di Sandro Moiso
Davide Serafino, Gappisti. La rete clandestina di Giangiacomo Feltrinelli, Derive Approdi, Bologna 2023, pp. 288, 20 euro
Molto si è scritto, detto e discusso a proposito della lotta armata in Italia, attraverso saggi, articoli, dibattiti e testimonianze di vario indirizzo, calibro e dalle finalità non sempre limpide. Così si è scritto e discusso di formazioni molto note, altre meno, alcune importanti e altre al limite della visibilità politica e mediatica, mentre una è rimasta a lungo ai margini delle ricerche, anche se centrale per la comprensione di ciò che quell’andare “alle armi” rappresentò per i movimenti antagonisti e i militanti rivoluzionari dei primi anni ’70 e del lungo decennio successivo: i Gruppi di Azione Partigiana (Gap), ideati, fondati e finanziati, fino al momento della morte, da Giangiacomo Feltrinelli.
Una formazione, quella analizzata nel testo pubblicato da DeriveApprodi, spesso trattata a livello di ipotesi oppure di illazioni che, spesso, sono andate dalle narrazioni complottiste sui servizi segreti dell’Europa Orientale e i loro rapporti con l’editore milanese a quelle, più o meno benevole, che discettavano a proposito di una sorta di infantilismo politico dello stesso. La cui scelta politica è stata in alcuni casi vista quasi come la realizzazione del desiderio di un uomo che, con la sua straordinaria ricchezza, dopo aver provato tutto avrebbe voluto provare anche il brivido dell’azione “partigiana”.
Finalmente l’opera di Davide Serafino – assegnista presso la SNS di Pisa, borsista presso la Fondazione Burzio di Torino, l’IISS di Napoli e il DHI di Roma e che si è occupato dei fenomeni della violenza politica e della lotta armata in Italia attraverso la sua tesi di dottorato, La lotta armata a Genova. Dal Gruppo 22 ottobre alle Brigate rosse (1969-1981), da cui è stato tratto il volume La lotta armata a Genova (1969-1981) – che ha potuto avvalersi della testimonianza diretta di un gappista mai precedentemente identificato, ma che ebbe un ruolo di primaria importanza nei Gap e che lavorò a stretto contatto con Giangiacomo Feltrinelli finendo col diventarne quasi il braccio destro, costituisce un valido documento per la ricostruzione della storia di quella formazione e del percorso politico-militante di una figura complessa come fu quella dell’editore, fino alla mattina del 14 marzo 1972, ultimo giorno della sua vita.
Il testimone, a lungo silente, è un ingegnere oggi ottantacinquenne, Vittorio Battistoni, la cui dettagliata testimonianza, anche su precisi aspetti tecnici dell’operato dei Gap, ha permesso allo storico di ricostruire nel dettaglio una vicenda che pur avendo incrociato quelle delle più importanti formazioni del periodo, come Potere operaio e le Brigate rosse, e di organizzazioni «minori», come quella genovese del Gruppo 22 ottobre, sembrava essere rimasta ai margini degli studi sulle pratiche politiche di quel periodo.
Come afferma Giorgio Moroni nell’iniziale nota editoriale:
Succede assai raramente che un improvviso squarcio di luce sottragga alle tenebre, e in modo definitivo, le dinamiche e le ragioni di episodi e di eventi tra i più clamorosi e significativi della storia, la cui vera natura è occultata dalle risultanze giudiziarie e i cui contorni sono resi misteriosi o impenetrabili da ipotesi complottiste di maniera, condite dall’intervento dei Servizi segrati “deviati” o di agenti al soldo di potenze straniere […] Questo testimone diretto si è anche rivelato in grado, con le sue meticolose ricostruzioni, di riprodurre la temperie dei primi anni Settanta e di trasferirla inalterata allo storico Davide Serafino1.
Ecco allora che la prima cosa da segnalare, ancora più della ricostruzione dei fatti la cui scoperta, da parte di chi scrive queste poche note, si preferisce lasciare al lettore per non rovinare la lettura di un libro spesso emozionante, è la validità di un metodo che, in qualche modo, rivaluta una sorta di oral history, la storia orale (trattandosi di testimonianze raccolte durante lunghi incontri personali tenutisi a Chiavari) come unico strumento, o quasi, valido per superare i limiti sia della storia documentaria ricostruita attraverso le veline dei giornali oppure gli atti e le inchieste della magistratura, degli archivi di polizia o, ancora, del loro diretto equivalente politico: gli scritti, i documenti e le testimonianze prodotti dalle organizzazioni politiche oppure dai loro più visibili e noti dirigenti e rappresentanti. Quasi sempre orientati, questi ultimi, a sottolineare la continuità ideologica oppure la coerenza individuale dei maggiori protagonisti più che a illuminare la complessità dei fatti che hanno contribuito a determinare un certo momento storico e una scelta politica derivata, invece spesso, da mille contraddizioni e sovrapposizioni di ipotesi, comportamenti e azioni.
