di Alessandro Villari
«Voglio sapere chi ha ucciso mio marito, Billy Ray Valentine.»
La donna seduta di fronte alla mia scrivania era un rompicapo. Alta, snella, abbronzata: sprizzava salute da tutti i pori, e solo qualche ruga quasi impercettibile sul volto dai lineamenti marcati tradiva l’età non più giovanissima. Contando che tra abiti e accessori aveva addosso qualche migliaio di dollari, si sarebbe mimetizzata perfettamente tra la migliore borghesia alla prima dell’Opera di Philadelphia.
Eppure dalla maniera irrequieta di muoversi sulla sedia, dall’intensità dello sguardo così diretto, dal modo in cui non faceva nulla per nascondere una scollatura che non passava certo inosservata – per non parlare dalla gomma che non aveva smesso un secondo di masticare – si intuiva che Ophelia non era nata col culo al caldo. Un contrasto conturbante.
«Dunque non crede alla versione della polizia, che si sia trattato di un suicidio, o di un’overdose accidentale. Mi dica come mai.»
«Billy Ray era una persona solare, l’ultimo al mondo che si sarebbe tolto la vita. E non si faceva, mai.»
«E la bustina di coca trovata vicino al luogo del decesso?»
«È una montatura. Ed è anche un messaggio da parte dell’assassino: una citazione, se vogliamo. Come il bicchiere di succo d’arancia. È come tutto è cominciato, quindici anni fa: e anche allora, sia la coca che il succo d’arancia erano un inganno.»
«Che cosa intende?»
«Il detective è lei. E per duecento dollari al giorno un po’ di ricerca la potrà anche fare.»
E pronunciate queste parole, senza altro commiato, il mio rompicapo di nome Ophelia si alzò, raccolse la sua borsa di coccodrillo e infilò la porta.
*
Erano le 18 in punto della vigilia di Natale: decisamente ora di chiudere la baracca. Fuori era buio e nevicava – o forse era soltanto l’effetto delle finestre che Carmen non aveva pulito neppure questa volta. Come darle torto, visto che non la pagavo da un mese. Quei duecento bigliettoni al giorno erano davvero il regalo che serviva.
Nevicava davvero. Sulla via di casa feci una tappa da Joe il pescivendolo, per investire una parte del cospicuo anticipo della mia cliente in un trancio di salmone di prima qualità: sarebbe stato il piatto forte del mio banchetto natalizio.
Un’ora dopo contemplavo la mia tavola imbandita, non senza disappunto.
La tavola era in realtà il tavolino porta-riviste davanti al divano. Come tovaglia, avevo adattato uno strofinaccio della cucina che un tempo era stato rosso, o almeno arancione. Lasciava scoperte le estremità del tavolino, ma se non altro nascondeva le riviste sottostanti: quasi tutte pornografiche, devo ammettere.
Al centro, un unico piatto sbreccato su cui era adagiato il salmone così come era uscito dal foglio di giornale in cui era stato avvolto. Forse avrei dovuto pensare a un contorno. Non avevo neppure del vino per accompagnarlo: poco male, ero più uno da whisky.
Buon Natale a me.
Sarà stata la solitudine, il pesce scondito o il whisky, ma terminato in pochi minuti il mio discutibile pasto mi scese una certa malinconia. Mi ritrovai a pensare alla mia cliente: rimasta vedova alla vigilia di Natale, sola come me. Povera donna.
Quasi meccanicamente, sfilai una rivista da sotto il tavolino e mi masturbai.
*
25 dicembre
Mi risvegliai la mattina dopo sul divano, mezzo vestito, la bocca impastata dall’alcool. Nel tentativo di redimermi dallo schifo della sera precedente, feci una lunga doccia bollente e mi misi di buona lena a pulire e riordinare il mio monolocale.
Fu nel bel mezzo di questa attività catartica che, proprio mentre lo stavo gettando nella spazzatura, mi cadde l’occhio sul foglio di giornale che aveva avvolto il pesce: era dell’Inquirer del giorno prima, e c’era una foto di Ophelia.
