di Giorgio Bona
Alisa Ganieva, La montagna in festa, trad. di Claudia Zonghetti, pp. 256, € 17, La Nuova Frontiera, Roma 2015.
All’inizio del nuovo millennio in Russia fu istituito da Andrej Skoch, fondatore della Pokolenie Foundation, il Premio Debut con gli intenti di sostenere progetti umanitari, avvalendosi di collaborazione e coordinamento della scrittrice Ol’ga Slavnikova, vincitrice del premio Russkij Booker. Lo scopo del progetto era la promozione di giovani autori, la cui presentazione permetteva il loro ingresso sul palcoscenico della letteratura russa con entusiasmo ed energia. E sono stati appunto quattro giovani autori vincitori e finalisti del premio – Alisa Ganieva, Igor Savelyev, Anna Lavrinenko e Aleksej Lukjanov – a figurare con altrettanti romanzi brevi nel volume Il secondo cerchio varato dall’editore Marco Tropea nel 2012. In comune questi scrittori al tempo avevano l’età, chi più chi meno, intorno ai trent’anni.
Una generazione di prosatori che comunque merita attenzione, e tra questi parlo in primis di Alisa Ganieva – non perché gli altri non meritino considerazione, ma perché è stata l’unica di quelli raccolti nell’antologia a essere stata poi ulteriormente proposta in Italia.
Alisa Ganieva (nata 1985), proveniente dalla repubblica caucasica del Daghestan, lavora come critico letterario alla “Nezavisimaja Gazeta” e collabora con altri periodici letterari di spicco. Nella citata antologia era autrice del romanzo breve Salam, Dalgat: un’odissea della coscienza, un appello per la salvezza, la risoluzione e la sopravvivenza del suo paese che va oltre ogni estremismo, un potente e cinico sguardo sulla sua generazione che vive in bilico in una terra dilaniata dalla violenza.
La montagna in festa è la prima traduzione italiana in assolo di questa autrice e affonda nella nuova realtà russa con una storia di contrasto sociale e politico di grande violenza, truce e drammatica. È Shamil il protagonista, un giornalista che rientrando al giornale dove lavora trova la redazione in fermento. Una voce sta facendo il giro del paese: i russi hanno alzato un muro per isolare il Caucaso dal resto della federazione. La situazione si fa subito incandescente: manifestazioni e scioperi si susseguono quotidianamente, mentre i sostenitori dei movimenti islamici si scontrano con quelli dei partiti tradizionali. Shamil vorrebbe restare fuori da questa contesa e continuare la sua vita come l’ha condotta fino a quel momento ma le cose cambiano quando la sua fidanzata, la cugina Madina, indossa il hijab e sceglie di seguire i combattenti salafiti sulle montagne. La situazione precipita, Shamil non intende fuggire ma sarà travolto dagli eventi.
In scena è la narrazione grottesca e spietata di un mondo capovolto, con il senso di una catastrofe imminente e il declino di una società dilaniata dall’interno. La montagna in festa ha una connotazione precisa e anzi talmente vicina al reale che il fantastico viene superato da una narrazione viva, quasi visiva e drammaticamente violenta: un’opera di crudo realismo su ciò che non è accaduto, ma che poteva accadere. A un’esistenza descritta come un incubo, si oppone l’immagine della montagna in festa come soglia di un rifugio contro l’intolleranza e la violenza.
La lettura di questo romanzo tanto attento ai problemi politici e sociali del Caucaso apre una finestra su un piccolo stato come il Daghestan, per mostrarci un mosaico di lingue (trentadue diverse), religioni, culture.
In una multiformità anche paesaggistica – dalle dune di sabbia alle foreste, dai ghiacci ai campi fertili – che non è sicuramente un inno alla monotonia, ecco cosa dice uno dei personaggi del libro attraverso la penna dell’autrice: “il Daghestan è quel luogo dove gli uomini sono così diversi tra loro tanto che sono simili per onestà, ospitalità e brama di giustizia”.
Tutto questo nonostante arrivino gli integralisti islamici, imponendo le loro regole. La sensazione di abbandono da parte della Russia e anche dall’Europa finisce con l’agevolare il fermentare di odio e intolleranza. Chiudono cinema, teatri, canali televisivi, locali, ma la cultura non si disperde e resta una forte componente dell’anima e del modo di essere.
Alisa Ganieva, come gli altri scrittori della sua generazione nati negli anni Ottanta, non ha vissuto sulla propria pelle gli anni del socialismo reale e si presenta alla scrittura con un senso di estraneità al passato, concentrando lo sguardo sul presente. Un presente gravido di incertezze, e che si è lasciato alle spalle le grandi speranze di cambiamento che viveva il popolo russo in quegli anni.
L’onda d’urto di questo passaggio non è stata indolore. Costringendo a reinterpretare la realtà di quel mondo dei padri che si è chiuso di colpo, e invitando a una forma mentis inedita.