di Luca Baiada
Amore «alla Cortis» fu un modo di dire legato a Daniele Cortis, romanzo di Antonio Fogazzaro del 1885: passione senza fine, struggente, nutrita di estetismo e religione, vuota di intimità fisica. Ma se vale la pena ripercorrere quest’opera non è solo per un profumo di Belle Époque.
Nel tempo di ambientazione, gli anni 1881-1882, l’unità d’Italia è recente; i protagonisti del Risorgimento, se non sono morti, sono al potere oppure languono appartati; o ancora sono diventati monumenti; l’Italia è umbertina, quasi coloniale. La questione amorosa si intreccia a quella politica con caratteristiche uniche. Viene da pensare, su altre misure, a Le confessioni di un figlio del secolo di Alfred de Musset, quando osserva che un’intera generazione, fra il Terrore e il Congresso di Vienna, si era formata con promesse che la storia non avrebbe mantenuto. Ma siamo nel Bel Paese: nel Veneto e a Roma, da poco capitale, con un affaccio in Sicilia.
Daniele Cortis, orfano sin da piccolo della madre Fiamma (il nome non mette in allarme?), e adesso anche del padre, ama riamato sua cugina Elena, sposata a un siciliano vizioso. Il romanzo deve entrare nei salotti: il marito indegno è dedito al gioco; nei suoi rientri mattutini si deve sentire il fruscìo delle carte, non quello della biancheria.
Perché Daniele ed Elena non si sono sposati? Si amano da sempre. Cose che succedono, anche nell’Ottocento. E non solo nei romanzi: Carlo Pisacane ed Enrichetta si amano sin da bambini; il matrimonio che impegna Enrichetta potrà essere davvero superato solo con la Rivoluzione del 1848. Cose troppo trasgressive, per un romanzo di Fogazzaro. Elena è fedele al marito, anzi è imbalsamata nella virtù.
Nell’antefatto dell’amore incompiuto c’è un aspetto della sostanza profonda. Daniele è un rigido, un passionale intransigente, un inquieto per motivi che neanche lui sa dire; Elena non si sente all’altezza, lo adora e seppellisce il desiderio in una sconfinata dedizione. C’è già un segno politico e sa di delusione: l’unità d’Italia esiste solo da una generazione, la presa di Roma è ancora più recente, ma già corre un senso di inadeguatezza, di prosa burocratica e di polvere. Come in un matrimonio lungamente cercato – e la metafora dell’unione fra popolo e patria è parte del nazionalismo – , infine celebrato, poi vissuto all’ombra del demone meridiano, i temperamenti inquieti si interrogano sulla felicità, quelli ottusi fanno i conti col lapis sull’orecchio, a pancia piena e con la mente alle lenzuola.
Cortis ha ambizioni per l’Italia, non per se stesso, e si candida alla Camera con una campagna elettorale che sembra un corpo a corpo. Ci sono dentro rabbia, nazionalismo, vago impegno sociale. Il candidato ai suoi elettori:
«Loro mi appoggiano perché le mie aderenze personali sono moderate, e perché, sinora, la mia scarsa azione pubblica non ha potuto autorizzare alcuno a credermi amico del Ministero che la Provvidenza ha sputato sull’Italia. […] Santo Dio, questa Italia, che non abbia più niente da insegnare al mondo? La Provvidenza l’avrà risuscitata dai morti per fare della cattiva democrazia e della cattiva letteratura che si freghino insieme?».
Irruento, Daniele, per i benpensanti veneti. Nel suo sdegno risuona l’Italia «terra di morti», un modo di dire che sunteggiava il Lamartine di Le dernier chant du pèlerinage d’Harold, in cui si leggevano i versi: «Je vais chercher ailleurs (pardonne, ombre romaine!) / Des hommes, et non pas de la poussière humaine!». Anche queste critiche, come i matrimoni, possono prendere pieghe differenti: Giuseppe Giusti aveva scritto La terra dei morti; fra Lamartine e Guglielmo Pepe c’era stato un duello.
L’Italia è stata unificata, ma con la Chiesa – tranne durante parte del pontificato di Pio IX – decisamente contraria. C’è ancora il non expedit sulla partecipazione alla vita politica. Eppure gli italiani sono profondamente cattolici; le minoranze religiose esprimono persone di rilievo, ma restano esigue. Dalla fine del Settecento il cattolicesimo è attraversato da fermenti etici e culturali – oggi cose da libri. La religione scandisce la vita, il tempo e, nel profondo, i sentimenti. L’amore passa attraverso la ritualità cattolica, nelle regole (dottrina, matrimonio in chiesa, sensualità riproduttiva) come nelle trasgressioni (dottrina, peccato carnale, dissolutezza, confessione, penitenza).
