di Jack Orlando
A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee.
Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Silvano Falessi, militante di lungo corso e partecipante della Global Campaign To Return To Palestine (qui).
Una lega internazionale animata sia da singoli che organizzazioni, partecipata da oltre ottanta paesi nel mondo, il cui obbiettivo è quello di fornire supporto alla causa palestinese, seguirne e divulgarne gli sviluppi ma, soprattutto, è uno spazio di confronto e approfondimento tra soggetti estremamente eterogenei in grado di sviluppare posizioni condivise pur nelle differenze specifiche.
L’ultima conferenza internazionale della Campagna si è tenuta a Pretoria, Sudafrica, nello scorso dicembre, poche settimane prima che la diplomazia sudafricana accusasse pubblicamente Israele di genocidio, portandolo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.
Per cominciare vorrei chiederti, dal punto di vista di un’organizzazione internazionale, come valuti lo scenario in atto in Palestina e soprattutto le sue implicazioni a livello internazionale?
Anzitutto vorrei partire dalla “Giornata della Terra” del 30 marzo che, nel suo quarantottesimo anniversario, si è intitolata “Tutto il mondo è Palestina”. Questo già un po’ risponde alla domanda: quello che sta avvenendo a Gaza non è solo un fatto relativo alla Palestina e ai palestinesi ma un evento che riguarda tutto il mondo.
Gli avanzamenti e gli arretramenti che si determineranno in questo momento saranno degli sviluppi di portata globale; non è semplicemente uno scontro tra colonizzati e colonizzatori. Dentro c’è un simbolismo in cui tutti ormai, data l’ampiezza la durata dello scontro, si identificano in un modo o nell’altro.
E tutti in questo scontro, non identificano soltanto il sionismo di insediamento israeliano come nemico, ma il sionismo internazionale, ossia quello che è la sua forma generale, il suo retroterra strategico, ossia il mondo occidentale e in particolar modo le sue istituzioni.
In primis la NATO e l’Unione Europea, che costituiscono la base materiale oltre che culturale e politica della dell’azione sionista anche oltre la Palestina.
Non a caso lo scontro con il sionismo, inteso come politica d’occupazione coloniale e apartheid, non riguarda solo la Palestina ma tutte quelle parti del mondo in cui un meccanismo del genere si è determinato.
Basti solo pensare che nell’Asia Occidentale, quello che noi attualmente chiamiamo in maniera eurocentrica Medio Oriente, l’entità sionista non occupa solo la Palestina ma anche parti del Libano e della Siria; la NATO a sua volta controlla militarmente porzioni di Siria e Iraq.
Per cui è evidente come sia in atto una dinamica di ampia portata in cui si identifica un po’ tutta la quella parte del pianeta che, in un modo nell’altro, noi potremmo definire extra occidentale; ma in particolar modo per quello che oggi viene definito come il Sud Globale, quell’umanità che ha subito secoli di colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Il simbolismo e la rilevanza politica dello scontro in atto sono racchiusi in questo elemento comune.
Credo infatti che sia molto importante evidenziare un aspetto di ciò che dici, ossia la proiezione del sionismo, il fatto che non si limiti semplicemente al colonialismo di insediamento nella Palestina Storica ma si estende agendo su tutto il territorio circostante; c’è quindi una politica di aggressione imperiale rispetto a tutti i paesi della regione…
Se ci pensiamo bene, questa proiezione è congenita nel sionismo perché è nato nelle cancellerie europee, in particolar modo nell’Impero britannico (ad esempio con la Dichiarazione di Balfour e le promesse a Rothschild) a cui serviva sul momento come testa di ponte nella regione.
Poi è diventato effettivamente operativo nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione formale è iniziato a procedere velocemente; di fronte alla quale si è pensato di sostituire il colonialismo formale con quello sostanziale della Palestina, ma anche con una proiezione “informale” del neocolonialismo sul territorio mediorientale.
