di Sandro Moiso
Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, Introduzione di Sergio Fontegher Bologna, Infografiche di Emanuele Giacopetti, Punto Critico, Roma 2024, 140 pp., 12 euro
Definire Amazon un colosso è decisamente riduttivo, Amazon è un paradigma, così come lo sono stati gli stabilimenti Ford. Ambedue sono simboli di una civilizzazione, hanno segnato un’epoca. (Sergio Bologna)
Occorre iniziare da questa affermazione di Sergio Fontegher Bologna, contenuta nell’introduzione al testo appena pubblicato da Punto Critico, per riflettere su quali novità abbia introdotto a livello di rapporti di lavoro e, quindi, di conflitto e organizzazione sindacale il modello di distribuzione delle merci ideato da Jeff Bezos.
Jeffrey Preston Bezos è il fondatore, proprietario e presidente della più grande società di commercio elettronico al mondo, oltre che il fondatore e amministratore delegato di una società attiva nei voli spaziali (Blue Origin) e il proprietario del Washington Post. Inoltre risulta essere la terza persona più ricca al mondo, con un patrimonio stimato di 196,1 miliardi di dollari.
Ricordare i dati riguardanti il big boss man di Amazon in questo contesto non costituisce un mero esercizio di gossip giornalistico ma, piuttosto, uno strumento per misurare il risultato derivante da una posizione di monopolio economico e rendita finanziaria in cui è sempre più evidente come un modo di produzione e distribuzione che si basa sull’appropriazione individuale/privata della ricchezza/lavoro prodotta socialmente non sia “democraticamente” correggibile, come vorrebbe tanta vulgata riformistica.
Valga, a questo proposito, l’osservazione che il plurimiliardario americano è proprietario di una delle testate giornalistiche più celebri per le sue campagne e i suoi coraggiosi articoli di denuncia della corruzione del potere politico, dal Watergate in poi. Una tradizione di indagini giornalistiche che, pur rimanendo impensabile nell’odierno paese dei media-cacasotto al servizio del capitale e dello scandalismo giustizialista in stile Travaglio, non ha comunque cambiato di una virgola i reali rapporti di forza tra le classi negli Stati Uniti.
E allora torniamo al paradigma Amazon per esplorarne contraddizioni e organizzazione del comando sul lavoro attraverso i due saggi nati in modo autonomo e che non erano stati scritti con l’idea di essere pubblicati insieme. Il primo, Battling the Behemoth: Amazon and the rise of America’s new working class, di Charmaine Chua e Spencer Cox, è stato pubblicato sul volume 59 del Socialist Register (Socialist Register 2023: Capital and Politics), mentre il secondo, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, di Marco Veruggio, ricapitola tre anni di lavoro nell’ambito del progetto “Amazon, la società del futuro?” (www.puntocritico.info/amazon).
Iniziamo dal primo dei due saggi, quello di Charmaine Chua1 e Spencer Cox2:
Ai primi di aprile del 2022 Christian Smalls stappava una bottiglia di champagne fuori dagli uffici del National Labor Relations Board (NLRB) a Brooklyn per celebrare una vittoria senza precedenti. Meno di due anni prima Smalls era stato licenziato dal JFK8, il centro di distribuzione Amazon a Staten Island, dopo aver guidato uno sciopero di protesta contro le insalubri condizioni di lavoro agli inizi della pandemia. Oggi, nonostante la sfrenata azione repressiva di Amazon, le cui tattiche antisindacali hanno contemplato il duplice arresto di Smalls con l’accusa di “invasione di proprietà privata”, licenziamenti, l’obbligo per i lavoratori di partecipare a incontri di “formazione obbligatoria” e altro ancora, il JFK8 è da diventato da poco il primo magazzino Amazon nella storia a strappare un riconoscimento formale del sindacato interno. «Vogliamo ringraziare Jeff Bezos per essere andato nello spazio», ha ironizzato l’ormai celebre Smalls, «perché quando era lassù noi iscrivevamo persone al sindacato». Quel capovolgimento di fronte, ha osservato il giornalista Alex Press, è stato un evento storico, di cui «ci sono pochi paralleli nella storia del movimento operaio americano dopo Reagan»3.
