di Pietro Garbarino
Ci fu un tempo in cui l’Italia visse sotto l’incubo di attentati sanguinosi a banche, ferrovie e luoghi pubblici in generale.
Li possiamo ricordare ancora tutti: Piazza Fontana (1967), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza Loggia di Brescia e Italicus (1974), e altri episodi, precedenti e successivi, che non sono rimasti nella memoria storica, ma sono purtroppo avvenuti.
Ma in quegli anni avvenne anche altro; la bomba di Milano aveva lo scopo di fare proclamare la legge marziale, o comunque leggi di emergenza che avrebbero limitato le libertà democratiche e neutralizzato il Parlamento, come supremo organo elettivo e democratico dello Stato. Cosa che non avvenne perché le istituzioni reagirono e perché i cittadini avevano capito cosa stava bollendo in certe pentole.
Ma nel Dicembre 1970 ci si riprovò, con un colpo di stato tentato dal nostalgico fascista Junio Valerio Borghese, che fece male i conti delle proprie forze, ma che si diede poi alla fuga senza pentirsene mai.
Nel 1973 ci riprovarono, assieme, esponenti delle forze armate, politici provenienti anche da partiti dell’arco costituzionale (antifascista) ma schierati a destra in nome dell’anticomunismo, ex partigiani bianchi sempre rimasti ferocemente anticomunisti e, come sempre, insieme a loro, fascisti e neofascisti, in parte contrapposti del MSI-D.N., ma anche appartenenti a gruppi oltranzisti come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Anche questa volta andò per loro male, ma il seme era ormai gettato.
Cosa volevano costoro?
1) Togliere ogni potere a partiti (quelli veramente antifascisti) e sindacati.
2) Ridimensionare il ruolo del Parlamento come principale espressione dell’ordinamento democratico e della rappresentatività popolare.
3) Imbavagliare la stampa libera.
4) Ridimensionare il potere della magistratura, assoggettandola al potere politico.
5) Fare modificare la natura dello stato da parlamentare a presidenziale.
6) Affidare il potere esecutivo (cioè quello politico) al Presidente della Repubblica. Cioè,ad un uomo solo al comando.
In pratica, pur con qualche diversa forma e modalità, si trattava di ripristinare i tratti salienti dello stato fascista.
Ma proprio per evitare ciò i Padri Costituenti avevano pensato, e realizzato, una Costituzione che negava, e nega, ogni carattere dello stato fascista; e proprio per tale motivo i nostalgici, reazionari e neofascisti volevano e tutt’ora vogliono abbattere quei principi e quegli istituti, che impediscono loro di restaurare lo stato autoritario di Mussolini e C.
Non a caso, il fascista Almirante definì la Repubblica risorta dalla Resistenza dalle dittature come “repubblica bastarda”, avendo egli in testa solo i principi demagogici, autoritari e servili della Repubblica di Stato, stato fantoccio al servizio dello stato hitleriano e nazista.
Ma le lotte operaio e studentesche di quegli anni, in primo luogo ispirate dall’antifascismo e tendenti all’allargamento degli spazi della democrazia, condizionarono un ceto politico, già tentennante e in declino culturale e ideale, e fecero si che lo stato democratico reggesse.
Tutto ciò peraltro non scoraggiò alcuni potenti sostenitori della trasformazione in senso autoritario dello Stato, tanto è vero che il massone eversore Licio Gelli ebbe modo di riformulare in modo organico il programma dei bombaroli e golpisti degli anni ’70 dello scorso secolo, inserendolo nel “programma di rinascita democratica”.
I cui temi fondamentali di tale programma eversivo vennero poi fatti in parte propri non solo dalle potenti cosche mafiose di Calabria e Sicilia (molti membri delle cupole di comando di quelle organizzazioni criminali erano anche adepti di logge massoniche), ma vennero recepite nei programmi di governo delle forze della nuova destra, che furono riunite, unificate, legittimate e perfino foraggiate, dall’entrata in politica di Silvio Berlusconi.
Questi, sfruttando la notorietà che gli fruttavano inopportune e fuorvianti compagnie di stampa sulla sua vita privata, fece passare ad uno ad uno quasi tutti gli obiettivi del “programma di rinascita democratica” formulato dalla massoneria capitanata da Gelli, e tentò perfino la carta della modificazione costituzionale in senso antiparlamentare e per il rafforzamento dell’esecutivo (leggi, Governo), senza però riuscirvi perché ancora una volta prevalse tra i cittadini il punto di vista democratico e costituzionale.
Ma, dopo il tramonto politico di Berlusconi, il paese non fu più comunque quello che aveva, negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo, sconfitto le bombe fasciste, i tentativi di golpe e il terrorismo di ogni specie e provenienza.
E ciò perché Berlusconi legittimò la destra di origine fascista e minò l’unità antifascista dei partiti che avevano partecipato alla Resistenza, rompendo il cosiddetto “arco costituzionale”.
E da allora, sulla scena politica nazionale, ebbero ingresso quelle proposte e pulsioni che l’Assemblea Costituzionale aveva isolato, negato e definitivamente archiviato, nella consapevolezza che lo stato democratico si dovesse fondare sulla ripartizione di poteri uguali fra loro, sulla sovranità del parlamento, e sul diritto.