Non a caso “Israele” è un partner della NATO, anche se non ufficialmente per non disturbare una parte di interlocutori internazionali, ma “Israele” in quanto tale è inserita nel dispositivo politico unitario della NATO a tutti gli effetti; ne è anzi uno degli attori principali di questa proiezione.
In questo senso è interessante analizzare i concetti di avanzamento e arretramento in termini generali: alla fine di quest’ultimo scontro le idee di vittoria e di sconfitta non potranno essere valutate per come le intendiamo classicamente, piuttosto dovranno essere intese come un processo di arretramento o avanzamento a livello non solo specifico, ma internazionale.
In questo senso se perde l’entità sionista sarà un’avanzata non solo della Resistenza arabo-palestinese ma di tutto il Sud globale.
Se invece si avrà un prevalere delle istanze sioniste, questo in realtà non sarà neanche percepito come un arretramento; perché di fatto dal 7 ottobre si è dato un passaggio che già ha determinato un avanzamento assoluto non più negabile, che significa innanzitutto che la proiezione imperial-sionista sull’area non è più un fatto ineludibile, non c’è più quella invincibilità, quell’impossibilità di scontrarsi con la sua forza.
Questo non è un dato tattico ma strategico a cui bisogna aggiungere che, dopo oltre sei mesi, la Resistenza palestinese sia ancora in grado di reggere l’onda d’urto fenomenale dell’entità sionista.
Noi oggi parliamo di genocidio e non c’è onda d’urto più potente di un di genocidio. Il fatto che la Resistenza ancora sia in piedi significa che gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione palestinese, questo anche è un risultato strategico che nessuno può negare.
L’altro aspetto di avanzamento collettivo è che si è ristabilita, dal 7 Ottobre in poi, la questione palestinese non più come una questione “identitaria” ma una questione internazionalista.
Perché nello scontro con l’entità sionista non sono coinvolti direttamente solo i palestinesi ma molti altri attori: la Resistenza libanese, quella irachena, gli yemeniti, che erano i paria del mondo nel paese più povero dell’Asia occidentale, che tuttora tengono testa a una coalizione internazionale e hanno interrotto uno dei canali di transito commerciale più importanti del mondo. In questo senso si dimostra una composizione di quella parte di mondo arabo e islamico che prima non era così evidente. Quello che alcuni definiscono l’Asse della Resistenza e che emerge rafforzato.
A livello macroscopico, nello scacchiere che definiamo Sud globale ci sono tutta una serie di attori estremamente attivi, anche se non interessati direttamente dalle dinamiche regionali in senso stretto; penso ad esempio al Sudafrica, al Brasile di Lula, l’Irlanda o anche l’Indonesia. Possiamo dire che si stiano schierando al fianco della Palestina anche per ridefinire proprio questo quadro di rapporti tra Sud e Nord globale?
Il fatto che l’ONU sia uno dei terreni di scontro di questa contesa sembra significativo perché da un lato abbiamo chi ha costruito quest’ordine, cioè il mondo occidentale, che ora cerca di svincolarsene sentendolo troppo stretto, mentre dall’altro troviamo invece tutti gli altri paesi che sono entrati in seconda battuta, spesso in posizione subalterna anche dentro le Nazioni Unite, ma che usano proprio quell’organismo per far valere le proprie ragioni, rendendolo un terreno di contesa.
Sì, in questo senso forse sarebbe più corretto dire che quello che sta avvenendo in particolare in Palestina, ma in realtà su tutta l’Asia Occidentale, è un’occasione per il Sud del mondo per riequilibrare il proprio rapporto con una buona parte del mondo occidentale, quello a cui è legata una matrice storica di sopraffazione e colonialismo.
Si potrebbe parlare anche della Cina e dei BRICS, ma il problema non è quello. Piuttosto c’è da chiedersi com’è che la parte più povera del mondo vive le contraddizioni internazionali di una fase storica che dura dalle colonie: cinque secoli in cui il Sud del mondo ha sempre subita questa sopraffazione da parte occidentale; ecco che questa è vista come l’occasione per riequilibrare i rapporti.