Alla vita politica ufficiale partecipano maschi, quasi tutti battezzati, spesso credenti, ma che devono mantenere una certa distanza, se non dal cattolicesimo, dalle sue gerarchie. Le loro madri, sorelle, mogli, figlie e amanti praticano la religione senza altrettante lacerazioni, e anzi sono investite di una tacita delega. Questo condiziona la vita intima e domestica, pesando sulle generazioni successive. In un contesto così, freme la coscienza di Cortis:
«Il mio ideale politico non sarà mai l’ideale politico del partito che vorrebbe subordinare gli interessi dello Stato a un’autorità, sia pur grande, sia pur legittima, ma fondata sovr’altra base, con altri mezzi, per altro fine. Io posso desiderare, per un concetto di equilibrio politico e per un patriottico voto di pacificazione interna, che questo partito accetti onestamente l’attuale ordine di cose, ed entri utile e rispettabile nella Camera; ma se io avrò in quel tempo l’onore di sedervi, non militerò mai con esso… fino a che, almeno, trasformatosi di partito essenzialmente religioso in partito essenzialmente civile, non modifichi profondamente le proprie vedute sui diritti e le funzioni dello Stato».
È aperta la questione del suffragio; le elezioni strettamente censitarie sono impresentabili, ma il suffragio universale maschile del 1912 è ancora lontano. Eppure qualcosa si muove e per Cortis il senso è, ancora una volta, religioso:
«Io credo che vi è in questo fermento democratico qualche lievito rubato al cristianesimo; io vedo nel mio pensiero un luminoso e possibile ideale di democrazia cristiana, molto diverso da quel dispotismo di maggioranze egoiste, avide di godimento, che minaccia le libertà moderne».
Avversione alla lotta di classe, al materialismo e al socialismo. La democrazia cristiana nasce come partito nel 1943, ma qui, come concetto, c’è già. Insieme c’è una dura rampogna contro il modo in cui è retta la Chiesa (una critica che non agiterà la Dc né nel 1943 né dopo). È fresca, del resto, la memoria di questioni come quella su Antonio Rosmini e sul suo Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Cortis è credente e risorgimentale:
«Nessun principato, nessuna repubblica scioglierà mai i problemi sociali dell’avvenire, senza la cooperazione del sentimento religioso; il quale non potrà esser dato in Italia che dalla Chiesa cattolica. […] Pur troppo, signori, la Curia di Roma e gran parte del clero cattolico hanno mostrato una così cieca avversione al nostro movimento nazionale, un tale funesto apprezzamento dei beni terreni che quando si parla in Italia di favorire il cattolicismo è facile di sentirsi rispondere come fu risposto in Africa a quel missionario che parlava di Dio onnipotente: E se ci mangia?».
L’accostamento del potere ecclesiastico al colonialismo interno è durissimo. Comunque, neanche nel Ventunesimo secolo il problema dei beni terreni ha avuto soluzione, e lo sa chi ha provato a far pagare le tasse al clero.
In questo quadro, per Cortis c’è una dura prova. La madre, creduta morta e ricordata sin da bambino pregando insieme al padre, è viva. Fiamma Cortis cadde, peccò, fu adultera. Lui era molto piccolo, lei fu scacciata. La grave mancanza fu commessa proprio con l’uomo che poi avrebbe sposato Elena. Il gaudente diventa un doppio rivale: quanto alla madre, ha dalla sua il tempo trascorso; quanto a Elena, l’indissolubilità del matrimonio.
Nel primo incontro di Cortis con sua madre si nasconde un altro doppio. Lei si finge un’amica di Fiamma, un’artista; lui fiuta il vizio: «Quella pittrice del granduca Leopoldo, che repulsiva figura! Che profumeria di menzogna, in quella casa, e che nascosto puzzo!». Vaga nel buio parlando da solo, poi:
Quella notte, nei brevi momenti in cui poté prender sonno, sognò ch’Elena gli conduceva sua madre per mano e gli diceva: «Confortala». Sua madre era piccina, bionda, aveva gli occhi celesti e non parlava. Non faceva che piangere.
