di Luca Baiada

Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. L’Armadio della vergogna, prefazione di Bruno Manfellotto, Jaca Book, Milano 2023, pp. 187, euro 18,00.

 

Viene voglia di parlar bene, di un testo così convinto, così animato da passione. Si dà ragione volentieri a una posizione ben schierata. Ma che fatica bisogna fare, per superare inciampi e confusioni.

Nel risvolto di copertina iniziale: «Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti, ricostruisce un mosaico composto da verità celate». Con questo sunto non si comincia nel modo migliore: secondo l’Atlante delle stragi i morti sono ventitremila, ma l’Atlante è inadeguato e probabilmente il numero effettivo è intorno a trentamila. È vero, però, che quel mosaico impegna l’autore da anni, nel solco di un lavoro che comprende Il paese della vergogna (Chiarelettere 2007) e I carnefici (Sperling & Kupfer 2015).

È da respingere l’impressione che Biacchessi, come una certa parte del mondo intellettuale, abbia pubblicato più volte lo stesso libro rimescolando i materiali, rispolverando abiti di scena. Esclusa questa ipotesi, è giusto pensare che abbia sempre bisogno di affinare il suo approfondimento, che desideri farlo crescere, ma che nel frattempo ci voglia mettere a parte di dati importanti, senza tenerli in serbo per quando saranno nella forma definitiva. Ci considera di casa e non fa complimenti, non perde tempo ad abbottonarsi la giacca prima di venire in salotto. Bene, allora, che arrivino spunti preziosi anche per chi frequenta già il tema. Qualche esempio.

L’intervista televisiva a Erich Priebke in Argentina, con risonanza internazionale, che apre al nuovo processo sulle Ardeatine, è del 1994, ma esiste un libro precedente, El pintor de la Suiza argentina[1], e a distanza di molto tempo dall’intervista l’emittente riconosce che la trasmissione ha un debito nei confronti del volume.

Poi. Joachim Peiper è un nazista colpevole del massacro di Boves; per quello la giustizia non lo disturba; per un altro, commesso in Belgio, è condannato ma liberato già nel 1956; però, dopo fughe e cambi di nome tra Francia e Germania, nel 1976 Peiper lascia li mal protési nervi nell’incendio della sua casa, assaltata con bombe da sconosciuti.

Ancora. Nell’ottobre 1959 il magistrato militare Massimo Tringali va all’ambasciata tedesca a concertare il sabotaggio della giustizia sulle Fosse Ardeatine; Herbert Kappler è già condannato e incarcerato, ma sono noti almeno altri dodici criminali e il magistrato suggerisce i passaggi tecnici per l’insabbiamento[2]. Il seguito del processo non si farà. La collaborazione di Tringali, strisciante all’ambasciata per ostacolare la giustizia e tradire il suo paese, è apprezzata dall’ambasciatore, che scrive a Bonn: «Mi unisco alle motivazioni di questa richiesta così piena di riguardo…». Cioè: il magistrato militare italiano anticipa così bene ciò che giova alla Germania, che basta prendere la trama preparata da lui e trasmetterla al dicastero tedesco. Questa storia oscena ha una particolarità: tra i dodici – oltre a Priebke e Hass, che saranno condannati negli anni Novanta – ci sono Hans Keller e Kurt Winden, a loro volta, durante l’occupazione di Roma, magistrati militari. Dopo la guerra Keller farà carriera nel mondo giudiziario, Winden in quello bancario, entrambi resteranno impuniti.

I contatti di Tringali con l’ambasciata sono diversi da quelli – Biacchessi non ne parla – di un altro magistrato, Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, che nel 2021 riceve dalle mani dell’ambasciatore un’alta onorificenza tedesca in una cerimonia ufficiale. Tringali commette un crimine e De Paolis, sessant’anni dopo, certamente no. Eppure, le ombre dei contatti segreti o i riflettori della cerimonia accompagnano la mancata giustizia, allora e adesso, segnando un prima e un dopo, un passaggio attraverso tempi e contesti che sottolinea la stratificazione della società dello spettacolo.

Insomma, materiali interessanti ce ne sono: Biacchessi lavora sodo e, visto che ce la mette tutta, bisogna perdonargli le poche inesattezze e versioni superate[3].