C’è tutta una parte del mondo africano che sta sfruttando l’occasione per regolare i suoi conti in sospeso con la secolare sopraffazione europea, non solo il Sudafrica con la sua proattività, con il ruolo di paese più forte del continente, sia economicamente e politicamente sia storicamente, essendo la nazione dell’Apartheid e della vittoria su un meccanismo segregazionista che è molto assimilabile ai dispositivi di governo (sionista) della Palestina.
Ma se parliamo di tutto quello che sta avvenendo nell’Africa occidentale francofona, dal Mali al Niger fino alle elezioni in Senegal, vediamo una spinta a estromettere l’ingerenza e l’egemonia europea incarnata dalla Francia, che per secoli è stata il tallone di ferro che ha schiacciato le possibilità d’emancipazione di quelle aree.
Qualcosa di simile vale anche per l’America Latina; basti vedere le posizioni espresse dalla Colombia che solo qualche tempo fa erano impensabili, essendo stata per decenni una pedina controrivoluzionaria in mano all’imperialismo statunitense, molto foraggiata dalla macchina bellica sionista; il fatto che oggi si interrompano le relazioni con l’entità sionista è un’ulteriore dimostrazione che questa è vista come un’occasione storica per regolare i conti e tentare di riequilibrare le relazioni internazionali.
In questo senso è giusto parlare di avanzamento e arretramento: perché non ci sarà né una vittoria assoluta né una sconfitta assoluta.
Non è immaginabile che chiunque avanzi o arretri si dia per vincitore o sconfitto definitivo. Non sarà così perché ogni risultato è legato alle dinamiche internazionali complessive.
Però oggi come oggi, comunque vada a finire, a più di sei mesi dal 7 Ottobre si può dire che comunque la causa palestinese e indirettamente la causa del Sud del mondo, è sicuramente avanzata perché quello che è successo e che sta succedendo anche ora, che non ha precedenti in questo secolo.
Tornando invece al Sudafrica e quindi alla questione dell’ONU, qual è il rilievo effettivo del fatto che il Sudafrica abbia portato Israele, accusandolo di genocidio, alla Corte Internazionale di Giustizia? Quanto quel processo effettivamente pesa su Israele e sulla sua percezione anche a livello mondiale, considerando che una buona metà della partita si gioca sul piano dell’opinione pubblica? Inoltre, dato che l’ultima conferenza della Campagna Globale per il Ritorno in Palestina si è tenuta proprio in Sudafrica, che ruolo ha giocato in questo passaggio?
Posso dire con orgoglio che l’idea di portare a processo l’entità sionista in un tribunale internazionale è nata proprio in quell’occasione. Nello scorso dicembre la Campagna si è riunita in Sudafrica in occasione del Decimo Anniversario della morte di Nelson Mandela, per cui si è pensato che proprio il Sudafrica fosse in quel momento la tappa giusta per il suo sviluppo a livello internazionale, soprattutto perché i simbolismi erano molto evidenti; quindi all’interno della conferenza si è creato un gruppo di lavoro specifico per approfondire e studiare quali potessero essere gli elementi in grado di mettere all’angolo internazionalmente lo stato israeliano.
Va precisato che ha un senso politico aver portato a processo “Israele” alla Corte Internazionale dell’Aia non tanto per il valore di per sé della Corte Internazionale o per il responso di processabilità. Più semplicemente è stato un passaggio in cui politicamente è stato sancito per la prima volta che “Israele” potrebbe essere uno Stato genocida ed è questo che ha effettivamente un valore politico in sé.
All’atto pratico non è cambiato niente sul campo di battaglia in terra di Palestina, anzi se possibile le cose sono anche peggiorate; ma lo scopo era mettere in risalto un dato politico con la convinzione che, qualsiasi fosse stato il responso, sarebbe stata una vittoria.
