di Paolo Landi
Marina Petrillo, Indice di immortalità, Prometheus, Milano 2023, pp. 128, euro 18,00.
L’approccio filosofico-letterario di Marina Petrillo richiede in primo luogo di rendere conto dei procedimenti direttamente più visibili dell’opera. Sotto questo profilo, si deve tenere presente che il testo adotta la risorsa del prosimetro; e in questo modo, la dimensione nella quale il libro si inserisce, racchiudendo sia l’istanza filosofico-speculativa che quella lirico-letteraria, mette in gioco un requisito adeguato, che adempie l’esigenza di lasciare emergere un tessuto logico-categoriale articolato e complesso, e di rappresentare in modo costante l’impulso poetico che avvolge questo tessuto, e motiva gli ingredienti filosofici. E accade allora che le componenti in prosa rendano possibile l’immissione di una serie di nuclei concettuali, i quali richiedono il tipo di espansione e di movimento che solo la prosa può contenere; ma al contempo, questi nuclei vengono tracciati attraverso quella disposizione lirica che pervade il loro tessuto nel modo più capillare; e d’altra parte, i versi alternati alla prosa custodiscono il peso dovuto alla componente logico-categoriale, che è propria delle inflessioni speculative. E su queste basi abbiamo gli esiti seguenti: da un lato una prosa che lievita sotto il profilo lirico, e si inclina sul versante della poesia; da un altro lato, una sorta di poesia sottoposta al gravame dell’ambito concettuale, che pertanto converge in qualche misura nei confronti della prosa. Ma quest’ultimo aspetto non toglie che si tratti di poesia autentica, che contiene comunque un indice musicale; e così, abbiamo una sorta di poesia frenata, e scandita secondo un registro uniforme che si rifiuta alle onde melodiche, e sembra quasi mimare, insieme alla prosa, una movenza atonale.
Stabilito questo, si tratta di vedere se siamo davanti a una sorta di poema stratificato in sezioni che si susseguono come ondate, secondo una linea di progressione, oppure davanti a una raccolta esibita secondo criteri di ordinamento che mimano un punto di vista unitario. Certamente l’inizio e la chiusa mettono in gioco una sorta di simmetria: si procede a partire dal “cosmo che non agita alcun gesto” e dal “silenzioso assioma balbettato” (p. 39), e si conclude con una sorta di lavacro, nel quale l’immagine del Puer accompagna con la sua evanescenza il culmine di una “Sempiterna rappresentazione di idiomi ri-volti all’Omnieteronimo, anima del potenziale creante”, per aprire lo scorcio di uno “svanire nel tepido mattino”, dove un “sogno divaricante i piani di realtà” (p. 112) rimanda infine al gioco della scrittura (“Gioco Trasformante di uno scritto impenetrabile”) (p. 113), a cospetto del quale il Puer “si stanca. Si rigira e cade, ridendo”; e in questa congiuntura per un verso dobbiamo affacciarci sul bianco della pagina ormai svuotata dopo l”excipit’ segnato in caratteri maiuscoli, e per un altro verso siamo proiettati verso l’inizio, che appunto incarna il gioco della scrittura. Ma il maggiore interesse è dovuto all’arco di una specie di antitesi sfolgorante, secondo la quale infine si raccoglie il massimo di quanto può essere assunto – che a sua volta abbraccia i poli opposti ma convergenti del “maschile-femminile, della “pianta-pietra” e della “sillaba-silenzio” -, per dissolverlo nel riposo di una visione che dismette la sua apertura, nel segno della innocenza che tutto consacra e assegna alla propria disposizione e al proprio luogo di origine, in una sorta di limbo beato che capovolge o sovverte l’idea della morte in un sogno di eternità – e al contempo rinvia all’operoso lavoro di una scrittura che può essere attraversata in una istanza ulteriore, e forse