di Francisco Soriano
Il mio amico don Milani è un libro di appunti scritto da David Maria Turoldo a testimonianza del rapporto umano e spirituale vissuto con il parroco di Barbiana fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1956 a Firenze. La premessa che Turoldo riserva a questo testo appare necessaria al fine di definire con chiarezza i contorni di una vicenda drammatica e polemica, che ha riguardato fino ad oggi la figura e l’opera pedagogica di don Milani. La prova che il dibattito rimane ancora vivo è stato l’intervento di qualche mese fa del maître à penser della destra nostrana Marcello Veneziani, in un articolo apparso su «La Stampa» il 27 maggio scorso, dove si apostrofava negativamente l’azione pedagogica del parroco definendola addirittura come una nociva utopia.
David Maria Turoldo nell’introduzione al testo ci informa della sua intima necessità, in un momento storico connotato da stravolgimenti sociali e politici, di emergere dal silenzio e finalmente parlare di don Milani: Quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa. Da sottolineare che, molto spesso, alcuni atteggiamenti della classe dirigente italiana hanno rappresentato in generale nei confronti della proposta di cambiamento sociale e di un fermo richiamo all’uguaglianza sul terreno dei diritti più elementari, la proiezione di una ideologia fortemente conservatrice animata da un visionario ritorno al passato con la prospettiva esplicita di consolidare uno status presente di privilegio e potere.
Nella polemica sull’opera di don Milani è emersa talvolta una tendenza a derubricare la figura del parroco a personaggio di culto, rendendo meno pregnante la sua idea di scuola finalmente e realmente democratica. Dal ’68 in poi, una parte consistente di persone ha sostenuto che la pedagogia di don Milani sia stata negativa e controproducente: un esempio ideale e pratico di un modello che preconizzava una scuola non dei ricchi ma di tutti, col professore uguale ai suoi alunni, dialogante, senza bocciature e senza autorità, perché “l’obbedienza non è una virtù”. Sul concetto di potere e autorità ritengo che il pensiero di don Milani sia stato ampiamente frainteso.
David Maria Turoldo intervenne già ai suoi tempi, titolando uno dei suoi interventi: Don Milani non era come dite voi! Nonostante fra don Milani e Turoldo vi fossero differenze quasi abissali, per molti aspetti permaneva la comune idea e la necessità di fare luce sulla statica e sonnolenta posizione del cattolicesimo italiano, rintanatosi in una sorta di strategica e comoda stabilizzazione frutto della “vittoria” elettorale del 18 aprile 1948.
Al fine di non servirsi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle, o finire in cliché di parte, Turoldo ammette di aver sempre stentato a parlare di lui: un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di radicale rottura e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo. In tempi in cui soprattutto intellettuali come Pasolini argomentavano sul dopoguerra italiano, macroscopicamente si determinavano contraddizioni sociali fortemente drammatiche, per il passaggio inevitabile da una civiltà agraria a quella industriale e l’esplosione di infiniti problemi di cultura, società, religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Era da questo momento e da questo spazio, dove su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: il povero, che nasceva don Milani.
Per Turoldo l’amico don Milani era soprattutto un uomo concreto. Era questa una chiave di lettura ineludibile se si voleva comprendere la complessità di questo personaggio. Uomo incarnato in fatto di fede, perché rimasto intimamente ebreo, Turoldo ci fa capire perché il parroco di Barbiana pensasse che l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo, quanto la legge non va disgiunta dallo spirito, la giustizia dalla carità. […] È la sua conversione che è la chiave per entrare nel suo segreto. Dunque la concretezza rappresenta lo spazio della vera complessità che sfugge anche alle più raffinate sintesi teoriche: per questo don Milani era monoliticamente determinato all’azione e al fare. Quella di don Milani era una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quel che costi, anche il martirio se necessario. […] Una fede sempre rapportata al povero, basata sullo stesso istinto ebraico, chiamata a farsi corposità, appunto, storia.
Don Milani era un prete poco fiducioso nei confronti degli intellettuali, perché basava la propria vita sulla concretezza, la corporeità, così poco propenso ad accettare il piano astratto delle cose. Come uomo di fede reputava l’ingiustizia come un peccato del mondo, la povertà rappresentava il culmine di questa divaricazione in seno alla società fra chi poteva definirsi un uomo libero e chi invece era costretto allo sfruttamento e alla sudditanza. E non lontano da questa dinamica che è alla base delle lotte e delle contraddizioni, profetizzava quel male che sarebbe presto sfociato negli eccidi: egli vide alla fine del secondo millennio «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue».
Turoldo ha contribuito con il suo saggio su don Milani a chiarire un punto focale della dottrina religiosa e umana di quest’uomo duro, seppur umile, violento quanto dolce nel perseguire la sua idea di giustizia sociale. Il rapporto con l’autorità era uno di questi punti decisivi, soprattutto se si considerava che egli riconosceva l’autorità ma non il potere, sia nella battaglia che condusse contro i militari, sia nel rapporto con la chiesa. Infatti non accettava «la chiesa carismatica, invisibile e piena di umori», bensì il corpo, il corpo di Dio e, per relazione, il corpo della chiesa, che vuol dire organizzazione, disciplina e autorità. Dicendo infatti che l’obbedienza non era una virtù, affermava che il potere spersonalizza, al contrario dell’autorità che, liberante, fa crescere. Per questo motivo egli si scagliava contro il potere e con la opposta ferma convinzione rispettava l’autorità: potere e autorità erano per don Milani inversamente proporzionali.
L’ultima considerazione, infine, va fatta per l’uomo di fede, che don Milani incarnava in modo assoluto. La sua era la fede di un convertito: per questo divenne «ragione di vita o di morte, un assoluto». Per Turoldo infatti il convertito, il neofita, assume le posizioni estreme di chi vuol cambiare il mondo, e lotta per raggiungere il fine con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Don Milani era anche questo.
La sua azione incentrata sul povero si basava sulla lotta alla prima e originaria ingiustizia che era la sua condizione di ignoranza, la sua mancanza di conoscenze che non consente di affrancarsi dal potere, appunto, e dallo sfruttamento. La sua pastorale si fondava su una convinzione: prima educhiamo e formiamo l’uomo, poi l’uomo penserà da sé. Su questo assioma e con questa fede la sua opera è stato l’esempio più lampante e coraggioso del messaggio evangelico dell’uomo di Nazareth.