Poteva darsi che il Tribunale, come poi è avvenuto, decidesse di esporsi solo a metà, riconoscendo la processabilità ma non formalizzando una sentenza di colpevolezza di genocidio. Però ha anche dimostrato che non poteva non riconoscere ciò che sta avvenendo e questa comunque è già una prima vittoria.
Ma se il Tribunale Internazionale non avesse riconosciuto nulla e rifiutando qualsiasi ipotesi di genocidio, che poi era la posizione soprattutto degli Stati Uniti e di tutto l’ambiente NATO, allora si sarebbe dimostrato che quell’istituzione non funziona in maniera imparziale.
Se invece avesse avuto più coraggio e avesse sanzionato direttamente, con provvedimenti concreti, sarebbe stata una vittoria completa.
Per cui la valutazione è stata di tipo politico generale: facciamola, perché qualsiasi sarà responso sarà una vittoria. È stata pensata in questi termini, non perché ci si affida a una dubbia istituzione internazionale per risolvere qualcosa che solo la Resistenza sul campo potrà risolvere, su questo c’è grande consapevolezza.
L’altro aspetto del riferirsi al Tribunale Internazionale è il concepire lo scontro in atto come conflitto su più livelli, non solo uno scontro con mezzi militari ma anche con mezzi pacifici, tutti questi metodi possono concorrere a ottenere il risultato voluto.
Oggi opporsi a “Israele”, uno Stato che è comunque sotto processo per genocidio, è più semplice e dirlo pubblicamente non può più passare per antisemitismo, questo anche è un risvolto ideologico importante. Insomma, c’era poco da perdere ma tutto da guadagnare; era un megafono che ha fatto sì che oggi tutte le piazze del mondo parlino di genocidio.
In questo avanzamento, come tu dici, è centrale la dimensione simbolica che ha permesso di sdoganare il termine genocidio e farlo assumere a livello di massa. Però forse era relativamente facile far passare questo concetto all’opinione pubblica davanti a quello sta che succedendo.
Molto più difficile invece è riuscire a superare un preconcetto islamofobo molto diffuso. Nel 7 ottobre, ad esempio, alcuni hanno riconosciuto immediatamente un’azione di Resistenza, molti ci hanno visto esclusivamente un’azione violenta e deplorevole, secondo un classico registro democratico-umanitario, ma soprattutto trovano scandaloso il solo associare l’idea di Resistenza al fatto che a portarne la bandiera fosse Hamas, una formazione islamista.
Questa cosa a un certo punto si è arginata, più nelle piazze che nei discorsi mediatico-politici ovviamente.
Un po’ perché le piazze filo-palestinesi hanno rifiutato qualsiasi distinzione tra una Resistenza buona ed una cattiva, ma anche dal fatto che la mobilitazione internazionale fuori dall’Occidente ha sgito molto sul campo di una “solidarietà di fede”, una solidarietà del mondo islamico di cui gli Houti possono essere un esempio, anche se non esaustivo, di come si sia messa in moto non solo un’azione di vicinanza ma una vera e propria pratica antiimperialista. Ci troviamo quindi in un corto circuito in cui bisogna riconoscere legittimità per la prima volta ad una Liberazione i cui valori restano alieni ai nostri, in cui non c’è il socialismo come bandiera unificatrice. Per la prima volta ci si confronta esplicitamente con una pratica di autodeterminazione che esce completamente dai nostri schemi di ragionamento, perché non gioca più su un discorso di matrice europea come poteva essere per la fase della “decolonizzazione”. Siamo quindi immersi in un paradigma inedito…
È una delle ricadute che rientrano in quella logica di avanzamento irreversibile che si è determinata dal 7 Ottobre e dai suoi effetti ancora in corso, che hanno messo in discussione una visione dell’Arena Internazionale fondamentalmente eurocentrica, che vedeva tutto ciò che si muoveva a livello internazionale con le lenti di un movimento di chiara matrice Europea, nelle cui categorie esisteva semplicemente il meccanismo del Socialismo, che però non è più elemento preponderante dentro la dinamica internazionale ormai da un trentennio buono. Ma anche perché questo protagonismo estraneo alla concezione “occidentale” effettivamente mette in discussione l’assunto per cui tutto il mondo non ruota più intorno ad una logica eurocentrica.