Ecco un nuovo doppio, ecco il dubbio e l’amata-madre. L’inaffidabilità della donna non è solo un’offesa al suo uomo: a pagarla è il figlio maschio. Sotto traccia c’è altro: se la nazione tradisce le sue promesse, le generazioni successive pagano il conto. In più, in ogni donna può abitare l’inganno; la fedeltà è il pilastro della famiglia e dell’impegno sociale. Ma per Cortis, insieme, si affacciano la tenerezza e una gratitudine indicibile per aver ricevuto la vita. Il suo sogno, insomma, è denso. Vengono in mente gli scritti di Pier Paolo Pasolini in cui, appunto, sua madre è vista come bambina.
Altro che pittrice: Daniele smaschera Fiamma. Ma è un riconoscimento obliquo come le somiglianze perturbanti. Forse la dirittura di Cortis è il prosieguo, il contraccolpo della frivolezza materna; cioè, Daniele sapeva anche quando non sapeva. Forse è la sindrome dell’ometto, l’amara crescita precoce che affligge i figli di donne instabili e li segna:
Cortis credette riconoscere sua madre in quel momento, meglio che per le carte del portafogli, meglio che per una improvvisa memoria degli occhi noti alla sua infanzia. Pensò che nei loro nervi vi era un po’ dello stesso elettrico, benché forse sua madre adoperasse il proprio per esperimenti da scena, e lui per il lampo ed il fulmine.
Il sogno denso si rivela premonitore. Davvero, Elena spingerà Cortis ad accettare sua madre, dicendogli:
«È proprio lei che mi fa pena; ti trovo troppo severo, ti temo ingiusto! Hai trovato una donna corrotta; ma non è anche una donna infelice? E quanta parte avranno avuta nelle sue colpe la natura, gli uomini, le cose? Permettile di venire a Roma, di parlarti qualche volta, di vederti, almeno; almeno di vivere nello stesso paese, di saper che se muore puoi esser lì al suo letto in un attimo a udir le sue ultime parole».
La verità in punto di morte è prevedibile, in un romanzo ottocentesco; ma non è questo il punto. Elena ama Daniele e l’amore non vuole morire: ti temo ingiusto, cioè con me. Eterna domanda, in ogni amore: cosa faresti se…? Elena che pensa alla morte di Fiamma si sente al suo posto. Forse le parole che immagina, mormorate nel letto, vicino a lui, sono quelle non dell’agonia ma di qualcosa che dolcemente le assomiglia: le parole dell’estremo piacere, che nell’Ottocento educato in francese – anche Daniele ed Elena lo parlano – si scioglie nella petite mort.
Immerso nella questione familiare e nell’amore negato, Cortis soffre la politica e la passione:
Sentiva una tormentosa inquietudine, un fastidio mortale di sé, della politica, dei nemici abbietti, degli amici stupidi, della collera mostrata a quelli, della tolleranza usata con questi. Sì, l’Italia! Ma già se non riusciva oggi, sarebbe riuscito domani. Era il suo destino e anche il suo proposito; ma pure, un giorno d’amore! Dimenticar tutto tutto per un giorno solo, disprezzare il mondo ed unirsi, lei, la più bella, egli, il più forte! Fantasmi di felicità intensa gli attraversavano la mente. Dalla strada che, correndo diritta fra i platani sull’orlo di un immenso piano, cavalca di tratto in tratto le limpide acque dell’alpe imminente, gli occhi di Cortis risalivano avidi le correnti, cercavan le macchie adombrate dagli scuri nuvoloni assisi sulla fronte della montagna. Si vedeva là con Elena in una casa perduta fra i silenzi deserti.
Una lettera a Elena, è il 30 giugno 1881. La candidatura di Daniele è in forse, lui scrive dal giardino:
«Ho colto stasera una rosa presso alla porta del tuo studio. La sua delicata bellezza, recisa e posata qui sopra un barbaro volume di Hansard, muore con una gravità mesta che ricorda te in certi momenti. Pensai, guardando il tuo studio, al tempo passato e a quello che avrebbe potuto essere. Noi vivremmo fra le rose, Elena. È mai questa la sorte di anime come le nostre? […] Se la santa inquisizione vedesse le mie lettere, non vi troverebbe che riprendere; non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver dette a questa rosa moribonda, la quale non le ripeterà. Dunque, rispondi!».
L’Hansard è il resoconto delle sedute del parlamento britannico: uno strumento politico. Fra la rosa e il volume, è facile indovinare cosa tocca il cuore di lei:
Il suo proposito era stato d’irritarlo, di far sì che non le avesse a scrivere, almeno per un gran pezzo. Nella lontananza, nel silenzio c’era da sperare, non per sé ma per lui. Trasalì, vedendosi fallito il disegno, di una gioia invincibile; e non sapeva ella stessa, nell’aprir la lettera, se avesse paura o desiderio di parole appassionate. La divorò, prima, da capo a fondo, correndo via sulle poche espressioni d’affetto come se bruciassero; specialmente su queste: «Non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver dette a questa rosa moribonda, la quale non le ripeterà».
