre le più rosee aspettative incassando al botteghino cento milioni di dollari. Ciò è bastato all’industria cinematografica per pianificare, a stretto giro, una seconda ed una terza pellicola, dando così vita a una saga ripresa, dopo tre decenni di interruzione, nel nuovo millennio con un quarto episodio di grande successo che ha aperto le porte ad un quinto film giunto ora nelle sale.
Per quanto diversi siano i film della saga, ad accomunarli è certamente la messa in scena di un “immaginario di crisi” variato nei diversi episodi in base al cambiare dei tempi, dei motivi, delle modalità e degli sguardi con cui si guarda con inquietudine al presente ed al futuro più prossimo. Ad esaminare le questioni principali sollevate dai film di Miller – crisi ecologica, economica e politica, oltre che sociale, della mascolinità, del patriarcato… – in concomitanza con l’uscita del nuovo film della saga – Furiosa: A Mad Max Saga (2024) di George Miller –, provvede il volume edito da Mimesis Le strade furiose di Mad Max. Filosofia del mondo post-atomico, curato da Rudi Capra e Antonio Pettierre, con una postfazione di Matteo Boscardi.
In apertura di volume, Antonio Pettierre evidenzia come i diversi film di Miller insistano sul crollo della società.
Nella saga di Mad Max è messa in scena l’autodistruzione della società civile: da un lato, abbiamo la rappresentazione di un’umanità ai limiti della sussistenza, dall’altro il residuo di un potere (patriarcale) pre-apocalittico che fomenta, mediante lotte e conflitti, lo sfruttamento economico delle ultime risorse naturali. Un potere che si autoconsuma e che raggiunge livelli parossistici attraverso una combinazione cinetica che transustanzia il contenuto (la morte e distruzione) nella forma (una sinestesia visiva e sonora). In questo presente-futuro distopico, il continuo movimento dei personaggi su auto, camion, moto e automezzi (re)inventati raffigurano plasticamente l’impossibilità dell’essere umano all’equilibrio, alla staticità dell’esistenza, in un continuo movimento verso la distruzione. Del resto, la speranza di trovare un’“Arcadia” dove poter (ri)vivere tempi migliori risulta sempre aleatorio o, quantomeno, illusorio (Pettierre, p. 22).
Nel primo film della serie, Interceptor, ad essere messa in scena è sostanzialmente la crisi della società australiana e delle sue istituzioni: un conglomerato di comunità locali in balia di bande criminali che le autorità statali tentano di arginare attraverso il pattugliamento delle strade da parte della MFP (Main Force Patrol) a cui appartiene il protagonista Max Rockatansky (Mel Gibson). La morte, durante un inseguimento condotto da Max, di un membro di una gang di motociclisti e della sua ragazza, scatena la reazione vendicativa del gruppo di cui fa le spese lo stesso protagonista che, dopo aver peso un collega ed essere stato tragicamente colpito negli affetti famigliari (figlioletto ucciso e moglie ridotta in coma irreversibile), abbandonato il corpo di polizia, si mette al volante di una Interceptor potenziata per vendicarsi a sua volta eliminando la gang. Se gli agenti della MFP, sottolinea Pettierre, seguono ancora le regole della società civile – per quanto inclini a travalicare abbondantemente la legge “quando serve” – la banda di motociclisti è presentata come una struttura tribale strettamente verticistica incline a ricorrere alla violenza più selvaggia allo scopo di ottenere ciò che desidera.
È nel sequel Interceptor. Il guerriero della strada (Mad Max 2. The Road Warrior, 1981) che Miller mette in scena il collasso definitivo della civiltà ambientando il film in un futuro post-apocalittico – successivo a un non meglio definito conflitto nucleare scatenato dal controllo dei combustibili fossili – con il protagonista che, affiancato da un cane, a bordo della sua Interceptor, vaga alla ricerca di carburante per poi restare coinvolto in una guerra per il controllo del combustibile tra una comunità isolata nel deserto e una crudele gang motorizzata. Lo scenario di crisi si presenta in questo film nel confronto tra una comunità stanziale, dotata ancora di qualche vaga traccia di regole democratiche, e una tribù nomade comandata da un despota sanguinario.