può essere custodita e sigillata attraverso il gioco di un movimento perpetuo. D’altra parte, questo rapporto simmetrico tra l’inizio e la fine non è sufficiente per stabilire una linea di sviluppo unitaria, che possa circoscrivere o designare una sorta di poema, rappresentato o inciso nella sua dimensione globale. E infatti, la tessitura magmatica del testo – che si evidenzia attraverso la comparazione con le esigenze dettate da un punto di vista rivolto all’orizzonte di un’opera unica – viene in qualche modo dichiarata, se appunto si dice che “Nascerà un’opera da questo silenzio e lava sarà, su animo lieve” (p. 39). Ma a questo punto, si deve chiarire che nella accezione più ampia, è un’opera unica anche quella che corrisponde nel modo più radicale ai canoni dell’apertura – che a loro volta in una certa misura sono ineludibili per ogni risultato estetico-artistico -; infatti, anche in questi casi sono riconoscibili una linea di sviluppo e un piano di coesistenza, che sono diversi da quelli richiesti secondo il criterio della silloge o della raccolta; e d’altra parte, risulta evidente come l’apertura peculiare di questo testo sia dovuta al fatto che si colloca su una specie di piano intermedio tra quello dell’opera unica e quello della riunione di una serie di opere che sono annodate mediante uno stesso ingrediente di ispirazione – od uno stesso impulso creativo. E ancora, a complicare il quadro, interviene il fatto per cui la dimensione unitaria e la questione dell’apertura sono messe a tema da questo scritto; ed è così che questa lava “Andrà a sconfiggersi tra piccoli anfratti e uscite secondarie”, e “Scaverà un letto di pietra solcando in battito lo spazio del non detto”; e parimenti, tornando al finale, si deve osservare come il Puer, iniziando il Gioco Trasformante dello scritto impenetrabile, tracci “una linea di demarcazione tra gli impossibili”. Ma questa apertura non si affida al tratto evanescente e irresponsabile di una espulsione dall’ambito del rigore, che solo rende possibile in prima istanza ogni forma di comprensione; infatti, l’autrice si spinge sino alla richiesta della maggiore coerenza che sia compatibile con lo spazio libero della coscienza – o se vogliamo, con l’istanza dovuta al singolo, e al punto di vista relativo alla sua possibilità di evocazione e di creazione. E riguardo a questo non vi sono dubbi, se consideriamo le seguenti parole: “Non sempre fragili, regnamo nell’interiore mondo. Ogni gesto risuona in armonia universale e nel grande affresco unico, si determinano legami, relazioni interagenti con il Tutto. Così il Tempo diviene quel Tutto. Spazio indescritto, delicata ma implacabile scissura nell’Eterno. E l’Eterno È, per sua stessa estensione. Presenza di cui non è dato sapere, se non nella mente di Colui che È” (p. 111). D’altra parte, la saldatura tra l’esigenza di mettere in gioco le parvenze antinomiche del reale e quella di stabilire una dimensione unitaria e assoluta, è assolta dai grandi maestri degli esercizi filosofico-speculativi che sono attraversati dal misticismo; e in questo modo, il richiamo alla dimensione filosofica più elevata che sia conciliabile con questo testo emerge nel fuori-testo dopo l’explicit, con il rimando a Dionigi Areopagita, e al gioco dei suoi paradossi, che ruotano attorno al rapporto tra conoscibile e inconoscibile – e all’inversione dei loro domini, che tuttavia, come osserva Francesco Solitario nella sua introduzione, si limita ad una disposizione allusiva, rivolta all’essere positivo riposto dietro le negazioni del nostro pensiero, ed alla sua luce avvolta dalla caligine che deve essere attraversata, per situarsi nel luogo di massima vicinanza possibile nei confronti dell’assoluto.