Poche righe per ricordare diversi e importanti aspetti delle vicende lavorative e sindacali dei dipendenti del colosso della distribuzione. La prima, rammentata dall’esperienza di Smalls, è che il “democratico” Bezos non ha tralasciato alcuna modalità di repressione dei lavoratori, dal licenziamento ai provvedimenti di imprigionamento, per impedire qualsiasi tipo di sindacalizzazione degli stessi. La seconda, ancora più importante della prima, è che la determinazione dei salariati nel lottare e nell’organizzarsi è l’unica forma di opposizione che può realmente pagare.
Nonostante siano stati numerosi i tentativi da parte dei media, da quelli di orientamento liberal a quelli posizionati più a sinistra, di fornire spiegazioni convincenti della vittoria di questa “opposizione interna” al colosso, mancano comunque i tentativi
di collocare questa palese rinascita della lotta di classe dei lavoratori nel suo appropriato contesto, cioè nella sua relazione ai processi di ristrutturazione capitalista nel cuore deindustrializzato degli Stati Uniti, processi che hanno condotto a un turbolento fenomeno di ricomposizione di classe e che plasmeranno le opportunità di realizzare un cambiamento strutturale nel futuro. La vittoria di un piccolo nucleo di venti attivisti su una società che nel 2022 ha avuto un fatturato di 470 miliardi di dollari è stata significativa non solo per i rapporti di forza da “Davide e Golia”, ma anche per ciò che ha rivelato circa la composizione demografica e geografica della nuova classe operaia americana4.
E per far meglio comprendere la dimensione materiale in cui la lotta si è sviluppata e tale vittoria è diventata possibile, i due ricercatori aggiungono:
La vittoria al JFK8 è stata anche frutto di una lotta condotta lontano dai tradizionali punti di raccolta della sinistra a Wall Street e a Washington Square Park e situata, invece, in un’area suburbana spesso indicata come la “periferia dimenticata”. Il magazzino è circondato come un fortino da una recinzione lunga parecchie miglia e sormontata dal filo spinato. Collocati in una delle centinaia di fabbriche dell’industria della distribuzione che in America concentrano e fanno socializzare i lavoratori alla periferia degli aggregati urbani, molti di costoro per raggiungere il posto di lavoro devono fare i pendolari viaggiando da un’ora e mezza a tre ore. Nel quadro della lunga crisi in cui la popolazione in eccesso ha fatto i conti sia con la scarsità di abitazioni sia con la sempre più ridotta disponibilità di stabile lavoro salariato, i lavoratori dei magazzini Amazon sono il settore di classe operaia che cresce a ritmo più rapido. E la loro collocazione di classe etnicamente variegata e geograficamente extraurbana è stata un fattore non secondario, bensì centrale della vittoriosa mobilitazione della Amazon Labor Union5.
Per poi sottolineano ancora che
per comprendere in modo più esauriente il mutamento che ha portato i lavoratori di Amazon a diventare il punto focale del movimento operaio organizzato è necessario collocare la rapida espansione di Amazon.com nella lunga crisi dell’ultimo mezzo secolo. Quale impresa tecnologica che ha combinato e-commerce e servizi digitali in un’unica entità societaria, Amazon è un emblema delle trasformazioni strutturali in atto al centro del processo di rifacimento del capitalismo globale, cioè dello straordinario mutamento nella logica dell’accumulazione in direzione di un’accelerazione nella circolazione del capitale merce mediante le catene di fornitura just-in-time che si estendono a tutto il globo. Inquadrando Amazon come forza motrice della scomposizione di classe cerchiamo anche di capire come negli Stati Uniti il capitale stia ricomponendo una nuova classe operaia. Situando l’ascesa di Amazon all’interno dei processi di ristrutturazione capitalistica che si sviluppano a partire dai rivolgimenti politico-economici degli anni ‘70 dimostriamo che la supremazia del blocco egemonico neoliberale le ha reso più agevole perseguire un surplus di profitti tramite una rielaborazione generale dei meccanismi di accumulazione del capitale. Nel saggio analizziamo come Amazon ha rimodellato la geografia di classe delle città degli USA, modificando anche la composizione della loro struttura sociale. La sua ascesa, concentrata nel cuore gentrificato delle città, è stata trainata da una poderosa trasformazione del settore della vendita al dettaglio e della logistica, avvenuta quando consumatori con salari elevati e istruzione superiore hanno spostato in rete i propri acquisti, alimentando un balzo in avanti delle vendite online. A servire questo serbatoio di clientela sono i magazzini Amazon collocati nelle aree suburbane ed extraurbane delle città americane – quelle in cui oggi perlopiù risiede la classe operaia degli Stati Uniti. Queste trasformazioni complessive nei settori del commercio e della logistica sono state un fattore chiave trainante la segmentazione per razze ed etnie e l’atomizzazione della classe operaia, che Amazon a sua volta sfrutta per reclutare manodopera e collocare i magazzini in luoghi strategici. Esaminare le contraddizioni prodotte dagli sforzi di Amazon per acquisire il monopolio nell’industria della logistica ci permette di valutare le rotture sistemiche che rendo-no allo stesso tempo possibile e necessaria la creazione di una coscienza di classe rivoluzionaria nei magazzini6.