Stesi la pagina stropicciata e me la portai sul divano, incurante del suo fetore. La foto accompagnava un lungo necrologio di Billy Ray Valentine e risaliva a una quindicina d’anni prima: il morto sorrideva a trentadue denti di fianco alla mia cliente – ancora più in forma di adesso – che se ne stava abbracciata a un altro uomo, secondo la didascalia un certo Louis Winthorpe III.
Dimenticai le pulizie e mi misi a leggere. Valentine e Winthorpe si erano messi in società all’inizio degli Anni Ottanta e avevano ricavato un enorme profitto dalla compravendita di titoli sul succo d’arancia – che modo stronzo di fare i soldi. Disse quello che i soldi non li avrebbe fatti mai. Con quel denaro avevano creato un vero impero finanziario, fino alla separazione, apparentemente per dissidi personali – che c’entrassero con Ophelia, prima abbracciata all’uno e poi sposata con l’altro?
L’articolo continuava nella pagina successiva: per leggerlo tutto avrei dovuto comprare anche le capesante, come mi aveva suggerito Joe. Al quale si doveva comunque dare atto che almeno l’involucro del pesce era fresco di giornata.
In ogni caso, avevo il primo nome sulla mia lista: Louis Winthorpe III.
Col pretesto degli auguri contattai in giornata un ex collega di polizia che mi doveva qualche favore.
*
26 dicembre
Il giorno successivo, in una centrale semideserta, mi misi a setacciare gli archivi in cerca di indizi. Il nome di Valentine ricorreva spesso nei verbali tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta: disturbo alla quiete pubblica, piccoli furti, un paio di truffe di poco conto, qualche notte in cella. Era il classico tipo che viveva di espedienti. Un mistero come avesse fatto nel giro di nulla a diventare milionario.
Il mistero si infittiva con Winthorpe. Nulla su di lui fino alla fine del 1983, poi in una sola settimana un arresto per possesso e spaccio di cocaina e una denuncia per aggressione, la sera di Natale. La cosa interessante era che la denuncia, poi ritirata, era stata fatta da… Billy Ray Valentine. Ed era pochissimo tempo prima che i due diventassero soci!
Chiaramente c’era sotto qualcosa di losco.
Rilessi il verbale della denuncia per spaccio. L’arresto era avvenuto in flagranza. Tra i testimoni era citato un certo Clarence Beeks: ecco un altro nome da rintracciare. Ma su di lui non c’era nulla negli archivi della polizia.
Annotai l’indirizzo di residenza di Winthorpe – gli avrei fatto visita nel pomeriggio, sperando non fosse in qualche lussuoso chalet di montagna a trascorrere le feste – e uscii. Dopo un pranzo frugale, ma comunque migliore della mia cena di Natale – un hot-dog divorato in quattro bocconi in auto – guidai per le strade deserte verso una delle più sofisticate zone residenziali di Philadelphia, in centro e a due passi dal fiume.
*
Un maggiordomo compassato, dall’aria francamente antipatica, socchiuse il portone d’ingresso.
«Non siamo interessati a pubblicità e richieste di elemosine.»
Gli mostrai il tesserino.
«Sto cercando il signor Winthorpe: se è in casa e non è troppo disturbo avrei bisogno di parlargli.»
Mi squadrò da capo a piedi, sollevando un sopracciglio. Quindi mi tese un biglietto da visita.
«Il signor Winthorpe riceve solo su appuntamento, può telefonare alla sua segretaria lunedì.»
Non feci in tempo a protestare, che una voce dall’interno dell’abitazione s’intromise.
«Ernest, non essere scortese e prendi il soprabito del signor…»
«Simpson Day. La ringrazio signore, e mi scuso per l’intrusione per di più in periodo di festa. A dire la verità pensavo proprio che non l’avrei trovata in casa.»
Porsi il mio giaccone al maggiordomo, che sparì in uno stanzino laterale tenendolo con la punta delle dita, senza sforzarsi di nascondere un’espressione disgustata.
«Perdoni le maniere del mio maggiordomo. Un tempo ne avevo uno straordinario, si chiamava Coleman, era un amico. È morto qualche anno fa. Ernest non è degno di abbottonargli la giacca, ma mi devo accontentare.»