Ma per entrare adesso nel merito della posizione assunta da questa opera – nei limiti in cui possiamo parlare di un punto di vista che venga sostenuto, entro un contesto che ha una inconfondibile impronta poetica, la quale avvolge e giustifica le risonanze filosofiche -, occorre considerare ancora la lirica iniziale. In essa il “Silenzioso assioma” che pervade il cosmo e funge da cardine è congiunto al “tacito rullio del pensiero” il quale “intercetta la spiraliforme eclissi della parola”; al che, siamo di fronte a una dimensione indicibile, che può venire adombrata soltanto entro il dominio di una discordanza essenziale tra il pensiero e la parola medesima; infatti, a questo proposito il pensiero può esprimere la parola soltanto nel suo ritrarsi; o ancora, in un certo senso il pensiero rimane padrone, se appunto contempla o avverte questo gioco di ritrazione; e al contempo la parola, nel mentre che sfugge, irradia le spirali che emergono dalla sua fuga. E questa immagine non è dovuta soltanto alla necessità letteraria di dare un corpo alle proprie visioni, anche laddove puntano all’invisibile – o se vogliamo, all’evento sotteso che rende visibile l’evidenza dovuta al corpo sonoro e semantico della parola che si ritrae -; infatti, soltanto se la parola emette le risonanze che emergono dalla propria linea di fuga, è possibile che abbiano luogo la filosofia, la letteratura, la poesia, e in ultima analisi la stessa vita della coscienza. E queste risonanze, nel loro gioco spiraliforme, sembrano preannunciare il registro barocco di questo scritto – che in ultima analisi sembra mimare la traboccante ricchezza dovuta all’ordito del cosmo. Ma la tessitura barocca di questa opera letteraria – che già si evidenzia nel solco dell’incertezza inerente al suo status, ovvero al suo tratto sospeso tra il molteplice della raccolta e l’uno indicato dall’orizzonte dell’opera singola -, viene coniugata alla disposizione mistica e ascetica che attraversa nel modo più capillare la messe dei suoi risvolti; diciamo dunque – in un senso elevato – che gli ingredienti barocchi di questo lavoro sono dovuti sia alla linea incerta del suo profilo globale, sia alla ricchezza delle immagini convocate – che abbracciano in modo spasmodico l’architettura del cosmo -, sia alla disposizione grandiosa di un tema così comprensivo, sia alla divaricazione tra il dono di questa ricchezza e il rimando a un momento ascetico il quale richiama alla sua dissolvenza. E sotto questo profilo, si deve sottolineare come la linea del disaccordo tra questi due versanti metta in gioco quel tratto molteplice – e quindi barocco, a motivo della divaricazione medesima, e dell’estro giocato dal suo spettacolo -, che è fornito dal palpito sotteso di un’espansione e di una contrazione felicemente annodate tra loro. Così, un esempio della irruzione del punto di vista ascetico nel fasto barocco delle immagini convocate, può essere dato da questo scorcio di prosa: “Soli accecanti e luminescenze remote. Tardivi ricordi. Non essere più ciò che si è stati. Un buco nero, feroce, possiede l’ombra in anoressia del sentire. Digiuno. Grazia. Il raggio evocato giunge dal fasto, in necrologio della forma prossima al silenzio” (p. 58). E inoltre, è opportuno indicare i versi che seguono subito dopo: “Tutti i mondi si completano a vicenda. / Il raggio divino scende nelle coscienze a illuminare / le vette dello spirito. / Siamo nell’assente dormiveglia / sino a quando, toccati dalla tragedia, / non cediamo il campo all’indicibile / Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce / la costola dell’Assoluto Presente. / Inquietudine volge a paradosso / ogni gesto torna a lenta consapevolezza. / Si può morire nell’istante / Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. Riguardo alla prosa, dobbiamo allora osservare quello che segue: in primo luogo risulta evidente una serie incalzante di percezioni e visioni, che si dipanano nella consueta calma alla quale è sottesa la turbolenza di un movimento intestino tenuto sotto controllo dall’ambito di un rigore sospeso tra l’istanza della prosa e quella del movimento lirico; in secondo luogo, emerge un procedimento di sottrazione o di negazione, nel quale l’accecamento, la condizione remota, l’impronta tardiva, il non essere più rispetto all’essere stati, l’oscurità del buco concepito come una specie di calco interiore di una voragine cosmica e l’anoressia del sentire mettono in gioco un accumulo barocco di negazioni, che sfocia in una immagine della Grazia, la quale ribalta lo spettacolo di un sacrificio – o addirittura di un martirio – nel dono improvviso ma fermo dell’assoluto; e ancora, al di là della Grazia, per sua concessione si distende il raggio evocato dal “fasto” relativo ai presupposti di questo gioco di privazioni – e in particolare, si potrebbe dire, inerente ai “soli accecanti” e alle “luminescenze remote”, e degradando ai “Tardivi