Lo stesso fatto di non chiamare l’area Medio Oriente ma Asia Occidentale è già una messa in discussione tutto ciò che finora siamo stati abituati a leggere come realtà.
Oltretutto avanzamento ha significato anche aver un po’ disintossicato gli ambienti politici e sociali qui da noi, perché tutto sommato il problema dell’islamofobia non mai è stato centrale se non nei paesi occidentali, che hanno condotto per un quarto di secolo la “Guerra al Terrore”, di cui l’islamofobia è stata un meccanismo primario di coesione ideologica e culturale.
Oggi tutto questo è messo in discussione perché, se all’indomani del 7 ottobre era difficile affrontare la discussione sulla Resistenza, in sei mesi si è riusciti a scalfire e modificare anche insospettabili “eurocentrici”, che oggi sono costretti a riconoscere che il problema di ciò che sta avvenendo in Palestina e dintorni non è un fatto dell’islam, ma è un fatto anticoloniale.
Questo è un dato di fatto oggi inoppugnabile. Che la Resistenza arabo-palestinese venga presentata nei termini di uno scontro tra Hamas e Israele è una costruzione tutta occidentale e sionista; in realtà per qualunque palestinese o arabo è uno scontro contro il sionismo non di Hamas ma della Resistenza palestinese.
Su questo i palestinesi fanno molta attenzione e un risultato in tal senso è dovuto proprio alla loro determinazione sin dall’inizio a configurare la questione come uno scontro tra la Resistenza palestinese contro l’entità Sionista e non come uno scontro frontale tra due fazioni, pur consapevoli che i rapporti di forza all’interno della Resistenza palestinese sono determinati dalla potenza di fuoco della struttura militare messa sul campo. Di fatto togliendo ossigeno al collaborazionismo palestinese dell’ANP e quello arabo delle Petrolmonarchie.
È innegabile che oggi si facciano operazioni congiunte di Hamas insieme al Fronte Popolare o insieme alla Jihad Islamica piuttosto che al Fronte Democratico.
In questo senso la stessa Campagna Globale per il Ritorno in Palestina non è determinata solo dalle forze della Resistenza arabo-islamica, ci sono dentro componenti internazionali laiche o marxiste senza nessun problema e senza che nessuno sollevi il fatto che il Sudafrica, che sicuramente non può essere configurato come potenza islamica, si sia fatto carico di rappresentare le istanze arabo-palestinesi di fronte al Tribunale di Giustizia Internazionale.
Questo smottamento della narrazione eurocentrica è confermato ad esempio dal confronto nello stesso Tribunale Internazionale tra Nicaragua e Germania. Perché il Nicaragua si è presentato come parte accusatoria rispetto alla complicità tedesche nel genocidio, la stessa Irlanda oggi sta dalla parte dell’accusa al sionismo. L’avanzamento è palpabile.
Si aggiunga che la presenza nei paesi occidentali di grandi componenti immigrate ha fatto sì che oggi la narrazione di ciò che avviene in Palestina si sia anche adeguata alla composizione sociale di chi si è mobilitato e che, a differenza di venti anni fa, è composta non sono solo di indigeni ma di seconde e terze generazioni figlie di immigrati; soprattutto la componente araba e palestinese ha stabilito su cosa muoversi e su cosa tacere, anche scontrandosi con quelle istanze indigene che sentenziavano “Né con uno né con l’altro”, a cui hanno risposto chiaramente “con la Resistenza, contro l’entità sonista”.