L’uomo che aveva parlato mi attendeva in fondo al corridoio, vidi che si reggeva sulle stampelle e aveva una gamba ingessata.
«E comunque nemmeno io pensavo che sarei stato qui il 26 dicembre: a quest’ora avrei dovuto essere in un lussuoso chalet di montagna. Mi segua, andiamo a sederci in un ambiente un po’ più confortevole. Posso offrirle del caffè? Ernest, per favore.»
Il padrone di casa saltellando mi condusse in un salottino quadrato che trasudava ricchezza dal parquet lucido, dai tappeti eleganti, dal caminetto acceso che occupava un’intera parete. Si lasciò cadere sul divano proprio di fronte al braciere e sollevò la gamba sul pouf. Io non avevo ancora poggiato le chiappe sulla poltrona di fianco al fuoco che entrò il maggiordomo reggendo un vassoio con due tazzine e una zuccheriera: lo appoggiò sul tavolino e uscì senza fiatare, e senza degnarmi di uno sguardo.
«Immagino sia venuto per farmi delle domande su Billy Ray», disse Winthorpe in tono neutro fissando il suo caffè. «Sospetta di me?» chiese guardandomi improvvisamente negli occhi.
«Non ancora», gli sorrisi. «Ma credo che lei possa aiutarmi a capire alcuni retroscena che potrebbero essere importanti.»
Non avevo motivo di mentirgli, perciò gli raccontai in breve delle mie ricerche mattutine e delle conclusioni – per la verità estremamente parziali – a cui ero giunto.
«E vorrebbe che unissi i puntini per lei?» mi chiese alla fine.
«Gliene sarei grato. E vorrei sapere anche dove posso trovare quel Clarence Beeks, sempre che davvero c’entri in questa faccenda.»
«C’entra, eccome. Ma temo di non poterla aiutare a trovarlo. Per il resto, invece, si metta comodo e lasci che le racconti una storia. Sa che cosa sono i contratti future?»
Scossi la testa. Winthorpe iniziò a spiegare e a raccontare. Rimasi ad ascoltarlo per quasi un’ora, a bocca aperta.
«È stato davvero illuminante», commentai alla fine. «Mi perdoni, ma non posso proprio fare a meno di chiederglielo: in che rapporti era con il signor Valentine? So che da qualche anno non eravate più soci, e poi…»
«… e poi aveva sposato Ophelia, la mia fidanzata. Ex fidanzata, vorrei sottolineare: l’avevo lasciata io. Capisco il suo scrupolo, ma la verità è che anche dopo aver sciolto la società, Billy Ray e io eravamo rimasti molto amici. Ed ero stato molto felice sia per lui che per Ophelia quando si erano innamorati: erano proprio fatti uno per l’altra.»
«Ma allora perché…»
«Perché avevamo preso strade separate? Vede, Billy Ray aveva un fiuto fantastico per gli investimenti ed era il socio ideale: affidabile, per nulla avido. Solo che negli ultimi anni aveva maturato una certa quantità di scrupoli morali che a mio avviso non erano accettabili per chi fa il nostro mestiere.»
«Può farmi un esempio?»
«Sì. Alcuni anni fa, ci contattò Mortimer Duke proponendoci una collaborazione. Da pari, questa volta.»
«Mortimer Duke? Ma non è uno dei due fratelli che avevate rovinato?»
«Oh, rovinato è una parola grossa. Sì, i Duke avevano perso un sacco di soldi. Ma non erano soldi loro dopotutto, almeno in gran parte. Certo, la loro reputazione ne era uscita a pezzi. Ma il mercato ha la memoria corta, nel giro di qualche tempo erano tornati in pista. Comunque, era una buona occasione, e in affari non c’è nulla di peggio che tenere il broncio.»
«Ma Valentine tenne il broncio.»
«Esatto. Cercai in ogni modo di convincerlo ma non ci fu verso. Allora mi resi conto – ci rendemmo conto entrambi a dire il vero – che non potevamo rimanere soci. Ma ci lasciammo in amicizia, come con Ophelia del resto. Onestamente non avevo alcun motivo per avercela con lui.»