ricordi” -; e infine, abbiamo il “necrologio della forma prossima del silenzio”. E accade allora che il silenzio suggelli la sottrazione, e al contempo confermi il plenum dovuto all’istanza dell’assoluto e della sua concessione; ed è attraverso questo passaggio finale che la valenza ascetica si sovrappone allo strato barocco delle visioni; ma nello stesso tempo, sia il risalto plastico dovuto alle stesse negazioni, sia l’irruzione del raggio, sia la mole grandiosa del silenzio mantengono a loro modo l’istanza che precede, mentre l’ascesi riveste il sostrato delle immagini conclusive, e non rinnega il volume esorbitante delle visioni. Per quanto riguarda invece i versi, innanzitutto abbiamo l’ampiezza visionaria della totalità dei mondi che si completano – che a suo modo e con una cadenza molto diversa può ricordare alcune illuminazioni paniche di Pessoa -, in secondo luogo abbiamo ancora la presenza del raggio, questa volta esplicitamente divino, e accompagnato dalle immagini sontuose che riguardano le coscienze e le vette dello spirito, riverberando la suggestione panica, e inoltre abbiamo la fase calante della tragedia che apre all’indicibile – e nello stesso tempo si allinea alla impronta sconfinata dello scenario, sia pure attraverso un’istanza di negazione -; e procedendo, sulla base di una discesa che rimane scolpita nel suo risalto, e sulla base del paradosso instaurato sul solco delle tradizioni mistiche, che racchiude comunque un massimo di consistenza – dovuto al volto dell’assoluto, il quale si cela e al contempo si annuncia –, emerge il regno dell’indicibile; ma poi, in un moto di risalita entra nel gioco l’”Assoluto presente”, che risulta commisto al vuoto dal quale nasce, e al contempo funge da luogo di origine di quanto sussiste nel proprio insieme. E avanzando ancora, si definisce un movimento di ascesa rivolto all’assoluto; e tuttavia questo guadagno è sottoposto al giogo dell’esistenza, e al vano tormento della sua fuga nel tempo: “Si muore nell’istante agognato perché inesistente / In nullità si procede, buio nel buio / per giungere all’assoluto”. L’istante agognato perché inesistente rimanda ad uno scenario speculativo, sfuggendo a ogni richiamo erudito, nel modo più originario e autentico della poesia; ed è in questo istante che possiamo cogliere l’effetto di sottrazione più doloroso; e il movimento di istante in istante che volge verso l’assoluto racchiude l’impronta ascetica più definita – per cui abbiamo il punto di vista mistico, legato alle evidenze drammatiche della rinuncia. E ancora, nel caso di questi versi si definisce la dimensione dell’umano e del suo limite, che è legata alla “lenta consapevolezza” insita in ogni gesto, e addirittura alla “nullità” del nostro procedere; e questo esito stabilisce uno scarto ben definito rispetto al finale della prosa, che contiene il riverbero barocco del raggio, del fasto, del necrologio e della “forma prossima al silenzio”.
Stabilito questo, si può osservare che la congiuntura di una mescolanza tra l’istanza barocca e la dimensione ascetica – riguardo alla quale, sia sotto il profilo delle risorse espressive che sotto quello degli orizzonti tematici, prevale la prima di queste componenti, secondo una linea formale che si distingue nel modo maggiore rispetto, ad esempio, a un importo ascetico nel cinema come quello di Robert Bresson – mette in gioco un singolare equilibrio, che non può essere riscontrato in uno dei massimi vertici della scultura, come è quello impresso nelle opere del Bernini. Infatti, se consideriamo complessi come quelli dedicati alla Beata Ludovica Albertoni o a Santa Maria Teresa d’Avila, osserviamo il gioco prorompente di una torsione voluttuosa, che attraversa gli eventi ultimativi dell’estasi o della morte – o di un loro sfolgorante scambio di senso -, mediante le volute contorte che predicano l’esuberanza delle vesti, del marmo, e delle figure straziate dal loro beato tormento e sottoposte a un dolce martirio al cospetto dall’invisibile; e in questi complessi non abbiamo in alcuna maniera l’istanza di sottrazione dovuta al punto di vista ascetico, e la linea di quella purezza che emerge nel lievito dell’ascesi risulta come travolta dall’impeto sensuale, dalla ricchezza dei suoi risvolti e da un macerazione che assorbe la morte oppure il contatto con il Divino nel segno di una eccedenza la quale dischiude, nel proprio fondo, l’esuberanza dovuta a un impulso vitale. E invece, nel libro di Marina Petrillo il risvolto barocco che ne attraversa la voce implacata e il timbro sofferto viene contenuto da un punto di vista metafisico e religioso a suo modo soave e quasi devoto – laddove la devozione non è delineata nei termini di un’angustia di fondo, e nemmeno di un punto di vista confessionale che sia professato nel testo, ma in quelli di un gesto di remissione, che non viene contaminato attraverso il gioco dei sensi, e il suo accento materico.
