di Sandro Moiso
Barbara Ehrenreich, Una storia della gioia collettiva, eléuthera editrice, Milano 2023, pp. 342, 22 euro
Viviamo in un’età di ferro, di fuoco e di sangue, di difficoltà economiche e di disastro ambientale. Un’età che sembra negare le prospettive di sopravvivenza più elementari sia alla periferia che al cuore dell’Impero e che, per questi motivi, ha ben poco da promettere ai giovani, anche solo in termini di speranze. Un’età in cui, sempre più spesso,la depressione sembra essere il sintomo più diffuso del malessere sociale. A tutte le età.
Il bellissimo saggio di Barbara Ehrenreich appena pubblicato da eléuthera ci apre a uno sguardo più ampio e approfondito sulle origini di un malessere che, insieme al cancro e alle malattie cardiovascolari, sembra costituire la radice di un male di vivere di cui tanto si parla, ma contro il quale le soluzioni terapeutiche, farmacologiche e psicologiche, sembrano non bastare affatto.
Barbara Ehrenreich (1941 – 2022), giornalista e critico sociale, ha scritto su “The Atlantic Monthly”, “Harper’s Magazine”, “The Nation” e “The New York Times Book Review”. Ma prima di diventare giornalista, saggista, attivista politica, sociologa e aver insegnato in svariate università americane, ha conseguito due lauree: la prima in chimica e la seconda in immunologia cellulare. Per poi allontanarsi dal mondo scientifico per occuparsi a lungo di salute e femminismo, avanzando dure critiche al complesso “medico-industriale”.
Ha pubblicato Riti di sangue. All’origine della passione della guerra (Feltrinelli 1998), Una paga da fame. Come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo (Feltrinelli, 2002) e, insieme a Arlie Russell Hochschild, Donne globali. Tate, colf e badanti (Feltrinelli, 2004). Infine, nel 2021, Cause naturali, La vita, la salute e l’illusione del controllo (Luiss University Press).
Per comprendere appieno l’attitudine militante della studiosa statunitense basti ricordare almeno uno dei testi citati: Come (Non) Si Arriva A Fine Mese Nel Paese Più Ricco Del Mondo. Lavoro di indagine per il quale, nell’intento di comprendere come milioni di americani, e non solo, possano lavorare ogni giorno duramente e senza sosta in cambio di salari modestissimi, Barbara Ehrenreich decise, per un paio di anni, di fare la loro stessa vita, per cercare di capire meglio cosa si celava dietro le retoriche che invocavano (e ancora invocano) la fine dello stato sociale. Per questo motivo, nel 1998 a cinquantasette anni di età, lasciò la sua casa, rinunciò a utilizzare le sue carte di credito e lo status di intellettuale e giornalista, mettendosi a cercare lavoro: accettando di fare la cameriera, la donna delle pulizie, la commessa. Raccontando così, in presa diretta, l’America dei bassi salari, la vita grama di tutti i giorni, con i pasti consumati per necessità nelle catene di fast-food e gli innumerevoli stratagemmi necessari al fine della pura e semplice sopravvivenza.
Il testo, appena pubblicato in Italia e qui recensito, apparso in lingua originale nel 2007 con il titolo Dancing in the Streets. A History of Collective Joy, vuole invece ripercorrere insieme al lettore il lungo tratto di strada percorso dalle società in cui la gioia collettiva poteva liberamente esprimersi nelle danze, nella trance, nel carnevale medievale e in tutte le altre manifestazioni pubbliche che permettevano agli individui, maschi e femmine, giovani e meno di esprimere insieme agli altri la propria joie de vivre senza che questa fosse codificata da regole severe riguardanti la sessualità, l’ordine costituito, il rispetto delle regole “civili” e dei differenti ruoli sociali e di classe, oppure, ancora, dei tempi scanditi del lavoro coatto e dei precetti delle religioni rivelate.
Il riferimento nel titolo originale, tratto da quello di una celebre canzone del 1964, del trio femminile rhythm ‘n’blues di Martha and the Vandellas, in cui si invitava la gente a scendere nelle strade e ballare (a New York City, New Orleans e nella Motor City ovvero Detroit, all’epoca capitale mondiale della produzione di automobili), è fin dall’inizio alla festa, ma il testo parte da quella millenaria tradizione per portarci pian piano all’interno dei motivi che pian piano l’hanno privata della sua funzione liberatoria (a livello individuale e collettivo) per istituzionalizzarla, da un lato, e “disarmarla”, dall’altro.
Ottenendo, come risultato, che non soltanto qui in Europa, a partire dal XV secolo, ma anche nel resto del mondo, presso le popolazioni ritenute “primitive”, a partire dal dilagare del colonialismo “bianco e cristiano”, la gioia come manifestazione del benessere e della felicità, oppure ancora della libertà vera di espressione individuale, fosse di fatto bandita oppure regolamentata, che è lo stesso.
Così, l’autrice può narrarci come:
Nel XVII secolo, a partire dall’Inghilterra il mondo europeo fu teatro di quella che, in termini moderni, appare come un’epidemia di depressione. Il male colpiva indistintamente giovani e vecchi, sprofondandoli per mesi o anni in uno stato di letargia morbosa e in terrori incessanti […] L’autore puritano John Bunyan, il leader politico Oliver Cromwell, i poeti Thomas Gray e John Donne, il drammaturgo e saggista Samuel Johnson furono tra le prime e sue più illustri vittime.