Già: paura o desiderio? Chi non avesse mai amato, non potrebbe capire. E chi non ha trepidato sulle parole di una pergamena, di un foglio, di uno schermo non ha amato. Ma ancora prevale la virtù, accompagnata da un compiacimento, da una mistica della negazione. Elena riflette:
Egli era solo al mondo e lo aspettavano, sulla via prescelta, fatiche, angosce, ferite; come non avrebbe una famiglia per suo riposo e conforto? Bisognava farsi dimenticare. Pensò al piccolo prato presso gli abeti, dove era sceso Cortis, pensò al colchico d’autunno, al vago fiore dal succo mortale che aveva voluto ostinatamente per sé; sorrise e pianse.
C’è bisogno di dire che la letteratura li avvicina? Anche per Paolo e Francesca è così. Qui sono galeotti Shakespeare, Il mercante di Venezia, e Memorie dell’oltretomba di Chateaubriand. Insieme c’è lo scriversi. E con lo scriversi c’è il suo contrario, il suo accompagnamento naturale: il silenzio. Ecco il tormento di scrivere o non scrivere, croce e delizia di tutti i cuori innamorati, quelli col calamaio, la biro, i telefoni digitali. È online, perché non scrive? cosa faccio? se non risponde… allora? faccio finta di sapere che ha letto i miei messaggi? dico che se non risponde lo fa apposta?
Per Elena è un gioco di specchi: «Oh Signore, e non mandargli neppur una parola! Cosa penserebbe mai di un silenzio simile? Certo che ne indovinerebbe la causa vera; non sarebbe peggio? Ci voleva una riga, una parola; e allora bisognava rispondere alle sue molto freddamente, molto duramente, per allontanarlo!». Per gli amanti le pause sono piene, i silenzi gridano, le parole si dilatano:
«Che lettere ci siamo scritte!» disse Cortis, tornando a sedere presso sua cugina. «Pare impossibile!»
«Perché impossibile?»
«Mi domandi?»
Elena abbassò gli occhi, disse timida e grave:
«Io non voleva che tu mi amassi».
«Perché non volevi?»
«Lo sai, perché credevo che non potessi essere felice, così».
Eletto alla Camera, Cortis prepara un intervento risolutivo. Ha la parola, ma le cose vanno diversamente:
«Prima di uscire da questo recinto forse per sempre…» Nel dire forse per sempre la voce parve mancargli, la lingua intorpidirglisi. Pronunciò ancora poche parole inintelligibili e sarebbe stramazzato sul banco se i colleghi non fossero accorsi a sorreggerlo.
Il discorso eroico naufraga in un disastro: ancora una felicità impossibile. Cortis sviene. Un’altra petite mort.
Anche nel modo in cui i due sentono la nuova capitale ci sono legami fra l’estetismo, la mistica della rinuncia e un senso storico-politico. Cortis entra di notte nel Colosseo:
Il silenzio desolato, le immense rovine cineree e nere gli davan l’idea di un cratere spento della luna, fra quelle montagne morte, al crepuscolo. E tornavano, con questo triste sogno, il viso, la voce d’Elena. Ella era dunque in un altro pianeta? Proprio in eterno non sarebbe stata sua? Il cuore si mise a battere, a battere. Si strinse con le mani il petto, temendo uno sfacelo di sé. Dio, Dio, cos’era questa prostrazione dello spirito, cos’era quest’onda che gli veniva su su su alla gola, al viso, così dolce, così amara, così forte? Lui, Cortis, piangere?
Elena visita la chiesa dei Cappuccini e combatte col suo stato d’animo: «A Roma ella era spesso assalita da questi miasmi di scetticismo desolato; li sentiva nelle sparse rovine di una fede morta, nel fasto invecchiato di un’altra fede inferma, nella campagna che le cinge entrambe di silenzio e di solitudine». Lui nel luogo più pagano: l’anfiteatro del sangue. Lei nella chiesa più macabra, custode di teschi e di ossa. Eppure, quanto al credere, le posizioni si invertono:
«Non ho fede, non ho fede, non ho fede!» Ella pronunziò in fretta con voce accorata queste ultime parole, celandosi il viso fra le mani e crollando il capo. «È una sventura» diss’egli. «Io vado poco in chiesa; mi occupo più del mio paese che dell’anima mia; ma il mio cuore sente Dio profondamente e spero ch’egli non sia in collera con me».