Dopo queste lunghe citazioni si lascia ad ogni singolo lettore la possibilità di esaminare più in profondità le modalità di trasformazione del comparto della logistica e quelle delle lotte che ne sono derivate, attraverso uno sguardo affinato dal tipico pragmatismo americano, troppo spesso assente dalle riflessioni europee ed italiane sul lavoro, quasi sempre inficiate da aprioristici ideologismi che nulla hanno a che fare con una seria analisi materialistica (marxista?) delle trasformazioni sociali, economiche, tecnologiche e politiche in atto.
Basti pensare allo sguardo sulla gentrificazione, cui si è accennato nell’ultima citazione, che non viene studiata come causa della rovina delle città d’arte o dei centri storici dal punto di vista culturale, ma proprio per le sue conseguenze sociali, dettate dalle necessità della ristrutturazione e concentrazione capitalistica. Bye bye Firenze, good morning Brooklyn.
Il saggio di Marco Veruggio si sforza invece di concentrare lo sguardo e l’attenzione sul modello di gestione algoritmica della forza—lavoro del colosso di Seattle, per potere successivamente analizzare insidie e opportunità che ne derivano sul piano sindacale. L’autore è coordinatore del progetto ”Amazon, la società del futuro?” e ha pubblicato numerosi articoli sull’argomento, tra cui l’unica intervista italiana a Chris Smalls, mentre il long form multimediale Amazoniade. Un anno a Passo Corese (2022), da lui curato ha vinto nel 2023 il Premio Calcata 4.0 per il giornalismo digitale. Nel suo saggio Veruggio sottolinea come:
Una delle caratteristiche essenziali del modello Amazon è la trasformazione della forza-lavoro in commodity, materia prima indistinta. Non contano le differenze qualitative tra i singoli lavoratori, ma soltanto la loro capacità di fornire all’azienda una prestazione lavorativa conforme agli standard aziendali, perfetta incarnazione di ciò che Marx chiamava “lavoro sociale medio”. La parcellizzazione del lavoro, tipica del taylorismo e del fordismo, in mansioni elementari e ripetitive, così da imprimere al lavoro il giusto ritmo e controllarne ogni sua fase, qui, grazie all’innesto delle tecnologie digitali e all’intelligenza artificiale, viene portata alle estreme conseguenze. Se […] le mansioni della logistica risultano di per sé abbastanza semplici, la sussunzione del lavoro da parte degli algoritmi che regolano ogni più minuto aspetto della vita in Amazon cancella ogni residua autonomia del lavoratore, trasformandolo in una sorta di automa: «Sei una specie di robot, ma in forma umana. La puoi chiamare automazione umana» è l’icastica sintesi fatta da un’ex manager inglese di Amazon a una giornalista del Financial Times.