«E i fratelli Duke? Loro un motivo ce l’avevano.»
«Certo. Ma, come le dicevo, erano comunque caduti in piedi e non erano tipi da nutrire rancore. Lo dimostra il fatto che ci chiesero loro di collaborare. E comunque credo proprio che abbiano entrambi un alibi inattaccabile.»
«E sarebbe?»
«Sono morti. Randolph una decina d’anni fa, Mortimer la scorsa estate. Aveva più di novant’anni.»
«Un’ultima cosa. Mi pare evidente che il succo d’arancia e la bustina di coca di fianco al cadavere non fossero lì per caso. Chi altri era a conoscenza della storia che mi ha raccontato, oltre a voi quattro, ai Duke e a Beeks?»
«Nessuno, che io sappia. E concordo che sia una messinscena. Ma potrebbe benissimo averla organizzata Billy Ray: aveva un gran senso dell’umorismo. E magari qualche senso di colpa.»
Ci stringemmo la mano sull’uscio, mentre Ernest mi restituiva il giaccone sempre con la stessa maschera di disgusto scolpita sul volto.
*
Fuori nel frattempo era buio. Mentre salivo in macchina, mi sembrò di notare con la coda nell’occhio un’ombra che si ritraeva nel vano di un portone vicino. Volsi lo sguardo in quella direzione ma non vidi nulla: probabilmente era solo un gatto.
La chiacchierata era stata utile, a prescindere da quanto potessi fidarmi di Winthorpe. Ma di fatto ero in un vicolo cieco. L’unica pista che avevo era Clarence Beeks, ma non avevo idea di dove e neppure come trovarlo. Le sue tracce, a quanto avevo appreso, si interrompevano alla stazione di Chicago, all’alba del primo gennaio 1984.
Per quanto fosse improbabile, al limite dell’assurdità, l’unica opzione che avevo era andare a Chicago.
Ero talmente immerso in questi pensieri che, entrando, non mi accorsi che la luce del mio ufficio era accesa.
«Buonasera, detective.»
Feci un salto. Ovviamente era Ophelia.
Non persi neppure tempo a chiederle come fosse entrata e la aggiornai sui miei magri progressi.
«Vengo con lei a Chicago», fu la sua reazione – assai migliore di quella che temevo. «Non si preoccupi, non la intralcerò. Ho degli affari da sbrigare lì e approfitterò per non fare il viaggio da sola. Ci vediamo in stazione domani a mezzogiorno, prendo io i biglietti.»
«Come, in stazione? Non vorrà andarci in treno, impiegheremo una vita…»
«Non volo. E sono io che pago: che le importa del tempo? Troveremo qualche modo per impiegarlo.»
Detto questo si alzò e uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta e lasciandomi a bocca aperta a interrogarmi sulle implicazioni di quell’ultima frase.
«A domani, detective», la sentii salutare dal pianerottolo.
*
27 dicembre
Mi addormentai a fatica quella notte, feci sogni agitati e mi svegliai tardi, più stanco di quando mi ero coricato.
Dedicai più tempo del solito alla toeletta. Docciato e ben rasato, infilai qualche straccio in un borsone – contavo di non fermarmi a Chicago più di un paio di giorni – e mezz’ora prima di mezzogiorno ero in stazione.
Mi feci dare allo sportello il numero del centralino della Union Station di Chicago e chiamai: se non altro, esisteva un ufficio doganale con un archivio. Con un po’ di fortuna sarei riuscito a trovare qualche traccia della spedizione di un gorilla avvenuta quindici anni prima.
La mia cliente mi venne incontro a mezzogiorno spaccato, fin troppo sorridente per una fresca vedova.
«Ho prenotato una carrozza con due posti letto: spero non le dispiaccia condividerla – ma non si faccia strane idee. Il treno parte tra mezz’ora, saremo a Chicago domani mattina.»
«Nessuna idea: ho una deontologia.»
Per confermare il concetto, mi addormentai pochi minuti dopo la partenza, il cappello calato sugli occhi.