E questo è anche il frutto di una battaglia politica latente ma comunque condotta, dove le parti più coscienti del Movimento indigeno si sono schierate apertamente su questa linea nelle manifestazioni per la Palestina, dove oggi non c’è più spazio per una posizione equidistante o che in qualche modo ricalca le istanze istituzionali.
Sono le istituzioni italiane che oggi sono schierate apertamente col sionismo mentre le piazze, le università, non hanno più una posizione equidistante ma sono chiaramente dalla parte della Resistenza dal momento in cui il concetto di “Potenza genocida” ha rotto l’indugio e il pudore verso quella narrazione dell’unica democrazia in Medio Oriente e del valore morale dell’esercito sionista è stato spazzato via dagli eventi. Spazzato via sia per le capacità della Resistenza sia dall’opera di macelleria che sta facendo l’entità Sionista sotto gli occhi di tutti.
Quando si ammazzano quasi 40.000 persone e di queste il 70%, se non di più, è costituito da bambini e donne non regge più una narrazione vittimista, sono talmente evidenti il torto e la ragione, che è assolutamente indifendibile qualsiasi equidistanza.
Per cui torniamo al concetto di avanzamento e arretramento: questo enorme sacrificio fatto dai palestinesi ha ristabilito le categorie di giustizia, di torto e ragione, di colono e colonizzato e così via. È un merito che va riconosciuto a prescindere ed è di valore universale.
Questo momento di scontro in Palestina si inserisce dentro una tendenza alla guerra che è un acceleratore esploso già due anni fa in Ucraina e sembra ormai un processo irreversibile molto chiaro e determinato. Ancora un anno fa gli attori istituzionali più democratici o più ottimisti, potevano dirsi coinvolti nell’aiuto all’Ucraina poiché paese aggredito; a un certo punto non solo sono scivolati verso un registro sempre più sciovinista, ma hanno dovuto adottare un doppio registro, estremamente ipocrita e difficile da mantenere, rispetto alla Palestina dove le condanne verso i crimini israeliani sono estremamente reticenti.
Prova ne è la reazione generale alla rappresaglia iraniana dopo che l’aviazione israeliana ne ha bombardato l’ambasciata a Damasco, in una provocazione senza precedenti.
Si sono insomma iniziate a creare le condizioni per cui parlare tranquillamente del fatto che la guerra è una realtà tornata concretamente e che di qui a un paio d’anni si assisterà probabilmente a un conflitto di proporzioni molto più grandi e devastanti.
In questa fase però il bellicismo è ancora una volontà politica delle classi dirigenti sostanzialmente autoreferenziale, senza alcuna partecipazione o condivisione popolare, c’è uno scollamento netto tra quello che è il sentire della popolazione e ciò che sono la narrazione mediatica e la volontà istituzionale. Un abisso evidente anche da tutte le statistiche in merito.
In mezzo in questa tendenza alla guerra, che spazi di mobilitazione si aprono a partire dalla questione palestinese e dalla sua capacità di mobilitare globalmente?
Quando si dice “tendenza alla guerra”, dal mio punto di vista, non credo che rispetto al passato ci sia stata un’accelerazione, perché basta pensare alla “guerra al terrore” che ha contraddistinto già tutto questo secolo, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, eventi che hanno coinvolto enormi masse di forza materiale e umana dall’Occidente. Per dire: a un certo punto in Iraq era presente mezzo milione di occidentali legati alle operazioni militari.
Il problema è che questa tendenza alla guerra è insita al capitalismo in quanto tale, ne è una componente essenziale, anche perché nell’assetto del capitalismo, soprattutto occidentale, la sezione di capitale collegata al comparto militare-industriale ha preso il sopravvento.
In questo senso, dalle “nostre” parti, ciò che c’è di economicamente produttivo è più legato alla dinamica della guerra che non in altre latitudini.
