di Luca Baiada
Valentina Baronti, La fabbrica dei sogni, Alegre, Roma 2024, pp. 144, euro 12,35, ebook euro 6,99.
Apri e sei a casa. Nella prima pagina c’è una cucina, con un tavolo e un mettitutto. Una volta c’era la madia, ne parlano anche le favole. Adesso ci sono le cucine su misura, prima c’erano i pensili avvitati al muro e prima il mettitutto: un mobile con cassetti, sportelli, un vuoto col ripiano (sì, anche a casa mia c’è un mettitutto). Certi mobili sono tenaci come il letto di Odisseo. In un romanzo di Jack London, La Valle della Luna, una donna ha in eredità dalla madre un cassettone forato da una pallottola indiana, e in un momento forte della storia bacia il foro. La Valle della luna e Il tallone di ferro erano fra le letture della Resistenza, ma adesso sono fuori moda; e pensare che in un racconto di Vasco Pratolini, fra partigiani che parlano di libri, uno fa: «Il tallone di ferro è la Divina Commedia, e che scherziamo?».
Pane, vino e zucchero, in questo libro: il ricordo dei sapori, degli odori. La vita contadina prima dell’industrializzazione. Pane, vino e zucchero è una madeleine dei poveri, come l’odore delle stanze abbandonate, dei fazzoletti piegati nei cassetti, delle lenzuola. Ai partiti della sinistra novecentesca, però, non piaceva l’introspezione. Realismo, ci vuole. Che poi, è un modo per dire che l’anima ce l’hanno solo i padroni e che i proletari hanno i muscoli. Al padrone piace, questo proletario senza l’anima. Ma solo coi muscoli, si progetta poco.
Una delle cose più forti, nell’esperienza della Gkn, è il programma di reindustrializzazione dal basso. Agata se ne accorge. Viene dal mondo contadino, dal campo, però è figlia di operaio e fa l’impiegata; Agata capisce che la salvezza della Gkn è nella modernità. La tecnologia non si ferma, l’idea di piccole patrie arcaiche è assurda e se fosse vera sarebbe autarchia e fascismo. Agata si apre alla vita dopo le manifestazioni, gli scioperi, la vertenza in tribunale, e soprattutto con la fase dei contatti allargati, della socialità diffusa: giuristi, ingegneri, economisti, e poi associazioni e studenti. Un mondo ha pugnalato la Gkn; quindi gli operai, la cittadinanza, il lavoro intellettuale vogliono cambiare quel mondo. Lei si tuffa nella lotta e s’innamora: «Un altro mondo possibile. Non uno slogan utopico, ma realtà cruda, fatta di pelle, sudore, sangue, nervi, orgoglio, storia, visione». E intelligenza, perché stare dalla parte del popolo vuol dire organizzazione.
Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto. Come in amore. Quello di Agata e Lorenzo è alla Gkn. Lorenzo viene dal Sud ed è andato al Nord. La fabbrica dei sogni non lo dice subito, ma quel Nord è Firenze, perché c’è sempre un altro Nord sopra un Sud, e oggi si dice Nord globale e Sud globale, aree senza più neanche confini fisici. E qui ci sono altre prospettive: incrociate, sovrapposte, cioè reali e irrisolte. A Firenze, prima della Gkn, Lorenzo lavora in una fabbrica di borse, nella stanza delle donne. Si accorge che il padrone mette le mani addosso alle operaie, ma anche che la moglie fa finta di niente perché la ditta rende e il marito la porta in vacanza. È un’altra violenza, di genere, ma resta classista.