Mi risvegliai che era già tramontato il sole. Una fioca luce rossastra illuminava una distesa di campi gelati a perdita d’occhio.
«Bentornato. Meno male che doveva farmi compagnia. Forse questa potrà interessarle: gliene avrei parlato appena saliti ma non me ne ha dato il tempo.» Mi porse un’agenda rilegata in pelle rossa.
«Che cos’è?», chiesi mentre la sfogliavo. Conteneva numeri di telefono, date, qualche nome.
«L’ha trovata stamattina la domestica, mentre riordinava lo studio di mio marito. A quanto pare era nascosta in uno scomparto della scrivania che si è aperto mentre la spostava per pulire. È diversa dall’agenda che Billy Ray usava normalmente.»
«L’ha già letta? Ha trovato informazioni o indizi che potrebbero essere utili?»
«L’ho sfogliata da cima a fondo mentre lei dormiva. C’è un numero di telefono che ricorre, ma non lo riconosco. Eccolo, guardi. Ho anche provato a chiamarlo, ma non ha risposto nessuno. Qua e là è associato a un nome: Martino. Non so a dire il vero se sia un nome o un cognome, a me non dice nulla.»
«Farò qualche ricerca quando saremo a Chicago.»
Trascorremmo le due ore successive in silenzio: io a consultare l’agenda, dalla prima all’ultima pagina; Ophelia leggeva un romanzo. Cenammo a Pittsburgh in uno dei bistrot della stazione, in attesa del cambio.
Al momento di risalire, vidi che tutt’a un tratto si era incupita, sembrava quasi che avesse gli occhi lucidi.
«Questo è esattamente il treno che prendemmo quindici anni fa, la notte di Capodanno del 1984, con Billy Ray, Louis e Coleman», disse quando fummo a bordo. Mi prese una mano. «Grazie per aver accettato di viaggiare insieme, non credo che sarei riuscita a prenderlo da sola.»
«Come se avessi scelta», sorrisi. «Che effetto le fa, adesso che è qui?»
«Tristezza, per Billy Ray ovviamente. Ma forse soprattutto nostalgia. Eravamo così giovani, fu una vera pazzia», mi sorrise a sua volta.
Si addormentò quasi subito. Mi senti uno sciocco per aver pensato… Mi addormentai pure io.
Mi svegliò a un’ora imprecisata, in piena notte, un movimento sotto la mia coperta. Era Ophelia che si era intrufolata. Immerse il volto nel mio petto, era umido. Mi abbracciò e dopo pochi istanti sentii il suo respiro rallentare e farsi più regolare.
*
28 dicembre
Quando mi destai, poco dopo l’alba, ero da solo nella mia cuccetta. Avevo sognato forse? Il sorriso della mia cliente mi rispose di no.
«Buongiorno, detective. Ecco l’indirizzo dell’albergo, è a due passi dalla stazione – stanze separate», aggiunse. «Abbiamo entrambi da fare, ma se vuoi raggiungermi prima di sera puoi contattarmi sul cellulare.»
Mi porse un biglietto dell’Holiday Inn, sul retro aveva scritto a penna un numero di telefono.
«Lo uso solo in viaggio», aggiunse a mo’ di spiegazione, «normalmente non mi piace l’idea di essere raggiungibile ovunque, mi sembra di essere sorvegliata.»
A proposito di sentirsi sorvegliati, appena scesi dal treno ebbi la sensazione di essere osservato. Mi guardai intorno ma non vidi nessuno, probabilmente era davvero la suggestione del telefono cellulare.
Salutai Ophelia nell’atrio – lei mi diede un leggero bacio sulla guancia – e cercai l’ufficio doganale.
L’esibizione del tesserino, e di una banconota da venti al suo interno, placò le proteste dell’impiegato, che mi condusse all’archivio: una stanza interamente occupata da schedari ordinati cronologicamente, con i documenti di trasporto di tutte le merci che erano passate dal più importante nodo ferroviario del mondo, giorno dopo giorno.
«È fortunato, l’archivio del 1984 è qui ancora per poco, dopo quindici anni mandiamo i documenti al macero. Può mettersi a quel tavolo.»
