di Serena Penni
“Mai come mia madre” urlò la figlia sbattendo la porta, e in un attimo si perse nella notte senza stelle né luna. Lo aveva detto già tante volte, a voce bassissima, rivolta solo a sé stessa. L’aveva detto quando, da bambina, aveva messo in un sacchetto tutti i suoi vestitini pieni di fiocchi e di pizzi e li aveva regalati a una compagna. La madre, quando l’aveva scoperto, era andata su tutte le furie e aveva preteso che gli abiti le venissero restituiti, ma poi erano rimasti in una busta in fondo all’armadio. L’aveva detto il giorno in cui la madre aveva portato a casa un’enorme bistecca insanguinata. Erika, alla vista del pezzo di carne, che le pareva un misero cadavere, una cosa inerte, fragile e straziata, era stata colta da un conato di vomito ed era scappata via. Quella frase Erika l’aveva detta ogni volta che aveva visto la madre rincasare dopo un appuntamento da uno specialista di medicina estetica, col viso più disteso e l’espressione più disperata. L’aveva detta ogni volta che aveva guardato la madre prepararsi con troppa cura per una festa. Ogni volta che aveva scorto gli occhi di ghiaccio della madre che si posavano su di loro mentre sedevano a tavola. Prima sul padre, un uomo giovanile, abbronzato, con l’aria sempre annoiata, di chi avrebbe voluto essere altrove. Poi su un punto indefinito, appena sopra una sedia di legno scuro appoggiata alla parete. Erika immaginava che quello fosse il posto del bambino mai nato, del figlio che nella mente della madre avrebbe dovuto ripagarla di tutti i torti subiti. Dopo la nascita di Erika, c’erano stati quattro aborti, tutti accompagnati da tanto sangue e da altrettante lacrime, gonfie di rabbia e di amarezza. Durante le prime settimane di gravidanza, prima che tutto andasse in frantumi, Erika aveva sentito spesso la madre bisbigliare all’orecchio di un’amica, della sorella, della governante: “questa volta è un maschio, me lo sento”.
Poi, se proprio non ne poteva fare a meno, se non trovava una farfalla da inseguire, una briciola di pane da spostare dalla tovaglia, una piega sulla manica della camicia, lo sguardo della madre cadeva su Erika, la figlia difettosa. Era uno sguardo che avrebbe voluto scivolare via, non vedere, essere cieco. Eppure non ci riusciva. La figlia difettosa attirava i suoi occhi di ghiaccio come una calamita. Nessuna delle due avrebbe voluto che ciò accadesse. Non la madre, che di quella creatura avrebbe preferito dimenticarsi. Perché vestiva sempre male, non si truccava, non parlava quasi mai, si abbuffava di mollica di pane e di biscotti del Mulino Bianco. Poi c’era il suo difetto che, secondo la madre, Erika avrebbe potuto nascondere e che invece sembrava ostentare quanto più poteva, quasi volesse dirle: “guarda, mi hai fatto nascere così, dentro sei malata, anche tu”. Non lo avrebbe voluto Erika, che, ogni volta che percepiva lo sguardo della madre abbattersi su di lei, si sentiva come se qualcuno le avesse strappato i vestiti di dosso e, davanti a una folla sterminata, la picchiasse e la deridesse.
Troppo spesso Erika si era guardata con gli occhi della madre e, esattamente come la madre, aveva provato, per il suo difetto, attrazione e repulsione, aveva desiderato dimenticarsene ma, al tempo stesso, non era riuscita a non lasciarsene catturare. La madre era molto bella e di difetti non ne aveva. Erika pensava che non meritasse una simile fortuna, perché non riusciva a essere felice. “Mai come mia madre” Erika lo aveva detto ogni volta che l’aveva vista, negli anni, tornare a casa a tarda notte da una serata con il padre. La sentiva camminare sicura sui suoi tacchi alti, ridere e parlare, poi la spiava mentre si struccava davanti al grande specchio del bagno e vedeva il suo bel viso, incorniciato da lunghi capelli d’un biondo ramato, farsi sempre più triste, più stanco, più vecchio.
Eppure la madre, nel suo sogno di felicità, ci si era buttata anima e corpo. Si era sposata all’età giusta, con un avvocato di un paio d’anni più vecchio di lei. Avevano comprato una casa grande e accogliente, che un tempo lei aveva passato giornate intere ad arredare, perché nulla sembrasse fuori posto, nulla fosse troppo vistoso o troppo misero. Avevano avuto una figlia. Peccato che la casa desse l’impressione di un sepolcro che cadeva a pezzi; si disfaceva in silenzio senza che nessuno se ne accorgesse tranne lei, Erika. Peccato che il marito un giorno avesse iniziato a staccarsi da quel matrimonio senza amore. Peccato che il figlio maschio non fosse mai nato. Soprattutto, peccato che la figlia femmina fosse lei, Erika, vestita da stracciona e che non mangiava la bistecca. Lei che aveva un difetto. Evidente, macroscopico. Un difetto di cui ogni tanto, nelle sere di primavera, quando l’aria sapeva di erba tagliata, o nelle mattine d’inverno, quando il freddo tagliava le guance e faceva colare il naso, Erika si dimenticava. Allora si sentiva normale, una bambina come tante, una ragazzina come tante, una giovane donna come tante. Ma l’incanto durava poco: se ne ricordava non appena incrociava il proprio sguardo con quello di un passante e vi vedeva riflesso per decine, centinaia, migliaia di volte, quello della madre.