Nel film successivo, Mad Max. Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985), in cui alla regia Miller viene affiancato da George Ogilvie, il protagonista si trova coinvolto in una lotta per il potere nelle cittadina di Bartertown in mezzo al deserto in cui si produce metano dagli escrementi di maiale. Gli eventi conducono Max ad unirsi a una piccola comunità di ragazzini desiderosi di raggiungere la “città del domani” che però, anziché il paradiso terrestre sognato, si rivela una Sydney ridotta in macerie. Attraverso le vicende di Max vengono messe a confronto una società costituita su due livelli in lotta tra loro – uno superiore, dotato ancora di una qualche lontana parvenza democratica, caratterizzato da un’economia di scambio e commercio, ed uno inferiore, ove si si produce metano, governato dispoticamente – ed una tribù di ragazzi che vivono allo stato brado facendo ricorso alle risorse naturali dell’Oasi in cui hanno trovato rifugio. In tale comunità le vecchie norme di convivenza hanno assunto forme leggendarie e mitologiche ed il ruolo di guida spirituale è stato assegnato a un’anziana donna.
Dopo i primi tre film, usciti in rapida successione tra il 1979 ed il 1985, occorre attendere ben tre decenni prima che Miller realizzi un nuovo capitolo della saga. Con Mad Max: Fury Road (2015) il regista australiano non prosegue la narrazione a cui è giunto nell’ultimo film preferendo ricollocarsi in uno spazio temporale precedente. Max, qua interpretato da Tom Hardy, si ritrova prigioniero del signore della guerra, Immortan Joe (Hugh Keays-Byrne), che esplicita il suo potere assoluto attraverso il controllo dell’acqua nella Cittadella da lui governata.
Ad essere tenute prigioniere dal despota sono anche cinque giovani mogli, le uniche a poter partorire figli in un contesto in cui la popolazione è affetta da gravi malattie e mutazioni genetiche. Max finisce per unirsi alla fuga dalla Cittadella organizzata dall’imperatrice Furiosa (Charlize Theron) che, insieme alle mogli di Immortan, a bordo di una blindo-cisterna intende raggiungere, oltre il deserto, la comunità matriarcale da cui era stata sottratta da bambina. Una volta giunte alle meta, le fuggiasche si trovano di fronte ad un paesaggio devastato abitato soltanto da un gruppetto di donne combattenti che hanno gelosamente conservato delle sementi che potrebbero consentire una rinascita. Le donne decidono dunque di far ritorno alla Cittadella, ove è disponibile l’acqua necessaria al processo di rigenerazione, e spodestare i potenti. È dunque una donna, Furiosa, ad essere protagonista in questo film, mentre a Max spetta un ruolo secondario, per certi versi utile più per dare continuità alla saga che non per l’episodio in sé. A confrontarsi in questa quarta opera sono Furiosa, insieme alle mogli del tiranno e alla tribù matriarcale a cui si unisce, e il governo dispotico della Cittadella insieme ai suoi alleati.
Da un lato, abbiamo un gruppo di donne in fuga alla ricerca di un eden. Dall’altro, un’organizzazione maschile basata su un’economia di guerra perpetua, residuo di una società comandata da monarchi assoluti e strutturata su tre comunità che controllano l’acqua, l’energia e le armi. Lo scontro qui è tra la fecondità femminile e la sterilità maschile, tra la distribuzione delle risorse da un lato e lo sfruttamento fine a sé stesso dall’altro (Pettierre, p. 23).
