di Luca Baiada

Marco De Paolis con Annalisa Strada, L’uomo che dava la caccia ai nazisti. Le indagini su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le altre stragi compiute durante la guerra, Piemme, Milano 2022, pp. 160, euro 14.

 

Ai bambini si deve dire la verità. Benvenuto questo libro, allora, perché ci sono cose che devono sapere, ma con addenda et corrigenda.

L’autore racconta all’infanzia le stragi nazifasciste, l’insabbiamento delle indagini dopo la guerra e i processi successivi. È un magistrato della giustizia militare, in alto. Nel risvolto di copertina iniziale, dopo un cenno alla mancata giustizia nel periodo postbellico, è «il giudice che ha dato il via a quelle investigazioni». Vediamo.

L’archivio con le indagini sulle stragi, dopo pochi processi negli anni Quaranta, non è più utilizzato se non in modo sporadico e inconcludente. Resta nella sede centrale della giustizia militare, a Roma. È rifrequentato nel 1994 e l’opinione pubblica lo sa solo nel 1996. Poi cominciano nuovi processi, come quello al Tribunale militare di Torino per l’eccidio di Milano del 1944, o quello del Tribunale militare di Verona al boia del Lager di Bolzano, Michael Seifert. I processi usciti dall’archivio – sarà chiamato Armadio della vergogna dopo le pubblicazioni di Franco Giustolisi – vanno tenuti distinti da altri, con origine diversa, fatti o cominciati poco prima della sua rifrequentazione: si tratta del processo di Santa Maria Capua Vetere, per la strage di Caiazzo, e del processo Priebke e Hass, a Roma, per le Fosse Ardeatine. In quegli anni Marco De Paolis non fa parte di nessuna di quelle sedi; niente Torino, Verona, Roma, Santa Maria Capua Vetere: è a La Spezia dal 1988 al 2008.

I tre nomi tedeschi appena detti – ai bambini va spiegato bene – sono quelli degli unici andati in carcere: Priebke, Hass, Seifert. Nessuno dei tre fu estradato dalla Germania: uno lo fu dall’Argentina, l’altro viveva in Italia e il terzo fu consegnato dal Canada. I primi due li prese la Procura militare di Roma retta da Antonino Intelisano, il terzo quella di Verona retta da Bartolomeo Costantini. De Paolis non ha messo in carcere nessun nazista. I 57 ergastoli che ha ottenuto, ricordati nel libro, non sono stati eseguiti.

I meriti ci sono lo stesso. A La Spezia, dove prima è giudice, nel 2002 diventa procuratore militare e organizza le indagini. Da Roma è arrivato materiale abbondante, l’ufficio ha competenza su zone d’Italia molto colpite. È materiale predisposto dagli Alleati, soprattutto dai britannici, che poco dopo i fatti raccolsero testimonianze, documenti, fotografie. Qualche caso fu trattato così bene che si sarebbe potuto fare il processo subito dopo la Liberazione. Ci furono anche indagini statunitensi e italiane. Ma soprattutto i britannici, dettero «il via a quelle investigazioni».

Ancora sul «via». La riemersione dell’archivio negli anni Novanta è rimasta oscura anche dopo le commissioni d’inchiesta: le persone sentite, più erano state vicine all’archivio, più hanno dato versioni tendenti a prendere le distanze. Ovvio: a chi ha davvero rimesso in moto l’archivio si deve chiedere perché non l’ha fatto prima, come lo conosceva e molto altro. Per i ragazzini: chi conosce il nascondiglio della cioccolata e della fionda, o ce le ha messe lui o sa chi è stato. Configurare un ruolo iniziale di De Paolis potrebbe quasi metterlo in cattiva luce, ingiustamente.