La contraddizione è apparente. A saldare le due posizioni sono proprio la fede incrinata e la donna inaccessibile. Siamo in Italia. La religione di un popolo che ha dovuto combattere contro il vicario del Cristo per compiere il suo riscatto nazionale serba qualcosa di malato, e l’amore ne pagherà le spese, insieme alle conseguenze di un’unificazione che non ha mantenuto le promesse. Due generazioni dopo, l’autostima perversa del fascismo e il perdente Concordato del 1929 saranno anche nipoti di questo complesso collettivo irrisolto. I figli della lupa saranno il sunto luttuoso di un nutrimento avvelenato: allattati nella ferocia impareranno il fratricidio. La mistica mortuaria delle camicie nere sarà la penitenza per la gioia di quelle rosse.
Il contatto fisico va poco oltre le mani. C’è un unico bacio, sulle sponde di un fiume, quando si rivelano di conoscere entrambi l’adulterio di Fiamma. Daniele ed Elena sapevano, non dicevano. Succede per le cose più importanti, fra chi si ama:
Ella si fece grave, cinse d’un braccio il capo di lui, lo piegò a sé, sfiorò, con le proprie labbra, le sue. Fu un suggello di silenzio. Ella gli prese una mano, se la tenne in grembo, l’accarezzò guardandolo, cercando il suo sguardo. Ma lui taceva, smorto, fitti gli occhi nella corrente ombrosa a’ suoi piedi.
Il bacio, suggello, è per tacere. Un bacio per dividersi. In quelle labbra che si toccano ci sono il trauma, la privazione affettiva, il titanismo della vittima e le piaghe della sua ancella. Cristo alla Cena di Betania. Un altro volto del fiore velenoso.
Daniele ed Elena si dicono addio nell’aprile 1882. Garibaldi sta per spegnersi; molti garibaldini sono già uomini d’ordine; clericali e massoni si fronteggiano. Lui intravede il suo avvenire:
Lotte con la penna, lotte con la parola, nella stampa, nella Camera, nelle riunioni, per le sue idee di governo, contro la indifferenza pubblica; prime vittorie, ossia abbandono di amici, sarcasmo di sedicenti liberali, villanie di sedicenti cattolici; pertinacia indomita, favore di Dio nel suo spirito, negli eventi; paurose crisi, giorni d’angoscia, improvvise chiome, nel suo pugno, della fortuna, giorni di potenza; una grande via aperta al rinnovamento sociale in senso cristiano e democratico, e su questa via, avanti a tutti, l’Italia.
Cortis diventa un sacerdote della politica. Elena svanisce come la madre di Daniele bambino, ma senza colpa; come la madre un tempo, sarà adorata invisibile. Elena è un’altra Fiamma, arde nell’assenza: il rogo unisce strega e martire.
A questo punto devo dar conto di una mia idea, di una tentazione. Sento l’ombra di un finale diverso. La trama suggerisce una possibilità che salva l’amore, ma a prezzo di uno scarto in nero. Per quel pubblico di Fogazzaro, impraticabile. Ecco le mie pagine immaginarie.
Fiamma a suo modo vuol bene al figlio: per riscattarsi dal peccato vorrebbe donargli la donna che ama. Allo stesso tempo odia il marito di Elena per essere stata sedotta e abbandonata. Si potrebbe scrivere a lungo su queste lacerazioni, sui dubbi, sui progetti.
Infine, Fiamma uccide il vizioso siciliano. Elena è libera. Fiamma è ancora più colpevole, è adultera e assassina, ma l’esito ne fa un’eroina scura benefica, un Cristo femmina che riscatta il male, che prende la croce ma spezza le catene. Si può immaginare il processo, con varianti. Daniele, in udienza, mentendo confessa di aver ideato il delitto; ma sua madre è così ferma – davanti ai giudici può diventare una Giuditta con in mano la testa di Oloferne – che credono a lei.
Adesso la donna amata scalza la madre, i fantasmi si dissolvono. In politica Cortis non ne risente: è il figlio di un’assassina, ma è un uomo che ha cercato di salvare sua madre assumendosi una colpa non sua. Anche lui è libero: la sua felicità non è più colpevole, sull’impegno sociale non grava più l’ombra del tradimento. Daniele ed Elena sono due innocenti, rinati nel sangue versato per loro, non da loro. I tramonti sono albe, le rovine sono progetti, i fiori non sono più velenosi.
E non c’è solo un bacio a fior di labbra.