di Gioacchino Toni
Anna Masecchia, Varda: Les plages d’Agnès, Carocci editore, Roma 2024, pp. 128, € 13,00
Anna Masecchia, studiosa che da tempo si occupa del cinema di Agnès Varda, ha dedicato un intero volume all’analisi di Les plages d’Agnès (2008) della grande sperimentatrice audiovisiva che – attraverso la fotografa, il cinema e la visual art – ha saputo far dialogare tradizione e sperimentazione, analogico e digitale, identità e alterità, realtà e immaginazione, intimità e società, passato e futuro. L’opera dell’autrice di origine belga rappresenta un affascinante viaggio nella storia della cultura visuale, non solo cinematografica, tra l’era dell’immagine analogica della seconda metà del secolo scorso e quella digitale del nuovo millennio ed allo stesso tempo un itinerario nel suo lavoro creativo, il lavoro di un’instancabile sperimentatrice che ha esplorato, nel corso dei decenni, i territori delle immagini e dell’immaginazione, tra cambiamenti tecnologici, rivoluzioni e battaglie civili.
In ambito audiovisivo Varda ha affrontato corto e lungometraggio, serie televisive, fiction, documentario, film-saggio, film-fotografico, autoritratto, biopic, musical, racconti di viaggio ecc. In diversi casi le forme e i generi si sono mescolati dando vita a quelli che lei stessa ha indicato come “oggetti filmici non identificati”, come Les plages d’Agnès di cui si occupa il libro di Masecchia.
A differenza di altri registi dell’epoca, Varda non è arrivata alla macchina da presa da cinefila ma dalla fotografia e dalle arti visive e plastiche, riprendendo le sperimentazioni cinematografiche degli anni Venti del secolo scorso e anticipando, di fatto, la Nouvelle Vague con il suo lungometraggio di esordio La Pointe Courte (1954). Varda ha consapevolmente fatto ricorso agli strumenti foto-cinematografici per sperimentare, come scrive Masecchia, «nuove modalità di rappresentazione con cui fare esperienza della realtà, anche per provare a costruirne una nuova». È proprio in questo – così come per altri autori e autrici degli anni Venti e della stagione delle nuove cinematografie degli anni Cinquanta e Sessanta – che può dirsi politico il suo intervento autoriale.
Nelle opere di Varda è evidente la volontà di legare lo sguardo e la creatività femminile alla libertà sociale delle donne. L’autrice non si è limitata a ritrarre l’intimità del soggetto femminile, ma ha voluto assumerne anche tecnologicamente lo sguardo rendendo la macchina da presa una protesi dei suoi occhi di donna. «Non sono dietro la macchina da presa, ci sto dentro! Ho spesso l’impressione di essere una macchina da presa», ha avuto modo di affermare la stessa Varda. Da questo punto di vista l’avvento delle agili macchine da presa digitali – a cui inizia a far ricorso in apertura del nuovo millennio con La vita è un raccolto (Les glaneurs et la glaneuse, 2000) – ha rappresentato per l’autrice una possibilità per affinare ulteriormente l’utilizzo del mezzo come caméra-stylo, sull’onda di quanto proposto da Alexandre Astruc nel lontano 1948.
A proposito di Varda si può parlare di immagini e immaginari di donna; come scrive Masecchia, al centro delle sue opere c’è sempre «una donna vista tanto come oggetto del desiderio maschile ed elemento di immaginario radicato, quanto come soggetto storico che, proprio in questi decenni, lotta alla conquista di una propria agency, del riconoscimento di un desiderio che soggettivizzi la sua identità ben al di là del ruolo che le è stato affidato nella società patriarcale e borghese» (p. 23).
Il female gaze di Varda è evidente in tutta la sua opera. In Cleo dalle 5 alle 7 (Cléo de 5 à 7, 1962) l’autrice mette in scena una giovane cantante che, ossessionata dall’idea di essere affetta di un male incurabile, per un paio di ore guarda la vita come non l’aveva mai vista prima; un film, dunque, in cui all’idea di morte incombente si affianca un senso di rinascita. Con Réponse de femmes. Notre corps, notre sexe (1975) Varda propone un caleidoscopio di voci femminili che, nel reclamare il diritto a gestire il proprio corpo sottraendolo alla spettacolarizzazione e alla mercificazione, definiscono cosa significhi essere una donna. Al centro di Una canta, l’altra no (L’une chante, l’autre pas, 1977) vi sono la contraccezione, la libertà sessuale, dunque il controllo delle donna sul proprio corpo: «Ni cocotte, ni popote, ni falotte. Je suis femme, je suis moi», canta una delle protagoniste. Anche Senza tetto né legge (Sans toit ni loi, 1985), film premiato con il Leone d’oro a Venezia, è uno sguardo femminile sulla tragedia di una giovane vagabonda alle prese con le sue scelte di vita e lo stesso Les plages d’Agnès, di cui si occupa il libro, mette in scena, con sguardo femminile, il rapporto di una donna – la stessa autrice – con il mondo.
Al variare dei soggetti e dei generi che spesso si ibridano tra loro dando vita ad opere di difficile classificazione, il percorso artistico dell’artista è caratterizzato da un metodo di lavoro che, rifiutando una progettualità rigida, si costruisce su un proficuo rapporto tra interiorità e realtà, una dialettica tra la sfera razionale e quella emotivo-sensoriale che Varda indica con il termine cinécriture.
Anna Masecchia analizza Les plages d’Agnès soffermandosi sulle principali sequenze che compongono il film, in buona parte legate alle diverse spiagge con cui interagisce la protagonista del film – la stessa regista – che, anziché raccontare direttamente la sua vita, la “performa” rimettendola in scena attraverso il cinema. Le diverse spiagge fungono dunque da detonatori della memoria in una narrazione in cui «la rêverie non è un percorso mentale chiuso nel suo mondo interiore ma un gesto creativo che utilizza le forme e gli strumenti del cinema, che non produce un fantasma privato ma una messa in scena da condividere con gli spettatori» (p. 63). Il significato non sta tanto nella memoria, sostiene Masecchia, ma nell’atto del filmare, ricreare e godere dell’immagine in un continuo intrecciarsi tra passato e presente, tra l’anziana protagonista e le giovani con cui si rapporta.
La struttura delle Plages d’Agnès é costruita come uno stratificato e vertiginoso processo di rêverie. Il montaggio […] procede come ricomponendo i pezzi di un puzzle, con legami analogici, metafore visive, slittamenti sonori, trucchi fotografici come sfocati, dissolvenze incrociate, sovrimpressioni, inquadrature multiple, giochi di cornice, composizioni a strati. È un andirivieni tra la realtà e l’immaginazione, tra l’io e gli altri, tra il presente e il passato, tra le spiagge e le città, che nasce e allo stesso tempo viene reso possibile dalla rêverie, un processo tanto interiore quanto creativo che è necessario approfondire. (p. 83)
Les plages d’Agnès è dunque film capace di ricapitolare il passato tanto dell’artista che del cinema evitando di farsi prendere dalla nostalgia per proiettarsi, piuttosto, verso il futuro.