Conoscevo la data – 1° gennaio 1984 – e trovai quasi subito quello che stavo cercando. Eccolo, un gorilla dello zoo di Pittsburgh destinato a essere trasportato in Camerun. Il documento di trasporto era stato corretto a penna: a Chicago, i gorilla erano diventati due! Lo sconforto fu come un pugno nello stomaco.
Tornai dall’impiegato, sventolando il documento come una bandiera bianca. «Posso averne una copia?» e poi, a bassa voce a me stesso, «Quindi Beeks è finito in Africa… Maledizione!»
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla fotocopiatrice: «Beeks, ha detto? Non Clarence Beeks, per caso?»
Spalancai gli occhi: «Lo conosce? Sa che fine ha fatto?»
«Be’, c’è un Clarence Beeks che lavora allo zoo giù a Lincoln Park. Con mio figlio che è fissato per i leoni ci andiamo così spesso che abbiamo finito per fare amicizia.»
Presi la mia fotocopia e lasciai sul bancone un altro biglietto da venti: l’uomo se l’era più che meritato. La giornata stava prendendo una direzione davvero inattesa.
*
Mi chiamo Clarence Beeks, e sono la dimostrazione di quanto la vita possa riservare sorprese.
Ho trascorso i primi trent’anni da adulto al servizio degli interessi dei ricchi, nutrendomi delle briciole che mi elargivano dal loro tavolo. Ero ambizioso e privo di scrupoli, e ho fatto cose di cui non vado fiero, sempre muovendomi nell’ombra: minacce, estorsioni, calunnie – tutto ciò che i miei facoltosi clienti mi chiedevano di fare. Ero piuttosto bravo.
Finché non successe qualcosa di inaspettato.
All’epoca ero l’uomo di mano della Duke & Duke, una finanziaria specializzata nella compravendita di titoli di beni di consumo. Mi avevano incaricato di corrompere un funzionario del ministero dell’agricoltura per ottenere in anticipo delle informazioni riservate sull’andamento del raccolto delle arance, e investire di conseguenza.
Ma un gruppo di squinternati, sul treno notturno per Chicago, mi sottrassero il rapporto, mi infilarono un costume da gorilla e mi chiusero in una gabbia occupata da un altro primate, in procinto di essere spedito in Africa. Fu soltanto quando sbarcammo in Camerun che si accorsero dell’errore.
Nel frattempo però, nelle lunghe ore trascorse in gabbia, avevo familiarizzato con il gorilla, imparando a comunicare con lui e perfino ad affezionarmici.
A cinquant’anni, avevo scoperto un lato di me stesso che non conoscevo – l’amore per gli animali selvatici – e che mi piacque moltissimo. Rimasi in Camerun per tre anni e, anche se non avevo nessuna competenza, potei collaborare al monitoraggio del programma di reinserimento degli animali nati in cattività nel loro habitat naturale.
Furono gli anni più belli della mia vita. Imparai moltissimo, con lo studio e con la pratica sul campo. Finché non ricevetti una proposta di lavoro dallo zoo di Chicago, uno dei più importanti d’America, che collaborava da tempo con i programmi di ripopolamento: avrei continuato a occuparmene seguendo gli esemplari più giovani e “preparandoli” alla loro nuova vita.
Mi parve un segno del destino. Chicago era il luogo in cui anche la mia vita era cambiata. Ora sono qui da dieci anni e sono un uomo felice. Soltanto una cosa mi turba: il pensiero delle tante azioni turpi che ho commesso nella mia vita precedente. Farei qualsiasi cosa per rimediare almeno in parte al male che ho fatto.
*
Ho preso tante cantonate nella mia carriera di investigatore privato, ma ero assolutamente certo di non sbagliarmi stavolta: Clarence Beeks non aveva niente a che fare con la morte di Billy Ray Valentine.
La lunga chiacchierata con quell’uomo bizzarro comunque non era stata del tutto inutile. Decisi però che l’avrei tenuta per me, almeno per il momento.
Raggiunsi l’albergo mentre i primi fiocchi di neve imbiancavano i marciapiedi, nascondendo almeno per qualche minuto il lerciume che li ricopriva.
