di Gioacchino Toni
Jacopo Galimberti, Immagini di classe. Operaismo, Autonomia e produzione artistica, DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 416, € 28,00
In oltre quattrocento pagine corredate di numerose illustrazioni, il volume Immagini di classe di Jacopo Galimberti approfondisce la produzione di alcune generazioni di artisti, architetti, designer e storici/teorici dell’arte e dell’architettura legati, più o meno direttamente, all’operaismo e all’area dell’autonomia, indagando dunque i legami tra arti visive, idee politiche e produzione di sapere.
Dopo essersi occupato in apertura di volume della grafica delle riviste “Quaderni rossi” e “classe operaia” e dell’iconografia proletaria proposta da quest’ultima attraverso disegni e vignette, Galimberti passa in rassegna la produzione del Gruppo N, collettivo artistico che, riprendendo il primo operaismo, intese ripensare il rapporto tra tecnologia, arte e lavoro, per poi dedicare un capitolo all’influenza esercitata dall’operaismo sull’architettura facendo riferimento in particolare al collettivo fiorentino Archizoom nato a metà degli anni Sessanta.
Nel volume trova spazio la ricostruzione del dibattito che attraversa “Angelus Novus” e “Contropiano” circa le avanguardie storiche, il ruolo degli intellettuali e dell’architettura moderna, vengono riprese le riflessioni a proposito del rapporto tra architettura, urbanistica e politica prodotte da Manfredo Tafuri insieme al suo gruppo di ricerca nel corso degli anni Settanta ed esaminato, a partire dalla figura di Danilo Montaldi, il rapporto tra la pratica della “conricerca” e l’universo culturale e artistico.
Ad essere passate in rassegna da Galimberti sono, inoltre, alcune produzioni realizzate con media diversi appositamente per Potere operaio e i materiali a sostegno della Campagna per il salario al lavoro domestico prodotti dal Gruppo Femminista Immagine di Varese, nato attorno alla metà degli anni Settanta.
L’ultima parte del volume è dedicata alla grafica delle riviste e delle fanzine dell’area autonoma, in particolare alla ripresa delle avanguardie storiche nelle strategie comunicative del movimento del ’77, per poi concludersi con l’analisi di alcune opere realizzate durante e dopo gli arresti del 1979 da parte di artisti legati all’operaismo e all’autonomia.
Immagini di classe intende dunque ricostruire un legame, quello tra esperienze politiche radicali e riflessione/produzione artistica, scarsamente approfondito: le ricostruzioni di quell’assalto al cielo portato dalla stagione dei movimenti, che pure non sono mancate, hanno spesso affrontato i due ambiti in maniera disgiunta.
Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla produzione del Gruppo Femminista Immagine di Varese, fondato nel 1974 da Milli Gandini, Mariuccia Secol e Mirella Tognola, a sostegno dell’International Wages for Housework Campaign portata avanti da femministe materialiste, alcune delle quali passate dall’esperienza di Potere operaio, come Mariarosa Dalla Costa.
Galimberti analizza in apertura di capitolo il manifesto del Convegno nazionale tenutosi a Roma il 29 aprile 1978 volto a lanciare la Campagna per il salario al lavoro domestico realizzato dalle componenti del Gruppo Immagine che, riprendendo una delle questioni centrali del network internazionale femminista – ben sintetizzata dalla frase «Col capitalismo cominciò lo sfruttamento più intenso della donna come donna e la possibilità alla fine della sua liberazione» di Mariarosa Dalla Costa e Selma James (Potere femminile e sovversione sociale, 1972) – recitava: «Soldi a tutte le donne», a suggerire da un lato «fino a che punto l’identità sociale delle donne fosse irretita nell’economia di mercato» mentre allo stesso tempo il manifesto graficamente ribadiva «la necessità di sviluppare un’azione politica di massa che saldasse chi riceveva un salario e le casalinghe, il cui lavoro era invece […] “demercificato”» (p. 246).
Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963) – ripresa successivamente da Leopoldina Fortunati (L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, 1981), altra ex militante di Potere operaio –, aveva evidenziato come l’ideologia della “mistica femminile” avesse contribuito a privare il lavoro domestico della sua dimensione economica legittimando così l’assenza di una sua retribuzione. Il manifesto prodotto dal gruppo intendeva dare immagine a questa oscillazione tra economia e natura in un contesto come quello italiano che negli anni Sessanta e Settanta, non di rado persino all’interno di formazioni politiche radicali, tendeva a considerare il lavoro riproduttivo alla stregua di una “vocazione femminile per natura” ricompensata con “l’affetto e l’amore”.
La forma sinuosa del corteo [proposta dal manifesto del Gruppo Immagine] rimandava infatti a un motivo classico che simboleggiava la prosperità: la cornucopia, un corno, spesso associato a una figura muliebre, da cui traboccano monete o alimenti che sono il frutto “del lavoro della natura”, per così dire. Questa scelta iconografica faceva sì che il poster del gruppo riuscisse a tradurre in termini visivi quello che Fortunati aveva definito come la doppia natura del lavoro domestico e del lavoro di cura: per l’ideologia capitalista, essi erano una “naturale” fonte di ricchezza e benessere, ma dal punto di vista delle “operaie della casa”, la forza-lavoro necessaria per svolgere queste mansioni era una merce e doveva essere retribuita come tale (247).