Sul rapporto fra economia e ambiente la battaglia della Gkn vuole spezzare i pregiudizi. Per questo, dopo una manifestazione Agata sente un vento «fresco come la rabbia giovane, forte come la lotta operaia». La devastazione del territorio va insieme alla distruzione del lavoro, ma dopo che l’individualismo portato dall’ordine borghese ha tolto ai lavoratori i punti di riferimento, li ha resi soli anche nel privato. Adesso sappiamo, però, che per la difesa dell’ambiente c’è chi si ribella. Li accusano di colpire i beni culturali, ma invece colpiscono le loro immagini: gettano colori innocui o sudiciume, ma non sulle opere d’arte, sui vetri che le proteggono. Un mese fa, per esempio, al Louvre hanno versato zuppa sul vetro della Gioconda, e subito il personale di sorveglianza ha isolato tutta l’area con pannelli scuri: l’importante è nascondere, abbuiare l’immagine. Una curiosa simmetria. Colpiscono l’immagine, non i beni. Gli speculatori, invece, svuotano i beni per appropriarsi del valore d’immagine, per mettere le mani su apparenze o rendite di posizione. Così uno stabilimento può diventare sede di tutt’altro, essere stravolto da una ristrutturazione, mutare in location.
L’immagine, certo, ma come? Il libro non si rifiuta di guardare, anzi. Ha una presa quasi cinematografica e si potrebbe farne un girato, magari con un montaggio sincopato, espressionista. La finestra apre sui campi, si vedono cose a occhi chiusi, dalla fabbrica si vedono il centro commerciale, il cinema eccetera. Agata e Lorenzo quando si incrociano si vedono e non si vedono, ma è lui che la accompagna a guardare dentro la fabbrica; gli sguardi dicono i desideri e li nascondono. È lui, a guardare Firenze dalla torre di San Niccolò, coi compagni lassù. Ed è lei, guardandosi nelle vetrate della Gkn, a vedersi bella perché ha fatto l’impensabile: ha parlato in assemblea, che è proprio il momento in cui tutti ti guardano, e se hai qualche problema a esporti, c’è da morire. Come c’è da tremare, a rivolgersi a Lorenzo per parlargli. Guardare una città, guardarsi, guardare dritto chi si ama, essere guardati. Col rovescio oscuro: la città vetrina, Firenze turistificio, la donna oggetto, la donna guardata male o ignorata se non corrisponde al canone estetico.
E sotto lo sguardo? Sotto c’è la pancia. A Lorenzo, quando lavora in mezzo alle donne, arrivano in pancia le risate delle ragazze. Agata crede di avere troppa pancia. Lorenzo da bambino ha preso un pugno in pancia, da grande il licenziamento è un colpo alla pancia. Qualcosa di profondamente fisico. Fa pensare al nesso evidente fra comportamento alimentare e rapporti sociali: l’oppressione produce alienazione e frustrazione direttamente sui corpi. Forse anche quel detto attribuito a Maria Antonietta – il popolo non ha pane, che mangi brioche – , vero o falso, ha sottotesti da decifrare, a proposito di carnalità nelle relazioni di potere. In Toscana si dice «corpo pieno non crede al digiuno». Insomma, la questione del cibo ci parla direttamente – alla pancia, direi – ed è una tappa obbligata della socialità. E Agata coglie presto una grossa vittoria, alla Gkn, proprio a tavola: riesce a mangiare davanti a lui, mentre di solito voleva mangiare sola.
La narrazione spariglia i capitoli con scritti in seconda persona e con «sogni». Non ci credo, però, che siano sogni. A meno che l’autrice scriva quando dorme; e non dico di più per non sciupare la lettura, che altrimenti non fa pro. Invece propongo una riflessione. Nel secondo Novecento c’erano intellettuali che si chiedevano fra loro: come giustifichi la tua latitanza dalla fabbrica? La domanda adesso ha senso soltanto se alla fabbrica si aggiungono l’allevamento intensivo, l’ufficio, il motorino dei fattorini schiavi dell’algoritmo eccetera. Però sarebbe troppo prevedibile chiedersi come si pone, chi fa narrativa, rispetto alla produzione: nel mondo iperconnesso siamo tutti latitanti e tutti troppo presenti.