[…] Gli inglesi lo chiamavano «morbo inglese», descritto nel Treatise of Melancholie di Timothie Bright del tardo XVI secolo e analizzato a fondo dal ministro anglicano Robert Burton nel suo classico testo Anatomia della malinconia del 1621. Ma l’uggiosa isola del nord non fu l’unico focolare del morbo: l’Europa intera ne soffriva1.
Gli albori della moderna depressione di massa, del male di vivere che affligge nel mondo odierno giovani e vecchi, sembrano manifestarsi qui, proprio nello stesso periodo in cui la nascita e la diffusione del capitalismo, prima mercantile e poi industriale, segna anche l’avvio del capitalocene, che oggi ancora troppi vorrebbero semplificare con il termine antropocene2, della rigida divisioni in stati e nazioni di territori e popoli3 e del dominio dello sfruttamento occidentale delle risorse e dei mercati mondiali e delle società sottomesse4 dopo aver sottomesso, per prima, quella europea antecedente alle forme di scambio e produzione capitalistiche5.
Ma questo autentico inferno in terra da dove era scaturito? Forse e soltanto dallo scontro religioso che aveva insanguinato l’Europa per almeno due secoli dalla Riforma luterana fino alla guerra dei Trent’anni o del Concilio di Trento che aveva costituito uno dei cardini della reazione cattolica insieme ai tribunali dell’Inquisizione che l’avevano preceduto fin dai secoli precedenti?
Tutto questo aveva avuto certamente un peso non indifferente, insieme al fatto che tutte le forme di potere delle società divise in classi, antiche e moderne, hanno da sempre cercato di delimitare lo spazio della “festa” e della gioia. Basti pensare che il trionfo politico della borghesia nel XVIII secolo portò, subito la Rivoluzione francese, alla codificazione di “feste rivoluzionarie” che sotituivano il tradizionale albero della cuccagna con l’”albero della libertà” oppure alla dichiarata ricerca della “felicità” inserita nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776.
Tutte celebrazioni che, come prima aveva fatto la Chiesa con il culto dei santi e le festività ad essi dedicate e in seguito avrebbero fatto i regimi autoritari del ‘900 con le feste delle “rivoluzioni”, di carattere fascista o stalinista non avrebbe fatto molta differenza, cercavano di sacralizzare oppure, al contrario, ma era lo stesso lo scopo che si intendeva raggiungere, di laicizzare la gioia che il genere umano, il corpo maschile e femminile, la rabbia accumulata e il desiderio mai sazio di sessualità libera e vita non può reprimere in eterno. Pena, appunto nonostante le fasulle dichiarazioni liberal-progressiste di oggi, il diffondersi di quel male di vivere che abbiamo visto fin qui definire come depressione, malinconia o melanconia6.
Ecco allora che il magnifico saggio della Ehenreich finisce col costituire non solo la storia della progressiva rimozione della gioia collettiva, ma anche delle domande che ciò deve suscitare in noi e delle rivolte di ieri, oggi e domani che si oppongono alla repressione dei desideri collettivi.
Where Are All the Flowers Gone? si chiedeva Pete Seeger in una delle sua canzoni più celebri nel 1960, precedendo di poco le rivolte degli anni Sessanta e l’impatto della musica rock sui corpi e le menti dei giovani dell’epoca, divisi tra festa e rivoluzione, entrambe filtrate alla luce della guerra (in Vietnam, ma non soltanto) e della ribellione delle classe operaia contro le brutali condizioni di sfruttamento in fabbrica. E ancora oggi questa rimane una domanda fondamentale, per qualsiasi antagonista e rivoluzionario che non voglia far morire di noia l’idea di Rivoluzione e la sua stessa memoria .
Per queste ragioni la lettura di Una storia della gioia collettiva si rivela come un testo decisivo e dirimente per rimettere sui binari della Storia ciò che Capitalismo, chiese e religioni rivelate, moralismo e perbenismo borghese hanno inutilmente tentato di cancellare dall’orizzonte e, finalmente, liberare menti e corpi dalla morsa di valori unicamente indirizzati all’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.
Compreso il tentativo, già denunciato dai Situazionisti e ancor prima da Paul Lafargue7, di occupare totalmente il tempo di riposo e tutto il possibile immaginario degli oppressi.
Spazzando via, con un’unica condivisa risata, i funzionari del capitale, delle chiese e di un ordine mortifero, siano essi in divisa, toga, abito talare oppure in abito grigio e scarpe marroni come quelli già derisi da Frank Zappa nel 19678.
B. Ehrenreich, Una storia della gioia collettiva, eléuthera editrice, Milano 2023, pp. 155-157. ↩
Si veda in proposito: J. W. Moore, Oltre la giustizia climatica, Ombre Corte, Verona 2024. ↩
Sul tema si ricorda, per una volta ancora: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Einaudi, Torino 2019. ↩
Si vedano in proposito gli scritti di Karl Marx sull’India coloniale e la comune russa ↩
Si veda Cedric J. Robinson: Black Marxism. Genealogia della trasformazione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023. ↩
Si pensi soltanto al magnifico film di Lars von Trier, Melancholia (2011), in cui la malinconica distruzione e fine del pianeta che abitiamo è attesa con tristezza e reazioni suicide, a livello collettivo e soggettivo, diventa metafora potentissima (a partire dal nome affibbiato al pianeta che si schianta con la Terra nel corso del suo moto di milioni di anni) della depressione che attanaglia l’umanità intera. ↩
P. Lafargue, Il diritto all’ozio (1880), Feltrinelli, Milano 1971. ↩
Frank Zappa and the Mothers of Invention, Brown Shoes Don’t Make It nell’album Absolutely Free. ↩