Ma la novità è il fatto che oggi l’imperialismo è diventato più aggressivo perché sembra stia perdendo terreno; la presenza italiana nel Mar Rosso è sintomatica di quella proiezione delle classi dirigenti capitaliste privo un riscontro sociale né materiale o economico; questo lo dimostrano anche gli eventi in Ucraina dove la base produttiva occidentale, tanto terziarizzata da aver scelto di esternalizzare anche le risorse umane piuttosto che costruirle, non è in grado di garantire una base materiale per uno scontro generalizzato.
In questo senso, paradossalmente, più si allargherà e protrarrà il conflitto, più la tigre si dimostrerà di carta.
Non a caso si parla della re-immissione della coscrizione obbligatoria: per fare una guerra come loro vorrebbero bisogna avere il personale; questo è uno dei limiti che si sta palesando in Ucraina, dove non solo si necessita del “capitale umano” da sacrificare, ma la narrazione bellica deve reggere e questo è un punto debole perché, per quanto si veda lo sforzo bellicista fatto attraverso il mainstream mediatico, il consenso sociale è minimo.
Oggi non si può dire certo che la popolazione italiana si voglia lanciare nell’avventura. Non regge perché sono masse nella maggior parte dei casi politicamente amorfe o passive, ma che non scalpitano certo per andare a farsi massacrare per garantire i profitti alle multinazionali o la gloria alla nazione.
È certo che rispetto al pericolo sono ancora troppo passive, ma la realtà è che non c’è proprio culturalmente e psicologicamente una popolazione in Occidente disposta a fare la guerra.
Questo è un fatto di cui va tenuto conto, nonostante un quarto di secolo di narrazione bellicista molto improntata sulla proiezione all’esterno del capitalismo occidentale, non è stata amalgamata una base sociale disponibile da mandare “al macello”. Quelle europee non sono società “pronte” ad affrontare questi scenari, sono le classi dominanti che vorrebbero affrontarle anche senza esserne in grado. Questo è, da punto di vista storico, un fatto positivo – nel rifiuto della guerra imperialista -, è evidente che anche qui si è scollata la società, che è polarizzata al suo interno: le élite vogliono andare a fare guerra ma non ci vanno direttamente, servono le classi sottomesse per farla, che però attualmente non sembrano disponibili a farsi ammazzare, come poteva essere durante la Prima Guerra Mondiale, o per altri versi nella Seconda. Non c’è alcun entusiasmo bellicista all’interno delle società occidentali.
Questo non significa che l’animale ferito non diventi più aggressivo quando è stretto all’angolo, perché se la dinamica che è in corso di avanzamento di altre istanze internazionali avverse rispetto all’Occidente ne limita il campo d’agibilità, potremmo assistere a delle scelte isteriche e dissennate, che saranno però dei colpi di coda.
Ciò che probabilmente sta avvenendo in questo momento storico è il fatto che il processo di perdita della supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo sia abbastanza irreversibile. Una sorta di “Crollo del Muro di Berlino” in salsa occidentale, per cui quella arabo-palestinese potrebbe essere una picconata decisiva.
Si può dire che tutto questo apra una finestra di solidarietà internazionale che potrà essere, in prospettiva, trasformata in una logica internazionalista e di classe.
Perché, oggi come oggi, da questa perdita di supremazia a guadagnarci non saranno solo i popoli oppressi, colonizzati o segregati, ma potranno essere gli stessi proletari dei paesi occidentali, cui spazzare via una classe dominante strategicamente indebolita è necessario più che mai. In questo senso vediamo un possibile punto di incontro tra le istanze del Sud globale e le possibili istanze di classe nell’occidente capitalista, e da questo punto di vista potrebbe essere un’occasione storica importante. Certo, come tutte occasioni, o le sfrutti o le perdi.
Se l’occasione si incontra con l’organizzazione diventa opportunità, se invece la si attraversa nella disorganizzazione e nella frammentazione allora passerà e basta.