Con questo film, sottolinea Pettierre, il regista australiano esplicita quanto nei precedenti aveva soltanto delineato:
i tre patriarcati riproducono in modo più completo il sistema capitalistico che ha portato alla distruzione della società. Immortan Joe esercita la violenza attraverso i figli di guerra, impedendo l’erogazione dell’acqua a un’umanità agonizzante e uccide, e fa uccidere, nell’illusione di trascendere la morte; egli rinchiude le giovani mogli dentro una camera-cassaforte trasformandole in donne-gioello, oggettivate come strumento di riproduzione dinastica per perpetuare il proprio potere. Quella di Immortan Joe è una comunità – così come quelle di Gas Town e Bullet Farm che, pur mai mostrate nella pellicola, sono rappresentate simbolicamente da padroni trasformati in icone dei luoghi che dominano –, in cui il valore prodotto è dato dalla continua prestazione dei figli di guerra, sfruttatori e sfruttati a loro volta dal sistema post-capitalistico, in un parossismo che li porta a fagocitare loro stessi (Pettierre, p. 26).
Nella saga viene messo in scena un universo via via sempre più desertificato dallo sfruttamento a cui la natura e gli esseri umani sono stati sottoposti, in cui la convivenza civile è stata soppiantata da sistemi di potere clanico votati a confrontarsi con gli incubi del loro tempo attraverso la violenza più efferata. La dissoluzione sociale del mondo post-apocalittico di Mad Max – aggiungiamo – sembra rappresentare il punto di arrivo di quel neoliberismo selvaggio scientemente pianificato da quella Iron Lady (interpretata da Margaret Thatcher) – a cui si è presto aggiunto il personaggio Ronald Reagan (interpretato da sé stesso) – che, grossomodo in concomitanza con il primo episodio della serie, ha inquinato i pozzi dell’immaginario predicando lo smembramento della società in favore dell’individualismo più cinico.
Nel contributo di Giuseppe Gangi viene indagata la rappresentazione dell’universo australiano emergente dalla saga di Miller disseminata com’è di tracce di quella cultura dell’automobile, del viaggio, della velocità e dello spazio desertico dell’outback che lo caratterizzano. La serie Mad Max funge «da specchio mitografico e riflesso allegorico di un’identità nazionale liminare che ha le sue radici nell’irrisolta storia coloniale» (Gangi, p. 34). Gangi, inoltre, evidenzia come
la progressiva ambizione di Miller inferisca l’allargamento del proprio orizzonte volto alla descrizione di un mondo post-apocalittico e a una riflessione politica sofisticata e problematica, che getta uno sguardo sulle crisi che hanno attanagliato l’Occidente e che sono ancora di strettissima attualità (minaccia nucleare, ecocidio, sfruttamento capitalista, discriminazione di genere). L’architrave della saga consiste proprio in quest’oscillazione tra la peculiare ambientazione australiana, il ripensamento della sua storia culturale e della sua identità e come questi elementi volgano in riflesso universale nel quale poter cogliere i segni e i sintomi di una crisi globale (Gangi, pp. 34-35).
Diego Cavallotti sottolinea come già nel primo film della serie sia possibile cogliere come il canonico conflitto tra ordine e disordine si inserisca «all’interno del rapporto fra approvvigionamento energetico e potere, mettendo in risalto il modo in cui la scarsità di risorse sia in grado di stravolgere gli equilibri sociali» (Cavallotti, p. 61). L’ universo anarcoide della prima pellicola si trova a dialogare con la manifesta ecocritica della seconda attraverso forme di mediazione proprie dell’immaginario cyberpunk – soprattutto per l’ibridazione tra organico e inorganico – e steampunk – in particolare per l’intrecciarsi del futuro con suggestioni legate all’estetica delle macchine di età vittoriana – attraverso il sottogenere denominato diselpunk che
rispetto alle ucronie spesso incentrate sul rapporto fra progresso e meraviglie tipiche dello steampunk, […] mette in scena una fase della storia umana in cui la narrazione della modernità ha raggiunto uno spartiacque: da un lato, l’efficienza e la produttività della tecnologia sono ai loro massimi, dall’altro il senso di meraviglia tipico dello steampunk si tramuta in un senso di angoscia legato alla tecnologia stessa, perché quest’ultima si rivela uno dei catalizzatori delle devastazioni materiali, sociali ed etiche delle due Guerre mondiali e dei totalitarismi (Cavallotti, pp. 63-64).