Il procuratore ha fatto un grosso lavoro di organizzazione, riordino, approfondimento, incrocio di dati con altri archivi e con testimonianze, valorizzazione di nuove piste investigative. In certi casi bisognava attribuire il crimine di una formazione, già certo nel 1945, ai militari ancora vivi. Come spiegarlo ai bambini? È sicuro che una cosaccia, a scuola, l’ha fatta una classe, tutta, lì e quel giorno. Ci sono le prove: è stata quella classe. Bisogna vedere chi c’era nella classe; trovare i registri, approfondire, controllare, togliere i bambini sospesi, assenti, a casa con la bua. Gli altri, punirli.

Già, appunto: la pena? Se qualcuno dà la caccia ai nazisti, è perché ricevano una pena, o no? De Paolis dà del tu al piccolo lettore e lo prende per mano:

Se ora mi segui, ti spiegherò nel dettaglio come sono arrivato a quel fatidico momento in cui ho aperto la prima cartellina uscita dall’Armadio della vergogna. […] Con calma ti spiegherò tutto, ma ora ti chiedo di continuare a leggere, così che io possa accompagnarti lungo la mia storia e dentro la Storia[1].

Ecco cose sue: il compleanno, l’onomastico, a cinque anni sa rifarsi il letto, il prete della parrocchia, capoclasse a scuola, soffre la matematica, gli piace il mare. A un quarto del libro diventa procuratore militare a La Spezia, nel 2002 appunto. Ecco gli spostamenti, in Italia per vedere luoghi e persone, in Germania per interrogare i nazisti e incontrare colleghi tedeschi. Dopo arrivano i dibattimenti, coi successi e i rovesci, poi le impugnazioni eccetera. Già, bene.

Ma insomma, la pena dei nazisti? Leggiamo nel capitolo Meglio tardi che mai:

Che cosa avrei ottenuto con una giustizia tardiva su un numero limitato di colpevoli? Questa domanda mi rigirò in testa a lungo. Stavo facendo il mio lavoro e compiendo il mio dovere, ma il senso di tutto questo qual era? Era un quesito tormentoso e trovai una sola risposta plausibile: il senso era, ed è, quello stretto della Giustizia. Non un atto simbolico ma vero, reale, opera di un giudice, non di uno storico o di un giornalista, e quindi capace di incidere sulla vita vera, restando agli atti dello Stato come un punto fermo e non più discutibile. […] Avevo la certezza che, se anche avessi ottenuto una sequenza di ergastoli – come poi in effetti accadde – , nessuno li avrebbe scontati perché erano persone troppo anziane e perché a eseguire la condanna avrebbe dovuto provvedere la Germania. Ma tutto ciò non aveva importanza. Contava affermare un principio di verità e giustizia, sebbene tardiva. «Meglio tardi che mai» non è solo un modo di dire: può diventare, in situazioni estreme, un modo per dare un significato a qualcosa che pare aver perso senso[2].

Attenzione. Gli ergastoli «nessuno li avrebbe scontati»; è bene che ai bambini non sfuggano queste parole, le uniche nel libro su un fatto gravissimo.

La domanda sul senso è interessante, in generale. Però. La mancata esecuzione delle condanne va attribuita soprattutto alla contrarietà della Germania, non a questioni di età: le incarcerazioni di Priebke, Hass e Seifert (su cui ai bambini si tace) ci furono, benché comode per modalità o brevi perché seguite presto dalla morte. Ancora. L’ultimo processo è finito nel 2015, vent’anni dopo la rifrequentazione dell’archivio, settant’anni dopo la Liberazione, e complessivamente i dibattimenti – molti con la partecipazione di De Paolis – sono stati una ventina (spesso con più di un imputato ciascuno). Questo, per la giustizia, non è tardi, è mai. E il bambino legge: «Ma tutto ciò non aveva importanza».

L’atto non simbolico ma vero, reale, che incide sulla vita vera, non c’è stato: tutti i nazisti condannati, a parte i tre detti, sono morti in Germania indisturbati. Certo, i processi sono rimasti agli atti dello Stato; in molti casi c’è il materiale del 1945, poi tradotto, riordinato e arricchito con altro. Ma questo è un punto fermo e non più discutibile? Le sentenze si possono discutere, e c’è già almeno un caso. Cefalonia è il più vasto massacro di italiani fatto dai tedeschi, un crimine esaminato anche a Norimberga (The Hostages Trial); la decisione presa nel processo di dieci anni fa, trattato e raccontato da De Paolis, è messa in dubbio da uno studio che esclude la partecipazione dell’unico condannato, Alfred Störk, ai fatti addebitati a lui[3].