Ma infine, occorre osservare qualcosa riguardo allo sfondo più strettamente filosofico di questo volume. Il libro non ha la pretesa che può essere avanzata da un saggio teoretico, e a partire da questo presupposto i riferimenti o i rimandi devono essere concepiti dal punto di vista lirico-letterario, o devono essere assunti nei termini di una movenza a carattere evocativo. Così, il richiamo a Dionigi Areopagita risulta la strada maestra, che è in grado di illuminare gli scorci che invece rimandano ad altre figure. E a tale proposito, possiamo considerare una menzione fugace di Gilles Deleuze e di Carmelo Bene – che vengono come assorbiti nella temperie ludica di un delirio (cfr. p. 91). Da questo punto di vista, innanzitutto, per quanto riguarda la figura del Puer, Francesco Solitario rimanda a Carl Gustav Jung piuttosto che al filosofo, il quale si richiama sotto un altro profilo a questa figura; e il rimando risulta opportuno, perché la dottrina junghiana degli archetipi e la sua inflessione vagamente platonica si collocano su un versante contrapposto a quello dell’intento distruttivo di Deleuze – il quale, a differenza di questa dottrina, presenta dei tratti incompatibili con il senso espresso da un pervasivo rimando al principio immortale -; e potremmo dire che il pensiero di questo filosofo sia avverso nel modo più pronunciato a tale rimando. Ma è anche vero che gli approdi paradossali dei punti di vista mistici ed ascetici sono suscettibili di una serie di risonanze disparate; ed è infatti nel gioco del paradosso secondo cui il massimo di affermazione può essere avvicinato soltanto attraverso la negazione, che è possibile stabilire un incontro fortuito con un pensiero il quale intende abolire questo orizzonte finale, ma affida ad esso una serie di suggestioni che possono essere consumate sotto il profilo di una inversione del loro senso di origine. E per quanto riguarda Carmelo Bene, il discorso risulta analogo; ma a questo proposito, possiamo sottolineare quello che segue. Il teatro, il cinema e soprattutto l’esercizio vocale di Carmelo Bene sono elementi che vengono piegati al punto di vista di un predominio assoluto del significante rispetto al significato o al senso – laddove l’autore di queste intraprese rifiuta non solo il gioco di superficie di ogni significato a carattere positivo, ma anche la dimensione profonda del senso medesimo, che invece è l’alimento e il fermento più sostanziale di questo Indice di immortalità. Ed anzi, potremmo dire che gli strali polemici e devastanti di Bene sono proprio rivolti alla dimensione del senso profondo; laddove, tuttavia, per ironia della sorte, questo gioco di opposizione è temperato dal fatto secondo cui lo scavo dentro i cunicoli vocali della phonè – o del nostro risuono -, nel momento nel quale assorbe una serie di referenti che rendono possibile il gioco attraverso il dominio del loro senso stravolto, acuisce i riverberi di una inedita significazione, che porta con sé, insieme alle scorie verbali ed alla loro resa impellente, quella penombra del senso nella cui sottrazione compiuta potremmo avere soltanto il decesso, privato appunto nel modo più assurdo di quanto intendiamo alludendo alla morte. E sembra che un libro come quello adesso in esame, con la sua singolare ricchezza, sia in grado di presentire l’istanza di una profonda significazione – e quindi di un senso -, quali ingredienti suscettibili di essere ritrovati, in quanto tali – e con una forma e una sostanza diverse che li rivestono -, attraverso il gioco che Bene ha disposto nei suoi scenari; e si deve osservare che tutto questo, del resto, non attenua l’impronta disperata dell’autore, ma la rende possibile. Ma a tale proposito, non è indispensabile condividere il pathos cosmico-religioso di Marina Petrillo, che nei suoi modi, al di là del proprio orizzonte, in ultima analisi offre il suo contributo a chiunque è disposto a mettere fuori gioco le derive più deboli e i risvolti inautentici di punti di vista contemporanei, che sono provvisti comunque del dono di una creazione – il che non comporta alcuna riserva critica sulla resa artistica di Carmelo Bene, ma riguarda l’implicazione inerente al rapporto tra le sue dichiarazioni di poetica, e una serie di tratti speculativi che appartengono al mondo odierno.