Con una personale tenuta a Roma nel 1975 dal titolo La mamma è uscita, Milli Gandini, una delle fondatrici del Gruppo Immagine, intese rispondere all’invito ad “uscire di casa” rivolto alle donne da Dalla Costa e James. Mossa dalla volontà di presentare momenti di «creatività del rifiuto del lavoro domestico», attraverso arazzi realizzati con una trama molto larga e scarsamente ricamati, Gandini intendeva palesare il rifiuto di quanto questi avevano storicamente rappresentato per le donne, ossia «tanto lavoro manuale da eseguire ripetitivamente con punti piccolissimi» («Le operaie della casa», novembre 1975 – febbraio 1976). La tecnica del punto croce veniva dunque sovvertita e trasformata in qualcosa di volutamente grossolano intendendo così rifiutare l’abnegazione ad un lavoro ripetitivo, alienante e non retribuito. Nella stessa mostra l’artista aveva voluto esporre anche utensili domestici, trasformati dal processo di ricontestualizzazione artistico in esempi di “rifiuto del lavoro” femminile.
Attraverso le sue realizzazioni Gandini ambiva inoltre a contribuire a quell’opera di controinformazione femminista portata avanti a metà degli anni Settanta dalle militanti della Campagna per il salario al lavoro domestico anche attraverso nuove forme di controinformazione visiva.
Galimberti ricostruisce inoltre le modalità con cui politica ed estetica si sono intersecate all’interno del gruppo femminista promotore della Campagna per il salario al lavoro domestico, focalizzandosi soprattutto sul discorso estetico sviluppato da militanti italiane come Laura Morato e Silvia Federici. Di quest’ultima, trasferitasi negli Stati Uniti nel 1967, lo studioso analizza le illustrazioni – in buona parte stampe del XVI e XVII secolo – scelte per il volume pubblicato in lingua inglese ad inizio del nuovo millennio Caliban and the Witch (2004) – in cui la militante aveva ripreso e ampliato un lavoro svolto con Fortunati a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta –, sottolineando come in tale apparato iconografico Federici intendesse proporre un uso innovativo delle illustrazioni nei testi di teoria politica.
Ad essere esaminato dallo studioso è anche il grande telo realizzato nel 1976 dal Gruppo Immagine e steso dietro al palco di un evento napoletano nell’ambito della Campagna per il salario al lavoro domestico, in cui erano state cucite con effetto filigrana in latino le Litanie della Beata Vergine Maria, figura modello di femminilità e maternità nell’Italia cattolica dell’epoca. A fare da controcanto al contenuto religioso era stata riportata in evidenza la scritta “Anche l’amore è lavoro domestico”, a sottolineare, così come avrà modo di argomentare Giovanna Franca Dalla Costa (Un lavoro d’amore: la violenza fisica componente essenziale del “trattamento” maschile nei confronti delle donne, 1978), come
il capitalismo [avesse] sostenuto l’ideologia dell’amore coniugale e, parallelamente, la stigmatizzazione delle sex workers proprio per imporre uno specifico modello di famiglia e legittimare, pertanto, il lavoro femminile non retribuito. Lo stupro e la violenza maschile non erano, quindi, eventi tragici e isolati, ma piuttosto misure standard che, in nome dell’ordine economico, i mariti mettevano in atto per garantirsi l’asservimento delle compagne (p. 259).
A Mariuccia Secol si devono grandi arazzi raffiguranti figure femminili astratte in cui a materiali nobili e pratiche complesse si alternano interventi poveri e grossolani al fine di criticare «l’immagine della casalinga virtuosa e compiaciuta della propria abilità nei lavori» (p. 260).
La questione della creatività femminile è stata posta la centro dell’incontro milanese Donne Arte Società tenutosi nel 1978 in un clima politico e sociale particolarmente teso. In quell’occasione le donne del Gruppo Immagine presentarono un documento – accesamente criticato da diverse partecipanti – con cui, rivedendo in maniera critica il tipo di militanza assunto negli anni precedenti, intendevano rivendicare il diritto a una pratica artistica più individuale e autoreferenziale e meno subordinata all’universo politico esistente.
Alla Biennale veneziana del 1978 intitolata Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, il Gruppo Immagine prospettò un riformulazione della dualità natura/arte intendendo, sostiene Galimberti, contrastare l’idea che le donne potessero “rappresentare la natura”, come a lungo sostenuto da diversi artisti maschi. Il Gruppo guardò criticamente anche all’ambito architettonico denunciando quanto la progettazione delle abitazioni avesse storicamente contribuito a limitare l’indipendenza delle donne e prospettando forme architettoniche alternative ed emancipative.
Il ritorno all’ordine che si diffuse in Italia sul finire degli anni Settanta comportò la fine tanto della Campagna per il salario al lavoro domestico quanto dello spirito militante e collettivo che aveva animato il Gruppo Immagine. Gli anni Ottanta sancirono una svolta tanto nella militanza politica quanto nella pratica artistica delle donne che condusse all’aprirsi un nuova e differente stagione.