Alienazione e ritmi elevati consentono ad Amazon di imporre livelli di produttività (e di estrazione di plusvalore) elevati, ma rendono il lavoro estremamente sfibrante. L’impegno ad applicare la job rotation, raccontano lavoratori e sindacalisti, è ampiamente disatteso. Negli enormi magazzini grandi anche decine di migliaia di metri quadrati su più piani un picker arriva a percorrere anche 20 chilometri al giorno. Chris Smalls, oggi leader del primo sindacato riconosciuto ufficialmente da Amazon negli USA, Amazon Labor Union (ALU), mi ha raccontato che molti lavoratori del magazzino di Staten Island, a New York, per reggere i ritmi – negli USA si arriva a lavorare 12 ore al giorno e fino a 50-60 ore a settimana – conducevano uno specifico allenamento fisico. L’introduzione sempre più massiccia di robot per spostare la merce dai picker ai packer sta solamente attenuando il problema.
Nonostante ciò nella selezione del personale non vengono richiesti particolari requisiti fisici7.
Quest’ultimo punto è particolarmente importante, poiché all’interno di ciò che Chua e Cox definiscono come “fabbriche della vendita al dettaglio” «la catena di montaggio tipica del fordismo è potenziata dall’innesto delle più moderne tecnologie, inclusa l’intelligenza artificiale»8. Il che permette, ad esempio, tramite un programma attivo da qualche anno:
di fare il fattorino di Amazon in qualità di lavoratore autonomo, loggandosi ad Amazon Flex, la app che regola ogni aspetto del lavoro: basta avere 18 anni, un mezzo proprio e la patente. Una vera e propria “uberizzazione” delle consegne, che in Italia per ora ha ancora una portata limitata e che inscrive una quota ridotta dei lavoratori Amazon dell’e-commerce nel perimetro della cosiddetta gig economy (insieme a chi lavora per la piatta-forma di microlavoro Mechanical Turk, lanciata da Jeff Bezos nel 2005) 9.
Ma, come si può ben immaginare, se la soglia minima è quella dei diciotto anni, quella massima può non avere più limiti. Contribuendo a fornire una massa di anziani itineranti, come quella vista nel film Nomadland (2020) di Chloé Zhao, adattamento dal libro inchiesta della giornalista Jessica Bruderdel dallo stesso titolo10, che risultano essere dipendenti stagionali di Amazon, sia come operatori che come fattorini.
E’ indiscutibile che una tale riformulazione delle modalità e delle “età” del lavoro finisca coll’abbisognare di nuove modalità interpretative e organizzative di cui il testo edito da Punto Critico, con i suoi due saggi, può costituire un primo e importantissimo momento. Vivamente consigliato a tutti coloro che nell’affrontare il tema del lavoro di oggi e di domani non si accontentino di frasi fatte e parole d’ordine radicate in un sistema di fabbrica ormai quasi del tutto superato nell’Occidente metropolitano. Contro tutte le passate illusioni che ogni conquista fosse “per sempre”.
Attivista, saggista e Assistant Professor of Global Studies alla University of California di Santa Barbara che, attualmente, sta scrivendo due saggi: The Logistic’s Counterrevolution: Fast Circulation, Slow Violence and the Transpacific Empire of Circulation e, ancora con Spencer Cox, How to Beat Amazon: The Struggle of America’s New Working Class. ↩
Ha lavorato in centri di distribuzione e di smistamentp Amazon, militato in Amazonians United otre ad aver conseguito un PhD alla University of Minnesota. ↩
C. Chua, S. Cox, Lottare contro il ciclope: Amazon e l’ascesa della nuova classe operaia americana in Charmaine Chua, Spencer Cox, Marco Veruggio, Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, PuntoCritico, Roma 2024. p. 35. ↩
Ivi, p. 36. ↩
Ivi, p. 37. ↩
Ibidem, pp. 37-38. ↩
M. Veruggia, Organizzazione del lavoro e conflitto di classe in Amazon, in Da New York a Passo Corese. Conflitto di classe e sindacato in Amazon, op. cit., pp. 81-82. ↩Ivi, p. 76. ↩
Ivi, p. 77. ↩
J. Bruder, Nomadland. Un racconto d’inchiesta, Edizioni Clichy, Firenze 2020. ↩