L’ammirazione per Franco Giustolisi, il giornalista che rese nota sulla stampa nazionale la presenza dell’archivio con le stragi nazifasciste, percorre tutto il libro e va condivisa. Altro tema è il Premio Giustolisi, ricordato con entusiasmo dall’autore e da Bruno Manfellotto: il premio ha dato riconoscimenti a personalità, per lo più appartenenti al circuito chiuso che ha successo nella cultura e nella comunicazione, ma purtroppo non risulta che li abbia dati per ricerche nuove e originali sulle stragi.

Quanto al ruolo di Giustolisi nell’emersione dell’archivio – poi chiamato Armadio della vergogna per una scelta felice che si deve a lui – la questione è affrontata male. Non si tratta di Biacchessi ma della prefazione di Manfellotto, L’ostinazione della memoria, quando ricorda il giornalista:

In [Franco Giustolisi] si aggiunse, come chiamarla?, una certa ostinazione della memoria che completò e arricchì quella sua originaria febbre per la verità. Accadde quando nell’estate del 1996 scoprì che a Roma, in una stanza della Procura militare adibita a cancelleria, giaceva un vecchio armadio dimenticato, addossato al muro verso il quale erano state rivolte le ante: perché a nessuno venisse la tentazione di aprirlo. Una rozza barriera. Evidentemente studiata per nascondere qualcosa. E naturalmente Franco lo aprì e lì dentro trovò quasi 700 dossier e un grande registro con più di duemila notizie di reato che documentavano puntigliosamente crimini efferati commessi dai nazisti e dai loro alleati fascisti nel terribile biennio 1943-’45.

A parte i dettagli (le ante, il muro eccetera), discutibili e non decisivi, va detto: non è stato Giustolisi, a scoprire l’archivio, né ad aprirlo. L’archivio fu rifrequentato a partire dal 1994, l’opinione pubblica rimase all’oscuro, lui ne scrisse sulla stampa nel 1996. Forse non ci si rende conto delle conseguenze di attribuire a qualcuno ruoli iniziali, determinanti, propulsivi: se Giustolisi, lui, avesse riaperto l’armadio nel 1994, ci si dovrebbe chiedere come potesse conoscerlo prima degli altri e perché sino ad allora non l’avesse riaperto.

Proprio la riemersione dell’archivio, quella iniziale nel 1994, è un punto di frizione. Biacchessi è documentato e riporta dati noti ma che si rileggono volentieri: soprattutto dichiarazioni di magistrati e funzionari. Il fatto è che tutto questo è presentato senza offrire a chi legge una riflessione più profonda, neanche a livello dubitativo.

L’autore collega la riemersione – è una versione tralatizia – a ricerche di documenti fatte nel 1994 dal procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, sia occasionate dal processo Priebke sia connesse alla visita di una «giovane ricercatrice» piuttosto misteriosa (neanche la Commissione bicamerale è riuscita a identificarla); ricerche seguite, poi, da reazioni e attivazioni nella sede centrale della giustizia militare. Il volume non prova a sciogliere l’intreccio.

Altra questione su cui si resta a mani vuote è quella dell’archivio di Giustolisi. È difficile pensare che un giornalista di quella caratura lavorasse senza un buon archivio personale. Anni fa è stata fondata la onlus Archivio Franco Giustolisi, e nel 2020 l’allora presidente della Toscana, Enrico Rossi, ha annunciato il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze, con supporto della Regione per riordinarlo e fare un centro studi; sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio[4]. Non se ne sa di più, e il libro non indica l’archivio del giornalista tra le numerose fonti consultate, italiane ed estere.

In fondo questi due passaggi, questi ologrammi impalpabili che anche i migliori osservatori quasi sempre trascurano, si collocano in due fasi importanti della storia dell’Armadio: prima un archivio emerge nel chiaroscuro di un ufficio e la notizia viene alla luce grazie a un giornalista; poi l’archivio di quel giornalista resta in una penombra senza corpo. Un archivio pubblico affiora dal buio alla luce, uno privato scivola dalla luce al buio, e in mezzo c’è un uomo che sa la cosa giusta al momento giusto.