Ma la rottura della residuale unità antifascista dei partiti dell’ex arco costituzionale, che significava essenzialmente osservanza rigorosa e rispetto della Costituzione del 1948, ha fatto venire meno proprio quel livello di valori per cui, specialmente a destra, ma anche nello schieramento opposto, si sono fatte strada idee e proposte di modifica della carta costituzionale, in nome di un malinteso efficientismo dell’azione politica e di una altrettanto inutilizzata e ideologizzata “governabilità” che nulla ha a che vedere con la carta fondante del nostro Stato.
Entrambi gli opposti schieramenti (si è infatti tentato di passare, senza successo alcuno ad un sistema politico di stampo anglo-sassone, e cioè bipartitico, e ad un sistema elettorale di tipo maggioritario) hanno infatti inteso il governare come affermazione esclusiva di proprio punto di vista, in funzione di negazione e sopraffazione dell’opposizione, nonostante che la carta costituzionale indichi chiaramente che si governa nell’interesse generale del paese, che il sistema politico è e deve essere pluralista, e che tutte le forze politiche presenti in parlamento devono contribuire al miglior governo possibile della cosa pubblica.
In altri termini la buona ed efficiente governabilità del paese si ha quando si verificano quelle circostanze e non quando uno schieramento politico riesce a soverchiare quello opposto.
E così avviene che il secondo governo presieduto da Berlusconi (era il 2007) tentò di modificare la Costituzione attribuendo al Governo e al Presidente del Consiglio poteri maggiori e più estesi di quanto sono oggi.
Ma anche alcuni importanti forze del centro sinistra, nel 2016, tentarono un’operazione analoga.
Fortunatamente entrambe fallirono, ma la tendenza diffusa trasversalmente tra i vari partiti, di imporre la maggioranza politica uscita dalle urne elettorali in modo prevaricante, non si rassegnò affatto e ha ripreso fiato e forza, in particolare dopo le ultime elezioni politiche, che hanno visto prevalere la destra più estrema; quella che non ha mai digerito i capisaldi costituzionali che sino ad oggi hanno garantito la natura democratica della Repubblica Italiana.
Così si è verificato che il partito vincitore delle elezioni del 2022 avesse inserito nel proprio programma politico proprio quella repubblica presidenziale che era stata l’obiettivo dei fautori delle stragi degli anni ’60 e ’70 del ‘900, ma anche del programma massonico di “rinascita democratica”.
E’ vero che successivamente, nelle concrete circostanze e nello spirito autoritario del programma politico della destra attualmente al governo, tale proposta di modifica sostanziale della Costituzione del 1948, si è tradotta in una proposta di “premierato forte”, ma non si può negare che il principio ispiratore di fondo di entrambe le soluzioni prospettate, sia quella di superare il principio della tripartizione dei poteri, di eliminare e neutralizzare il Parlamento, imponendo in modo autoritario e unilaterale la legge del più forte.
Proprio quello che l’Assemblea Costituente evitò e condannò in modo chiaro e inequivoco.
La proposta di premierato, oggi avviata verso l’approvazione (che tuttavia prevede un iter parlamentare abbastanza lungo e complesso) si fonda sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio, quale leader dello schieramento politico risultato vincente alle elezioni, che fruisce automaticamente della maggioranza assoluta dei membri delle Camere, in forza di un abnorme previo di maggioranza, e potrà così governare indisturbato per 5 anni, di fatto detenendo il potere di impulso delle leggi che potrà dettare alle Camere, sotto il ricatto che, se cade il governo, si sciolgono anche le assemblee parlamentari.
Ciò comporterà che il Governo potrà contare su un massiccio (e subalterno) consenso nelle aule, che gli permetterà anche di eleggere parte dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura e perfino della Corte Costituzionale (il Giudice delle leggi) e perfino, alla terza votazione, il Presidente della Repubblica.
Questi, invece, verrà limitato nei suoi poteri di scioglimento delle Camere e nella formazione del Governo, e perderà la sua funzione di garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato.
In definitiva, premesso che una simile proposta di nuovo assetto costituzionale non sarebbe stata neppure concepibile allorché vigeva l’unità antifascista dell’arco costituzionale, lo scopo della modifica istituzionale, che il governo di destra propone, mira proprio a sbilanciare i poteri dello Stato, oggi basati sulla centralità del Parlamento, come organo democratico rappresentativo dei cittadini, e la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica; e ciò a tutto vantaggio del “Premier” che avrebbe non solo il potere di formare il governo, indicando al Capo dello Stato i ministri, ma avrebbe in pugno il Parlamento e influirebbe in modo notevole sul potere giudiziario, e perfino sull’organo massimo di garanzia della corretta applicazione, delle leggi approvate nonché dei principi e diritti costituzionali.
Come si vede, si tratta del ritorno del principio di “un uomo solo al comando” già così caro al cavaliere Berlusconi, ma che rimanda chiaramente ai prodromi storici dell’ascesa al potere del fascismo.
Dunque, in conclusione, possiamo ritenere, e i fatti storici ce lo confermano, che c’è un filo continuo (non certamente rosso) tra le stragi fasciste degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo e che il certosino lavoro di erosione delle istituzioni democratiche da parte non solo della destra politica, ma anche di neo-fascisti, gerarchie militari, comandi atlantici e servizi segreti, sta purtroppo dando i suoi nefasti e mefitici frutti.
L’opinione pubblica democratica è avvertita e deve essere cosciente.
Saprà reagire?