Torniamo all’insegnamento più profondo del libro: «Il senso era, ed è, quello stretto della Giustizia». Così, con la maiuscola. Ma in concreto? I nazisti non sono stati puniti. Tanti indagati, senza seguito. Meno di un centinaio processati in assenza, appena disturbati dal postino con qualche carta, oppure dalla visita di un poliziotto o di un giornalista. Tutti quelli inquisiti da De Paolis, compresi i 57 che hanno avuto l’ergastolo, al più si sono sentiti rivolgere domande, in Germania, da un signore alto – «la mia stazza», scrive – senza obbligo di dirgli la verità. In Italia non si sono fatti vedere.

Restano i risarcimenti alle famiglie colpite, ma su questi l’autore non dice nulla ai bambini. Parliamo di condanne economiche non a carico degli imputati ma dello Stato tedesco. Il procuratore nel libro non tratta deportazioni e stragi di deportati, ma sa che in Italia un processo civile per una deportazione, quella di Luigi Ferrini, portò nel 2004 a una novità, in Cassazione a sezioni unite: per i crimini più gravi gli Stati possono essere condannati; un precedente legale che vale per lo Stato tedesco e per ogni altro: Usa, Russia, Israele, Iran, Ucraina, Turchia. Lo sa perché la notizia della sentenza Ferrini fece il giro del mondo, al punto da essere d’esempio in Corea e in Brasile, in processi per crimini giapponesi e tedeschi. Lo sa perché nel 2006, grazie a quel precedente, il Tribunale militare di La Spezia, mentre lui era pubblico ministero, giudicando la strage di Civitella condannò la Germania al risarcimento.

Il processo su Civitella è uno di quelli citati, ma non si dice né della chiamata in causa dello Stato tedesco né che De Paolis fu contrario. E pensare che anche l’Avvocatura dello Stato – una struttura che non si intenerisce facilmente – fu possibilista e dimostrò senso di umanità: «L’Avvocatura dello Stato è un istituto, ma l’avvocato dello Stato è una persona». Il pubblico ministero replicò: «Lo Stato tedesco, così come preannunciato nelle note verbali che questo ufficio, che questo Tribunale ha ricevuto, non ha alcuna intenzione di soddisfare alcuna richiesta e non lo farà mai, quindi in concreto questo problema non si pone». Persino la sentenza del Tribunale prese le distanze da quanto sentito in udienza:

Gli spunti polemici sull’opportunità della richiesta in questione, ribaditi anche in occasione delle conclusioni, inducono a sottolineare come le parti civili richiedenti abbiano esercitato un insindacabile diritto, a sostegno dei privati interessi civili, di cui sono portatrici nel processo penale[4].

Negli anni, su questo il procuratore si è espresso. Per esempio ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[5]. Oppure ha detto in un convegno: «La tentazione, diciamo così, di sfruttare il dolore, di sfruttare la bontà, il valore che c’è dietro una strage, un eccidio, è una tentazione molto forte, no, da parte di tante persone»; nella stessa sede, commentando l’intervento di un gruppo di vittime, per chiedere giustizia, a una cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario: «Forse è meglio andare da Fazio»[6].

Sui risarcimenti a carico della Germania la giustizia con la maiuscola, in questa storia, non è né tardi né mai: è contro. Per spiegarlo ai bambini bisognerebbe chiarire anche la bontà, il valore dietro una strage.