Se nei primi tre episodi della saga, sottolinea Cavallotti, «il petrolio è la metafora dei bisogni essenziali della civiltà occidentale e della sua capacità (ri)produttiva», con Fury Road Miller si sposta sulla «sfera materiale della corporeità, quasi a voler evidenziare che, a più di quarant’anni da Interceptor, i processi di trasformazione della società non possono più confrontarsi solo con le condizioni concrete dell’esistenza e le loro implicazioni psicologiche, ma devono interagire anche con la dimensione biotica dell’essere, con il bíos» (Cavallotti, p. 65).
Rudi Capra, come esplicita il titolo Mad Marx del suo saggio, propone una lettura marxista della saga soffermandosi su quattro snodi propri del capitalismo contemporaneo: l’incremento esponenziale dello sfruttamento; il regime accelerato della vita e del lavoro; la crisi ecologica globale; la crescente instabilità sociale e la mancanza di cura. L’intero ciclo di film di Miller ruota attorno ai processi di mercificazione dell’umanità, di competizione per il controllo delle risorse, di accelerazione del processo di accumulazione di capitale, di sfruttamento delle risorse naturali e di disgregazione della società sottoposta a una condizione di guerra civile permanente condotta da violente strutture claniche.
Alle forme del mostruoso che popolano la serie di Miller provvede il saggio di Jonatan Peyronel Bonazzi che mette in luce come ciò riguardi tanto i personaggi quanto i mezzi di locomozione e, più in generale, le costruzioni presenti negli scenari post-apocalittici mostrati. Lo studioso si sofferma sul particolare ricorso che viene fatto nella saga a due figure che da sempre popolano mitologie e folklore occidentali: il nano ed il gigante. Ad essere preso in esame è soprattutto il film Oltre la sfera del tuono in cui Miller, nel mettere in scena la figura del nano (Master), dapprima associa le «sensazioni negative alla disabilità e alla mostruosità del personaggio per poi capovolgerne la prospettiva» (Bonazzi, p. 102), mentre invece per quanto riguarda la figura del gigante (Blaster), il regista propone
una versione distorta del duello tra Davide e Golia; non è il piccolo avversario di Blaster (Max) a consegnargli la morte, non è Davide che ammazza Golia, e nemmeno Ulisse che acceca Polifemo, la mano di Max si ferma prima del colpo finale. È una terza persona ad arrogarsi questo privilegio. Ma gli ideali che muovono la decisione di Aunty di procedere all’esecuzione del gigante risiedono nella volgare brama di potere, e anche questo aspetto consuma ulteriormente l’empatia del pubblico nei confronti del personaggio interpretato da Tina Turner e innalza il gigante, una volta tanto, a vittima compresa e compianta (Bonazzi, p. 102).
Se i personaggi femminili messi in scena da Miller nell’intera saga tendono a restare subalterni al “maschio dominante” subendo «le leggi di un patriarcato stigmatizzato, indipendentemente dal posto che le stesse occupano, siano loro mogli, nutrici, regine o guerriere» (Sansone, p. 112), con l’avvento di Furiosa, come sottolinea Mariangela Sansone, le cose cambiano drasticamente.
Furiosa non è una moglie, non è una madre, non è dato sapere che tipo di relazione abbia o abbia avuto con Immortan Joe, ciò che è palese è la stima dell’intera tribù nei suoi confronti e il rispetto dello stesso dittatore. È chiamata l’imperatrice e i guerrieri prendono ordini da lei; è una donna alla guida dell’enorme blindo-cisterna, un mezzo corazzato mastodontico, metafora femminile che in qualche modo rappresenta la maternità, un’enorme matrioska che custodisce e trasporta merce preziosa, fondamentale per il sostentamento, indispensabile per la vita (Sansone, pp. 113-114).
Furiosa si presenta come donna che decide di prendersi la sua rivincita, come simbolo di redenzione. Anche il suo personaggio è soggetto a un’evoluzione: «pur godendo di una posizione sociale privilegiata, si mette in gioco e combatte la sua guerra contro tutti, soprattutto contro quell’esercito “maschio”, per la liberazione definitiva di sé stessa e delle altre donne» (Sansone, p. 114).