Una storia dal basso, si potrebbe dire, che è l’unica e sola capace di illuminare non solo i vertici, ma anche il contorno sociale, culturale e politico di ogni singola vicenda e dei suoi protagonisti anche minori e meno noti. Storie che magari languiscono per decenni negli scantinati della memoria collettiva e individuale, ma che quando ritornano alla luce, spesso “illuminano” il passato più di tante altre ufficiali o più note al pubblico dei militanti o dei media, rivelando possibilità interpretative più vicine alla concreta realtà dei fatti che non alla loro manipolazione ideologica o istituzionale e poliziesca.
Come scrive Serafino nell’introduzione:
Questa ricerca non vuole essere “solamente” una ricerca sulla figura di Feltrinelli, su cui è già stato detto e scritto molto, ma vuole provare a ricostruire, per la prima volta, la parabola del gruppo armato fondato dall’editore. I Gap furono un gruppo atipico e forse nemmeno un gruppo vero e proprio – non avevano una struttura solida e organizzata, non avevano una vera e propria forma organizzativa, o quantomeno questa era piuttosto fluida, i vari Gap locali presentavano molte differenze tra di loro – ma una rete di relazioni intessuta dall’editore con singoli militanti e con porzioni di altre formazioni molto più ramificate di quanto si è soliti pensare, tanto che appare verosimile, almeno nei suoi caratteri generali, l’opinione di Gianbattista Lazagna secondo cui i Gap erano una sigla universale utilizzata da Feltrinelli per i gruppi clandestini a lui collegati, che poi l’editore cercò di dotare di una strategia comune. Il gruppo non sopravvisse al proprio fondatore e i suoi militanti andarono incontro a destini diversi: chi si avvicinò alle nascenti formazioni armate, soprattutto alle Brigate rosse; chi si avvicinò ai gruppi della sinistra rivoluzionaria; chi, scosso dalla morte violenta di Feltrinelli, si ritirò a vita privata [e] offre una chiave di lettura che consente di entrare meglio nelle vicende dei Gap e aiuta a sottrarre la figura dell’editore ai cliché del miliardario folgorato sulla via di L’Avana, del ricco mecenate della rivoluzione, provando a rendere giustizia non solamente alla figura di Feltrinelli militante politico – un militante le cui idee, al di là che siano state capaci o meno di cogliere i cambiamenti in atto, furono sempre il frutto di un’analisi razionale e non di un’estasi mistica rivoluzionaria – ma anche a quella di coloro che scelsero di collaborare con l’editore, come Vitttorio Battistoni, e che in lui videro un interlocutore credibile e affidabile, un sincero compagno di lotte politiche e non solamente, come vorrebbero altri cliché altrettanto banali, un ingenuo finanziatore dei gruppi rivoluzionari2.
Per certi versi i Gap ricalcarono più le bande partigiane cui si ispirarono fin dall’inizio, proprio per la visione antifascista e antigolpista che ispirava inizialmente Feltrinelli, più che le organizzazioni maggiormente centralizzate, sia dal punto di vista ideologico che organizzativo, che si svilupparono successivamente su un modello più di carattere marxista-leninista e questo, visto che l’unica centralizzazione sembrava convergere sulla figura dell’editore, fu forse il principale motivo del loro rapido sbandamento, successivo alla morte dello stesso.
Una visione che era in contraddizione con quella di un gruppo come Potere operaio che «non considerò mai prioritario, dal punto di vista politico, lo scontro con il Msi e i neofascisti – tale scontro era visto come una battaglia di retroguardia, in alcuni frangenti necessaria, ma pur sempre di retroguardia»3. Ma che non impedì mai a Feltrinelli di finanziare:
riviste, movimenti, gruppi e singoli militanti della sinistra rivoluzionaria e armata italiana e internazionale, l’acquisto di basi e di armi e la creazione di una rete logistica a disposizione dell’intera area rivoluzionaria, ma non lo fece nel modo ingenuo, e fondamentalmente stupido, che molti vogliono far credere, lo fece sempre con cognizione di causa e coerenza, lo fece – e fu il primo in Italia – avendo in mente una strategia rivoluzionaria globale. Una strategia ambiziosa e farraginosa allo stesso tempo, una strategia che strideva con l’impostazione neoresistenziale dei primi Gap, una strategia che non si sarebbe mai dispiegata pienamente e che, sostanzialmente, fallì, non soltanto per la morte precoce dell’editore, ma per i limiti intrinseci a un progetto che voleva tenere insieme realtà sociali ed economiche diversissime – dal Sudamerica alla Palestina, dalla Sardegna alle metropoli europee – e gruppi che muovevano da necessità e perseguivano obiettivi molto lontani tra di loro4.
Eppure, forse proprio in questo risiedeva la vera modernità, la fondamentale intuizione di Giangiacomo Feltrinelli e dei militanti che lo accompagnarono in quel primo periglioso e rovinoso tratto di strada, poi abbandonato in seguito da coloro che ne furono gli emuli successivi, tutti intenti a collegarsi ad un’unica causa all’interno di un mondo, invece, sempre più complesso e contraddittorio. Quello della guerra civile globale con cui ancora oggi dobbiamo fare i conti.
L’interesse principale di questa ricerca risiede quindi, e soprattutto, nella riscoperta di un’intuizione troppo moderna per i tempi in cui venne formulata e nella immediatezza dell’esposizione e della narrazione dei fatti e delle idee. Qualità, oggi, da considerare davvero di non poco conto.