Nel risvolto di copertina finale è scritto che l’autore ha ricevuto «l’Ordine al merito, una prestigiosa onorificenza» della Germania. Si tratta della Grosses Verdienstkreuz mit Stern, consegnata nel 2021, dopo la morte degli ultimi condannati, liberi, qualcuno centenario. L’ambasciatore tedesco, alla cerimonia: «Con il Suo lavoro, stimato dottor De Paolis, caro Marco, Lei ha contribuito in modo essenziale alla riconciliazione dei nostri due paesi e alla cultura della memoria italo-tedesca».

Per i più piccini. Cappuccetto Rosso andava soletta. Venne il lupo, la mangiò e tornò nella foresta di Luponia. Il cacciatore lo cercò, lo trovò, lo interrogò. Il lupo rimase a Luponia e digerì. Il cacciatore tornò col carniere vuoto ed ebbe l’Ordine della gran pelliccia, un titolo che fa figura ai ricevimenti delle ambasciate. Suona male? Anche Cappuccetto Rosso di Perrault non ha il lieto fine. Meglio evitare certe consolazioni.

Nel libro starebbe bene una cosa. L’archivio si forma a partire da una decisione ufficiale del 1945: per fini di giustizia, i fascicoli sono a Roma. Si fanno alcuni processi, poi tutto si ferma e anche il discorso pubblico ne risentirà. In Italia ci sarà una colossale rimozione politica, morale, mentale. Rimozione, come spiegarla? Proviamo.

Bambini, che fate se avete in bocca una gomma, e non si può? La togliete, e via: in tasca, in mano, appiccicata sotto il banco, ovunque ma non in bocca. La nascondete, cioè la spostate. Per forza, altrimenti non riuscite neanche a negare il fattaccio, si sentirebbe: «No, no, momma, non ho affotto la ciongomma in bocca». Invece l’archivio delle stragi fu nascosto senza spostarlo; rimase nel palazzo dove ci rimisero le mani mezzo secolo dopo. Pare impossibile, pare un gioco da bambini, quando vedono quello che non c’è, o il contrario. Quali parti politiche sapevano, e a quali livelli? Di certo non potevano dirlo: avevano la gomma in bocca. Ma era fatta con la carne dei morti.

Un gioco macabro del potere, un vedo-non-vedo che ricorda – è una coincidenza? – altre feste in maschera: la strategia della tensione, il caso Moro, le stragi del 1992-1993. La storia dell’Armadio ha qualcosa di sciasciano, ma forse non è il caso di dirlo ai ragazzini. Di Leonardo Sciascia, i più svegli potrebbero leggere in Porte aperte – parla anche del delitto Matteotti, siamo nel centenario – la riflessione di un giudice: «Un brav’uomo, il procuratore: ma di brav’uomini è la base di ogni piramide d’iniquità. “Sono anch’io un brav’uomo di questi, in effetti”».

Concludendo. Come parlare di giustizia sui crimini internazionali ai bambini? Nelle scuole ci sono quelli di paesi colpiti. Ci si può rivolgere ai piccoli ucraini, palestinesi, africani. Ed è meglio farlo senza discorsi sfuggenti sul senso stretto della giustizia. Si potrebbe domandare così, per esempio a un ucraino. Senti: i tuoi cari uccisi dai russi; le prove, nascoste per mezzo secolo; quando le ritrovano, si scrivono condanne ma non si eseguono, i colpevoli restano in Russia e la Russia non paga risarcimenti; un magistrato che ha fatto le indagini, ucraino come te, riceve un’onorificenza russa e scrive un libro per bambini. Cioè, un libro per i tuoi nipoti, perché tu sei diventato nonno. E magari con figli e nipoti hai qualche problema perché hai sofferto tanto, quindi hai un brutto carattere. Che ne dici?