La madre aveva inseguito la perfezione fin da piccola e, per ripagarla, il destino le aveva mandato una figlia imperfetta. Era arrabbiata con il destino e con Erika. Erika nonostante tutto le voleva bene. Era la persona che aveva asciugato il suo moccio quando era una bambina, era la figura elegante e slanciata che la aspettava all’uscita di scuola. Era la donna di cui Erika era stata orgogliosa davanti agli insegnanti e ai compagni di classe. Per anni, la madre era stata il suo mondo.
La madre, Erika lo sapeva, aveva girato il Paese in lungo e in largo in cerca di risposte. In cerca di qualcuno che potesse spiegarle la causa del difetto di quella sua figlia altrimenti così graziosa. Aveva parlato con i medici, loro l’avevano rassicurata. Non era colpa sua, era stato solo il caso. Era stato il destino, le avevano detto gli esseri inquietanti cui si era rivolta qualche tempo dopo, quando Erika aveva già cinque o sei anni, e lei ancora non si dava pace. Erano maghi, sensitivi, chiromanti, sciamani. Erano uomini e donne senza età, di etnia nebulosa, che parlavano l’italiano con un lieve accento straniero. Le accoglievamo in stanze che odoravano di incenso, con molte candele. Guardavano Erika, la sfioravano, le stringevano forte la mano sinistra, le passavano una bacchetta sulla spalla destra. La madre ascoltava poi parlava a sua volta, anche lei bisbigliando, come i suoi interlocutori; spesso piangeva e allora quelle persone le passavano un fazzoletto di stoffa con cui, pensava Erika, si erano già asciugati le lacrime in molti.
“Mai come mia madre” Erika lo aveva detto, rivolgendosi per l’ultima volta solo a sé stessa, la mattina del suo ventiduesimo compleanno, quando aveva visto la madre affacciarsi alla porta della sua camera con gli occhi lucidi e dei fogli in mano. “Dobbiamo pensarci per tempo” – aveva esclamato la donna. Le avevano sempre detto tutti che non era colpa sua, ma lei non ci aveva mai creduto – “Adesso dici che non vuoi avere figli, ma magari cambierai idea. Sei cresciuta in un soffio, presto troverai un ragazzo che ti piace. Lo dico per te, devi fare delle analisi. Non vorrei mai che tu rivivessi il mio inferno”. Si riferiva al suo difetto, ma non lo nominava mai. Era ottobre e le foglie sugli alberi erano del colore del sangue. Erika alzò gli occhi dal romanzo che stava leggendo. La madre le fece pena. Si chiese quando aveva iniziato a essere così infelice. Forse quando lei era venuta al mondo, con il suo difetto. Sulle prime non gliel’avevano nemmeno fatta vedere. Le avevano detto che era una bambina, che stava bene, e in un attimo le erano scorse davanti agli occhi immagini di trecce dal colore biondo ramato, come i suoi capelli, da sciogliere alla sera, prima di andare a dormire, nella penombra di una lampada di stoffa pesante, segreti bisbigliati all’orecchio, passeggiate fatte mano nella mano con una sé stessa in miniatura. Era giovane allora, la madre, e non particolarmente segnata dalla vita: quel giorno aveva ancora potuto sognare. Poi un medico le aveva parlato, le aveva detto che la neonata aveva un difetto. Ma l’uomo aveva gli occhi troppo azzurri, il sorriso troppo sincero per portare cattive notizie. Così, la madre non si era preoccupata. Sul mobile della stanza di ospedale, di fronte al suo letto, c’era un enorme mazzo di rose rosse. Quelle rose, l’odore intenso che sprigionavano, la musica classica che si spandeva per la stanza grazie a un altoparlante posizionato in un angolo del soffitto, il raggio di sole pallido che penetrava dalla finestra socchiusa e disegnava una linea diagonale sul pavimento di linoleum verde, formavano, nella mente della madre, l’ultimo momento gioioso della sua vita. Poi era entrata nella stanza una donna. Era possibile che fosse vestita di nero? Nel suo ricordo, la madre l’avrebbe rivista così. Le aveva portato una bambina avvolta in un asciugamano, rossa per lo sforzo della nascita e forse per la vergogna di essere difettosa; la madre sulle prime non si era accorta di nulla, l’aveva presa in braccio e l’aveva stretta a sé. Poi aveva visto il suo difetto: all’inizio non ci aveva creduto. Aveva pensato che i suoi occhi la ingannassero. Allora aveva toccato, e alle sue mani aveva prestato fede. In quello stesso istante, era sprofondata in un pozzo profondo dal quale non sarebbe riemersa mai più.
La sera del suo ventiduesimo compleanno, Erika capì, all’improvviso, di essere grande abbastanza per smettere di essere figlia. Indossò il cappotto più lungo che aveva e si diresse verso la porta di casa. Intravide la sala da pranzo: erano rimasti sulla tavola i piatti sporchi, una bottiglia di vetro verde e le due candeline a forma di 2. “Mai come mia madre” disse andandosene, e finalmente non si rivolse più solo a sé stessa. Il suo grido di addio fece vibrare l’aria come un vento carico di speranza e di libertà. Aveva con sé una sacca di stoffa con dentro un po’ di soldi, qualche libro e pochi abiti di ricambio. Guardò il vuoto nella manica del suo cappotto, dal gomito destro in giù. Lo soppesò. Per la prima volta, le parve leggero, sopportabile. Erika era triste. Ma adesso per lei l’aria odorava di cibo buono cotto alla griglia e accoglieva le luci variopinte di un futuro possibile.