Il volume è arricchito da un’intervista a Giustolisi fatta nel 2014, per interposta persona, dopo che la salute l’aveva abbandonato. Ecco il suo ricordo sull’origine della più alta, fra le strutture che si sono occupate dell’Armadio, cioè sull’origine della Commissione bicamerale istituita nel 2003:

Insieme a Massimo Rendina, allora presidente dell’Anpi di Roma, vero uomo e vero partigiano (capo di stato maggiore della 1ª Divisione Garibaldi, nome di battaglia «Max»), ci recammo più volte al Senato per sostenere l’opportunità di una commissione parlamentare d’inchiesta. Ma la destra, in particolare i fascisti, non ne volevano sapere. Poi, a parte le nostre insistenze, tutto cambiò all’improvviso. Il progetto della commissione fu varato, contemporaneamente fu istituita la giornata del ricordo per gli istriani e dalmati. Io sono un antipolitico di natura, di questo tipo di politica intendo, quella che sottobanco dice io do una cosa a te e tu dai una cosa a me. Comunque, i risultati della commissione furono completamente negativi, addirittura un autoceffone che si era dato il Parlamento.

Mettendo da parte ogni considerazione sulla moralità, si nota la convenienza, davvero: il Giorno del ricordo per un’inchiesta. La Commissione lavorò una tantum, chiuse nel 2006 e da allora le due relazioni prodotte non sono mai state discusse in aula; il Giorno del ricordo, invece, torna ogni anno e se ne parla. Come dar via un orologio a cucù per ricevere una sveglia ferma. Il giornalista si rese conto della trappola, dell’autoceffone, e non si diede per vinto:

Tentai altre strade. Cercai di parlare con Luciano Violante, che conoscevo bene anche se non c’erano ottimi rapporti tra di noi, ma il suo portavoce mi riferì: «Il presidente dice che si tratta di questioni di 50 anni fa». […] Cercai anche di parlare con Fausto Bertinotti, uno dei successori della presidenza alla Camera, verso il quale non ho mai nutrito un minimo di stima. Ma la sua risposta, così tranchant, mi lasciò di sasso: tramite portavoce mi fu detto che «dell’armadio della vergogna si era parlato anche troppo». Non ricordo la mia risposta, ma certamente non fu un inno per quest’uomo forse noto per le sue giacche di tweed.

Giustolisi si spense proprio nel 2014, a novembre, poche settimane dopo una sentenza della Corte costituzionale – tappa di una vertenza di rilievo internazionale – favorevole ai risarcimenti per le famiglie colpite dalle stragi[5]. Era anziano, stava male e forse neanche ebbe la notizia. L’autore, però, è al corrente della contesa in corso sui risarcimenti, perché cita la sentenza civile del Tribunale di Novara del 2022 sulla strage di Borgo Ticino; eppure non valorizza il tema. È un altro aspetto su cui il suo impegno si mostra rivolto nella direzione giusta, ma debole sulla tutela delle vittime, e quindi ancora con una bella strada davanti.

Il libro conclude: «Oggi il vero pericolo è che la storia possa essere riscritta non dal vincitore, ma da chi ha perso la guerra». Sì, ma c’è anche il pericolo che la storia la scrivano insieme, i vincitori e i vinti, o per meglio dire la scrivano parallelamente, contrapponendo posizionamenti opposti sulle medesime vicende, però senza effetti quanto alle conseguenze che quelle vicende hanno o devono avere. È ciò che può accadere se il lavoro culturale di impronta soprattutto memoriale – anche quello da apprezzare come il libro di Biacchessi – non tiene conto per intero delle vertenze non risolte e della giustizia non realizzata.

 

 

[1] Esteban Buch, El pintor de la Suiza argentina, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1991.

[2] Biacchessi cita Felix Nikolaus Bohr, L’indagine indesiderata. Una testimonianza di «politica del passato» italo-tedesca, 1959-1961, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», XVI, n. 3 (luglio-settembre 2013), pp. 429-442, con trascrizioni di documenti, tradotti, e con segnature d’archivio.

[3] Per esempio. A p. 36 il golpe Borghese slitta dal 1970 al 1980, quando il fascista era già morto. A p. 39 la Germania del 1960 è divisa dal muro di Berlino, che sarà costruito nell’anno successivo. A p. 81 l’ordine di compiere la strage delle Fosse Ardeatine viene da Hitler, una tesi superata da anni.

[4] https://www.toscana-notizie.it/web/toscana-notizie/-/la-regione-ospiter%C3%A0-a-firenze-l-archivio-giustolisi.

[5] Corte costituzionale 22 ottobre 2014 n. 238.