Rivolgersi ai bambini, rivolgersi agli adulti. Il tempo contratto. Su queste cose – scrivere mi era necessario per intravederlo, non mi basta per spiegarlo – i bambini sono bambini ma non sono bambini, e anche l’occhio che li guarda è adulto e bambino insieme. Perché? Françoise Sironi ha scritto che il tempo del trauma è un tempo inaugurale[7]. Chi incontra orfani delle stragi sente quel tempo raggelato, quell’età strana che hanno addosso, doppia o indefinibile. In Miracolo a Sant’Anna, nella scena finale della strage, Spike Lee fa mormorare a un bambino parole in cui la voce è infantile ma il senso non più: «Ti ricorderai di tutto questo, sono cose di quando eravamo bambini». Ma è tutto qui? o è altro, è prima? prima quando? Non lo so, ma c’è un epigramma di Marziale, Persona Germana, su una maschera:

Follia di figulo, rosso figuro

tedesco: la stessa faccia

che fa ridere te, un bambino agghiaccia[8].

Nella seconda metà del Primo secolo la romanizzazione ha toccato solo in parte i Germani, anche dopo non li comprenderà mai tutti: e la maschera germanica, buffa e terrifica, divide e unisce adulti e bambini. Stiamo andando troppo lontano? Eppure tanto tempo dopo, nell’anno dello sbarco in Normandia, Benedetto Croce, in una pubblicazione spiazzante oggi dimenticata, si dichiarerà germanofilo e vorrà spiegare la storia europea con la battaglia fra Arminio e Varo, cioè con la mancata romanizzazione della Germania[9]. Forse, dunque, è vano criticare troppo questo libro per l’infanzia, un segnaposto senza colpa né originalità. Da duemila anni di maschere non ci si affranca facilmente. Marcel Marceau, nel mimo Il fabbricante di maschere, deve combattere col suo artefatto; quando si strapperà il sorriso posticcio si vedrà la sua disperazione, ma solo allora sarà salvo[10]. È quanto deve fare chi lavora per la giustizia, quando la giustizia è stata vanificata.

Un’ultima cosa. Il libro, del 2022, non dice nulla – forse non ha fatto in tempo – sul decreto-legge 36 dello stesso anno, che ha protetto ancora gli interessi tedeschi e ha creato per le vittime un fondo pagato da Roma, non da Berlino. Un fondo insufficiente che neanche funziona. Ai beni tedeschi protezione vera, alle vittime promesse di «ristoro». Come spiegare ai bambini un ristoro? Ci aiuta un vecchio film, Bianco rosso e verdone. Il tonto (Carlo Verdone) prende una fregatura in un negozio, poi esce: «Nonna, nonna! m’hanno fatto un buono! Che vor di’? vor di’ che…»; la nonna (Sora Lella, indimenticabile): «Che te la pij ’n der c…».

 

 

[1] Marco De Paolis con Annalisa Strada, L’uomo che dava la caccia ai nazisti. Le indagini su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le altre stragi compiute durante la guerra, Piemme, Milano 2022, pp. 28-29.

[2] Ivi, pp. 65-66.

[3] Manfred H. Teupen, L’uomo che non c’era. Osservazioni in merito alla condanna all’ergastolo di Alfred Störk, in Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia e la 1ª divisione da montagna tedesca, prefazione di Giorgio Rochat, a cura di Manfred H. Teupen, Gaspari Editore, Udine 2014, pp. 471-482. Il libro è una versione ridotta di Blutiges Edelweiß. Die 1. Gebirgs-Division im Zweiten Weltkrieg, Ch. Links Verlag, Berlino 2008.

[4] Tribunale militare di La Spezia, 10 ottobre 2006, dep. 2 febbraio 2007 n. 49, imputati Böttcher e Milde, p. 13.

[5] https://www.lanazione.it/massa-carrara/cronaca/il-console-tedesco-ricorda-i-morti-della-strage-nazista-1.4608471.

[6] https://www.youtube.com/watch?v=xg3ySLlbGh4&feature=youtu.be.

[7] Françoise Sironi, Persecutori e vittime. Strategie di violenza, Feltrinelli, Milano 2001, p. 76.

[8] Marco Valerio Marziale, Epigrammi, Einaudi, Torino 1979, traduzione di Guido Ceronetti, XIV, 176, Persona Germana.

[9] Benedetto Croce, Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Gius. Laterza & figli, Bari 1944.

[10] https://www.youtube.com/watch?v=OLpWaicALjg.