Applicando alcune categorie filosofiche all’analisi della dittatura di Immortan Joe nella Cittadella in Fury Road, Andrea Tortoreto esamina le argomentazioni espresse del tiranno sulla base della teoria degli atti linguistici, evidenziando come la sua retorica sia intrisa di fallacie logiche utilizzate al fine di strutturare un regime di tipo complottista. Come tutti i regimi di tal tipo, scrive lo studioso, anche questo tiranno
identifica i nemici esterni come la causa di ogni problema per gli abitanti della Cittadella, distogliendo l’attenzione dalle ingiustizie e dalle disparità perpetrate all’interno del regime. Creazione di un nemico comune, e sua demonizzazione, sono lo strumento primario che, agendo sulle paure della popolazione, rafforza il controllo di Immortan Joe sulla propria tribù. Un nemico creato ad arte, in base a una narrativa che si basa spesso su aneddoti, presunti segreti gelosamente custoditi, intuizioni del leader, ma mai su prove autentiche e concrete. Una narrativa che indica come traditore e nemico chiunque abbia l’ardire di metterla in discussione e che reprime con forza e intimidazione ogni forma di dissidenza, favorendo l’autocensura. Un regime, quello della Cittadella, che si fonda dunque sulla fede nel leader e sull’obbedienza cieca, piuttosto che sul dibattito razionale (Tortoreto, pp. 128-129).
Il saggio di Matteo Bittanti analizza il videogioco Mad Max, sviluppato da Avalanche Studios e pubblicato da Warner Bros. Interactive Entertainment nel 2015, che immerge i giocatori nel mondo post-apocalittico caro alla saga di Miller, come esempio di fusione della petro-mascolinità – «mascolinità legata al dominio sull’ambiente secondo una logica estrattiva e distruttiva, incentrata sui combustibili fossili, nonché sulla celebrazione dei valori maschili tradizionali» (Bittanti, p. 144) – e della mascolinità geek – «interazione tra genere, tecnologia e identità, che riflette cambiamenti sociali più ampi nella comprensione e nella performance della soggettivazione mascolina, per la quale la conoscenza e l’attitudine tecnologica sono fondamentali per la sua costruzione e mantenimento» (Bittanti, p. 137).
Se a livello narrativo questo videogame «esemplifica la nozione di petro-mascolinità in diversi aspetti chiave, intrecciando temi di sopravvivenza, dominio e ricerca di carburante in uno scenario distopico» (Bittanti, p. 153), riproducendone tanto le ossessioni legate alla percezione del declino quanto le fantasie compensatorie cercate nel potere distruttivo maschile, dall’altro però, nel palesare come il ricorso alla mera violenza come mezzo di risoluzione dei problemi si riveli un inconcludente circolo vizioso nel suo ricondurre inesorabilmente a solitudine, disperazione e alienazione, ne mette in luce tutti i limiti. Insomma, scrive Bittanti, «se sul piano narrativo [il videogioco] Mad Max glorifica la supremazia maschile e il dominio dell’automobile, attraverso il gameplay, offre una critica indiretta o implicita degli assunti stessi della ludo-petro-mascolinità. Portando in primo piano la futilità, l’isolamento e la totale insostenibilità di questi ideali, Mad Max offre un’esplorazione ricca di sfumature della mascolinità tradizionale in un contesto distopico» (Bittanti, p. 160).
Infine, nella postfazione al volume, Matteo Boscarol tratteggia l’influenza esercitata dalla saga Mad Max sull’immaginario nipponico anche grazie, all’uscita dei primi episodi, all’ascesa del mercato delle videocassette che ha permesso il diffondersi di opere “di genere” ben oltre i circuiti cinematografici e televisivi. Se i primi due film della serie sono usciti in Giappone in un momento in cui le automobili e le motociclette, così come il motivo della guerra fra bande, hanno trovato terreno fertile nella fantasia nipponica, è soprattutto il virare su uno scenario sempre più post-apocalittico della saga ad essere risultato attrattivo in un Paese segnato dall’indelebile ricordo delle atomiche e dai disastri naturali.