di Mahmoud Darwish

M. Darwish (1941-2008) è stato autore di circa venti raccolte di poesie, pubblicate a partire dal 1964, e sette opere in prosa, di argomento narrativo o saggistico. È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. È stato giornalista e direttore della rivista letteraria “al-Karmel” (Il Carmelo), e dal 1994 era membro del Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese.

È considerato poeta nazionale della Palestina per cui scrisse nel 1988 la dichiarazione d’indipendenza, poi proclamata da Yasser Arafat.

I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della sua produzione letteraria è stata tradotta in italiano.

Il testo che qui si propone è la trad. italiana di Pina Piccolo della lettera indirizzata da Darwish al Palestine Festival of Literature fondato nel 2008 che si svolge in Cisgiordania e che lo aveva invitato ad intervenire alla propria inaugurazione pochi mesi prima di morire, invito che non aveva potuto accettare appunto per la salute già gravemente compromessa. È possibile reperire il testo inglese in rete al seguente link https://www.palfest.org/mahmoud-darwish-welcome

 

8 maggio 2008

Miei cari amici,

Mi dispiace di non poter essere qui con voi oggi per ricevervi personalmente.
Benvenuti in questa terra colpita dal dolore, la cui immagine letteraria è assai più bella della sua realtà odierna. La vostra coraggiosa visita di solidarietà è più che un semplice saluto a persone private della propria autonomia e del diritto di vivere una vita normale, è espressione di ciò che la Palestina viene ora a significare per la viva coscienza dell’essere umano che voi rappresentate.

È espressione della coscienza dello scrittore rispetto al proprio ruolo, ruolo che lo chiama ad un impegno diretto nelle questioni che riguardano la giustizia e la libertà. In questa terra, la ricerca della verità – uno dei doveri di chi scrive – assume la forma di uno scontro con le menzogne e le usurpazioni che assediano la storia contemporanea della Palestina; compresi i tentativi di cancellare il nostro popolo dalla memoria della storia e dalla mappa di questo luogo.

Ci troviamo ora nel sessantesimo anno della Nakba. C’è chi danza ora sulle tombe dei nostri morti e che considera la nostra Nakba la loro festa. Ma la Nakba non è un ricordo; è uno sradicamento continuo che  riempie di angoscia i palestinesi rispetto alla propria esistenza. La Nakba continua perché continua l’occupazione. Continuare l’occupazione significa continuare la guerra.

Questa guerra permanente condotta da Israele contro di noi non è una guerra per difendere la propria esistenza; è una guerra per distruggere la nostra esistenza. Il conflitto non è quindi un conflitto tra due esistenze, concetto promosso dalla narrazione israeliana. Gli arabi hanno presentato all’unanimità una proposta di pace collettiva a Israele in cambio del riconoscimento della presenza palestinese in uno Stato indipendente. Ma Israele la rifiuta.

Siete qui, cari amici, per vedere i fatti per come sono. Ieri abbiamo festeggiato insieme la fine dell’apartheid in Sudafrica. E oggi lo vedete prosperare qui in tutta la sua potenza. Ieri abbiamo festeggiato insieme la caduta del Muro di Berlino, e qui oggi lo vedete sorgere, quale gigantesco serpente attorcigliato al nostro collo. Un muro, non per separare i palestinesi dagli israeliani, ma per separare i palestinesi da se stessi e dalla vista dell’orizzonte. Non per separare la storia dal mito, bensì per unire con ingegnosità razzista storia e mito.

La vita qui, vedete, non è qualcosa di scontato, è un miracolo quotidiano. Le barriere militari separano ogni cosa da tutto il resto. E tutto, perfino il paesaggio, sembra temporaneo e vulnerabile perché viene modificato dalle ruspe. Qui la vita è meno che vita, è più che altro un arrivo imminente della morte. Ironia della sorte, l’escalation di repressione, i blocchi, le uccisioni quotidiane e l’espansione degli insediamenti avvengono nel contesto del cosiddetto processo di pace, in un circolo vizioso che minaccia di uccidere l’idea di pace nei nostri cuori tormentati.

La Pace ha due genitori: Libertà e Giustizia. L’occupazione è per sua natura padre della violenza. Qui, in questa fetta di Palestina storica, due generazioni di palestinesi sono nate e cresciute sotto l’occupazione. Non hanno mai conosciuto la normalità. I loro ricordi sono colmi di visioni infernali. Vedono il loro domani scivolare tra le dita. E benché tutto ciò che è si trova al di fuori di questa realtà possa sembrar loro un paradiso, rifiutano di partire per quel paradiso. Restano, perché sono afflitti dalla speranza.

È in questi tempi difficili della storia, che vivono gli scrittori palestinesi. Non c’è nulla che li distingua dai loro connazionali, tranne una cosa: gli scrittori cercano di raccogliere i frammenti di questa vita e di questo luogo in un testo letterario; testo che cercano di rendere intero.

Ho già parlato delle difficoltà dell’essere palestinese e di quanto sia difficile per un palestinese essere scrittore o poeta. Da un lato bisogna essere fedeli alla realtà, dall’altro bisogna essere fedeli alla professione letteraria. È in questa zona di tensione tra il prolungato “Stato di emergenza” e l’immaginazione letteraria dello scrittore che si muove il linguaggio del poeta. Il poeta deve usare le parole per resistere all’occupazione militare. E deve resistere – a nome della parola – al pericolo del banale e del ripetitivo. Come può il poeta raggiungere la libertà letteraria in queste condizioni di dominio? E come può il poeta conservare la letterarietà della letteratura in tempi così spietati?

Queste sono domande difficili. Ma ogni poeta o scrittore ha il proprio modo di esprimere se stesso e la propria realtà.  La stessa condizione storica non produce un’unica forma testuale e nemmeno testi simili, perché gli scrittori sono una moltitudine e tra di essi esistono differenze enormi. La letteratura palestinese non si adatta a stampi preconfezionati.

Essere palestinese non è uno slogan, né una professione. Il palestinese è un essere umano, un’anima tormentata in preda a interrogativi quotidiani, sia nazionali che esistenziali, può avere una storia d’amore, contemplare un fiore e una finestra aperta sull’ignoto. Il palestinese ha una paura metafisica e un mondo interiore assolutamente resistente all’occupazione.

Una letteratura che nasce da una realtà definita è in grado di creare una realtà che trascende la realtà – una realtà alternativa, immaginaria. Non la ricerca del mito della felicità come evasione dalla brutalità della storia bensì il tentativo di ridurre l’aspetto mitologico della storia, di riportare il mito al suo posto giusto, di metafora, e di trasformarci da vittime della storia, in soci attivi della sua umanizzazione.

Amici e colleghi, grazie per il vostro nobile atto di solidarietà. Grazie per la coraggiosa iniziativa che avete intrapreso  al fine di rompere l’assedio emotivo che ci è stato inflitto. Grazie per aver resistito all’invito a ballare sulle nostre tombe. Sappiate che siamo ancora qui, che siamo ancora vivi.