La forma narrativa incuriosisce, si presta a implicazioni. La Gkn è una struttura produttiva e può svegliare gli appetiti degli speculatori, specialmente immobiliari. Si sente una somiglianza con gli usi predatori della cultura. Una certa narrativa in circolazione, in Italia, è fatta di scheletri di qualcosa, ossami di morto riconvertiti in centri commerciali, dove ognuno ha la sua vetrina, si mette in posa e dà in cambio l’anima. La fabbrica dei sogni fa il contrario: con una storia d’amore inseparabile dal lavoro, Agata l’anima se la riprende. In più è messa in chiaro una parte del lavoro di scrittura, come se si permettesse a chi legge di cercare qualcosa sul tavolo di chi scrive.
Per la Gkn ha importanza il rapporto con le persone del luogo, con la storia locale, col tessuto umano profondo. È un caso, che questa lotta sia in Toscana? Il dubbio è un terreno minato. Qualsiasi prodotto, basta scriverci sopra «Toscana» e vende di più. La Toscana è stata un perno della civiltà ma sta diventando tristemente un marchio caricaturale. La Toscana fu in prima fila nel fascismo e nell’antifascismo. Toscani furono Michele Della Maggiora, primo fucilato dal tribunale speciale fascista, ed eroi antifascisti assassinati dallo squadrismo, come Spartaco Lavagnini; ma anche il più fanatico dei fascisti giustiziati a Dongo, Alessandro Pavolini, fu toscano, come la sua amante Doris Duranti, diva del regime. Toscani furono il vescovo fascista di San Miniato, Ugo Giubbi, e il priore di Barbiana Lorenzo Milani, che in questo libro si affaccia, e sia benvenuto. Insomma, dico il territorio, che poi non vuol dire nulla; meglio, dico le persone, lo spiritaccio, come quello della nonna di Agata, che ride anche da morta.
Qualcosa mi riguarda. Per dare corpo a una produzione che sia al servizio della società ci vogliono anche i giuristi, e io sono un giurista. Ora, giuristi che si opposero al fascismo ce ne furono, con casi eroici come Giacomo Matteotti. Fra loro c’è Silvio Trentin: è talmente bravo che fa l’assistente universitario già prima della laurea; si sposa, ha davanti un carrierone e una vita comoda; arriva il fascismo: lui lascia la carriera e va all’estero con la giovane famiglia, a fare il contadino e il manovale. Lieto fine?
Cammina, cammina e càmmina… – come si dice fra i toschi – arriviamo al 1992: uno dei figli di Trentin, nato nell’esilio, che si chiama Bruno ed è giurista anche lui, firma gli «accordi di luglio», pietra miliare della disfatta del salario, cominciata molti anni prima. È la rivincita del capitale. Il babbo di Agata dà le dimissioni dalla Cgil e scrive proprio a Bruno Trentin: «Cancellare la scala mobile significa consegnarci di nuovo alla povertà, al ricatto dello stipendio che non basta mai, significa dover dire ai miei figli che tutto quello che ho insegnato loro non esiste più». Allora. Più la produzione è condizionata dalla tecnologia, più ci vogliono regole; ma vatti a fidare di chi quelle regole le scrive, le cambia, le applica, le invoca.
La Gkn ha bisogno dei giuristi, ma il punto resta: cos’hanno da dire gli scrittori a proposito del lavoro intellettuale applicato, quando chi lavora in fabbrica, negli uffici, nella logistica ha bisogno di contratti, organizzazione, garanzie. Il libro non è sui giuristi, ma nessuno è estraneo a questa storia. E poi, via: se la Repubblica è fondata sul lavoro, è sul lavoro che tutti devono misurarsi. A volte il confronto funziona proprio nelle realtà più vivaci ed esposte: a Roma, dieci anni fa, il Teatro Valle occupato è stato un laboratorio, oltre che di spettacolo e politica, anche di diritto, specialmente sui beni comuni. E anche lì si sono incrociate vite, esperienze. Che si fa?
Come si legge in questa storia d’amore e di molto altro, stavolta c’è di mezzo una fabbrica che «illumina la vita e crea speranza».