Marsilio, Venezia 2024, pagg. 223 euro 18
di Mauro Baldrati
Questo libro fa star male. Potrebbe essere una versione del misterioso, pluricitato Necronomicon di Lovecraft, il libro nero che contiene il Male Assoluto. E cos’è infatti il male se non negatività allo stato puro, l’anti amicizia, l’anti amore, il disprezzo per la gentilezza, la tolleranza, il rispetto, la compassione?
Tutte queste (anti)qualità sono combinate chimicamente nel personaggio centrale del romanzo, Angela. Intorno a lei si muove un piccolo popolo di uomini e donne simpatici, grotteschi, paradossali, che l’autore ritrae con precisione proustiana, con ironia, sarcasmo talvolta, diciamo pure crudeltà, ma non senza una forma di rispetto e persino di affetto.
Come introduzione al suo carattere, che più avanti prenderà il soprannome della superspia di Le Carré, La Talpa, dominato da “un risentimento oscuro che l’avvelena”, facciamo un salto nella sezione pre-finale del libro, a pag. 197. Il narratore Antonio Franchini, che tra le righe sprigiona una sommessa vibrazione materialistica-scettica, fa tracciare una scheda tecnica di Angela (il cui materialismo è aggressivo compulsivo) da suo cognato, buddista tibetano ortodosso allievo di un grande lama (Gangchen Rinpoche, scomparso il 18 aprile 2020?):
Mamma mia, e che c’è qua dentro? Tua madre è un generatore di oscurità! Io cerco di non mangiare più neanche le cose che cucina… Ci mette dentro tanta rabbia… tanta carica negativa, che poi non sto bene, mi accorgo che mi fa male! Qualche giorno fa, a tavola, le è venuta una collera, ma una collera… Gli occhi le si sono fatti… rossi, ma era un rosso, mi devi credere, che non esiste in natura: Era lo sguardo del male! Io certe cose le ho viste solo in frangenti estremi, mò non ti posso dire tutto… in certe azioni cerimoniali, c’erano in ballo cose gravi… Io credo che nelle vite precedenti lei abbia vissuto… che abbia fatto cose non belle, ma poi nella vita che tu fai ti si aprono delle porte e tu puoi decidere, perché noi abbiamo facoltà di scelta, quella c’è sempre, siamo noi che decidiamo dove andare a finire… ma una così dove va? E dove vuoi che vada? Quando andiamo di là le cose non sono facili, non sono belle… Quando tu fai certe scelte in questa vita, nell’altra poi… non è che va bene, capisci… Quando tu, dentro, di luce non hai niente, nemmeno una fiammella, quando hai prodotto solo tenebra e buio, dall’altra parte, poi, non è che te la passi bene… L’altro giorno ho fatto una seduta a tua sorella, nella mia stanza, e ho visto una cosa che… A un certo punto, dalla testa, le è uscito un corvo… un corvo nero! Uh, Maronn’! Per tutta la negatività che tua madre le ha caricato dentro… Vedi, lei ci ha dentro una rabbia che non si placa mai, perciò si aggrappa alla terra con le unghie e con i denti, con tutta la volontà! Nun vo’ murì! Non ha neanche idea di che cosa è la pace, sta sempre in guerra, è stata in guerra tutta la vita, che può trovare dall’altra parte? E’ terrorizzata. Io avevo questo maestro che ho perso un anno fa, un grande maestro, un Lama, sul lago Maggiore. Alla fine di un periodo di raccoglimento gli siamo sfilati davanti per salutarlo, e a ognuno di noi dava qualcosa. A me ha dato una rosa. L’ho portata a casa, l’ho poggiata sulla scrivania e l’ho lasciata là. Dopo tre giorni l’ho presa e l’ho infilata in una brocca d’acqua. Era stata sulla scrivania per tre giorni! E dopo un altro giorno è sbocciata una gemma, grande, bellissima. E’ veramente raro che succeda una cosa del genere. Ma se porti una rosa qua dentro, muore subito! Uh, Maronn’! Si secca all’istante!
Fa stare male questo libro, anche se contiene dosi non avare di comicità che avvolge i personaggi, le situazioni, e certe performance apocalittiche della Talpa, un essere perfetto, senza una sbavatura, senza un minimo cedimento nella sua integrità negativa e ostile. Una specie di strega uscita da una fantasia medievale che aggredisce, maledice, disprezza le donne, che sono tutte zoccole, e gli uomini, poveri subalterni delle zoccole. Una madre che rovina la vita della propria figlia, umiliandola di continuo “per radere al suolo la sua immagine presso le compagne, estirpare le sue amicizie, razziare la sua intimità”. Fa stare male perché, come ci ha informato il cognato, questa donna è anche la madre del narratore. Così ha deciso il mistero della vita, ma ustionato, ferito da “questo stillicidio di egoismo e diffidenza” che gli arriva addosso per anni e anni, lo grida:
Che c’entro con questa donna? Che cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa? (…) Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c’è una figura simbolo degli orrori dell’Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre.
Sua madre, che non gli risparmia quel disprezzo che non può fare a meno di dispensare a chiunque le capiti a tiro: “’O scrittore! ‘O scrittore d’ cazzo, chesto sì tu!”.
E con lui, con ‘O scrittore d’ cazzo viaggiamo nel tempo e nello spazio, condividiamo le atmosfere infuocate e furiose della sua famiglia; ci porta in viaggio nel sud degli anni Sessanta, inserisce nei dialoghi dosi di napoletanità, con l’uso di uno straordinario argot napoletano italianizzato, e si permette di innestare frattali di autobiografia nella biografia di Angela La Talpa, con la quale ha vissuto, subìto e combattuto fin dall’infanzia, protetto da un carapace di freddezza, di sopportazione, per poter sopravvivere.
E quando il flusso del racconto si avvia verso il crepuscolo, perché, come direbbe il cognato buddista ortodosso, tutto nasce, tutto scorre, tutto termina, il ritmo di Angela cala con l’età, e il corpo si corrompe (ma la mente resiste), il narratore inizia il processo di cauterizzazione della ferita, lo sbrego che si porta dentro fin dall’infanzia che ha continuato a suppurare nei decenni. Non si tratta di perdono, che è la forma classica del riscatto di una vita di conflitti e di fughe, ma di comprensione. Una nuova consapevolezza delle maschere che tutti indossiamo durante il nostro passaggio sulla Terra:
Lei voleva essere anticonformista, ha sempre perseguito una sua idea di diversità, di scarto dalla norma, la deriva di uno spirito ribelle. Non le piaceva il modello di madre e figlio che mettono in scena l’amore scontato che vedevamo nelle pubblicità degli anni Sessanta. L’attraeva l’idea di una madre e di un figlio che si amano mandandosi affanculo. Rispondeva meglio alla sua anarchia istintiva, al suo spirito contrario. Per alcuni anni, quando io ero un adulto e lei non ancora una vecchia, i nostri litigi furono vere e proprie messe in scena, un teatro rituale per noi, un intermezzo comico per amici e conoscenti che venivano a cena.
Un bilancio finale, una chiaroveggenza che tutti, in un modo o nell’altro, proviamo quando il cordone ombelicale con la nostra genesi finalmente – o inesorabilmente – si trancia: “Alla fine la sua tragedia è questa, non essere capaci di dimostrare l’amore. E forse è anche la mia.”