Trascorsi il pomeriggio compulsando nuovamente l’agenda segreta del defunto. Il numero di telefono che compariva a più riprese era senza prefisso, e quel nome… Martino: chi era? Mi feci prestare le guide telefoniche di una dozzina di città da una receptionist perplessa ma efficiente e cominciai a cercare, in ordine alfabetico.
Austin, Chicago, Dallas, Houston… Fu solo a San Jose, penultimo tentativo, che trovai il filo che cercavo. Mi attaccai al telefono e iniziai a tirarlo.
Ero sotto la doccia, nel tardo pomeriggio, quando sentii battere alla porta della mia stanza. Immaginai che fosse Ophelia: carino da parte sua bussare, una volta tanto, ghignai tra me. «Cinque minuti e arrivo!»
Aperta la porta del bagno mi si gelò il sorriso in faccia. Il mio borsone era aperto sul pavimento, i quattro indumenti che conteneva sparsi in giro, tutti i cassetti aperti, le tasche del cappotto rivoltate… E l’agenda era sparita.
Ophelia! Uscii di corsa, seminudo. Nessuno sul corridoio, la sua porta era chiusa: la spalancai.
«Ma sei impazzito! Esci subito!», gridò lanciandomi addosso i pantaloni che si era appena tolta. Stava per lanciarmi qualcos’altro quando vide la mia espressione stravolta e si bloccò, improvvisamente preoccupata: «Che cosa è successo?»
*
La cena, nel ristorante dell’hotel, fu silenziosa: Ophelia era molto scossa, io cercavo di ricomporre i pezzi del puzzle. Soltanto davanti al dolce mi chiese delle indagini.
«Ho trovato Beeks, ma è un vicolo cieco.» Le raccontai dell’Africa e dello zoo, strappandole un sorriso.
«Ma abbiamo perso l’agenda», si rabbuiò subito.
«Non tutto è perduto. Intanto adesso sappiamo che l’agenda era la pista giusta. E credo di aver scoperto l’identità di Martino.»
«Davvero? E chi è?»
«Che cosa: è il nome di un’azienda in California, si occupa di computer.»
«Il numero di telefono era quello dell’azienda? Ma Billy Ray non ha mai fatto investimenti in quel settore, diceva di essere affezionato alla pancetta e al succo di frutta», sospirò.
«No, il numero non corrisponde, ma ho una pista e domani volerò a San Jose per seguirla. Perdonami, ma non c’è davvero tempo per il treno stavolta.»
«E mi lasci da sola…»
«Sei perfettamente al sicuro», mentii, più a me stesso che a lei. «Se qualcuno avesse voluto farti del male ne avrebbe già avuto molte occasioni, e comunque, chiunque sia, ha già preso quello che cercava.»
«Quando ci rivedremo?»
«Il 31 dicembre alle dieci di sera in punto sarò nel mio studio, e spero che per allora avrò trovato il bandolo di questa matassa.»
*
29 e 30 dicembre
Mi chiamo Galileo Vanvestieri, ho 35 anni e vivo a San Jose. Mio nonno – anche lui Galileo – emigrò dall’Italia negli anni venti e si stabilì in California.
Fu lui, dopo la guerra, a trovare a mio padre un lavoro nella Martino Instruments, una piccola ditta che produceva transistor e apparecchiature elettriche e che all’epoca era tra le poche ad assumere italiani.
Negli anni l’azienda crebbe e da poco più che impresa familiare divenne un importante produttore di macchinari industriali, con clienti in tutto il Paese e centinaia di dipendenti. Alla fine degli anni settanta mio padre era tra i progettisti più stimati, un uomo realizzato e orgoglioso del suo lavoro.
Poi arrivarono i computer, e sembravano la gallina dalle uova d’oro. Anche Martino avrebbe voluto gettarsi in quel mercato, ma riconvertire la produzione e formare il personale era estremamente costoso. Investì in borsa tutto il fondo pensione dei dipendenti, ma nel gennaio del 1984 fu coinvolto nel crack della Duke & Duke e perse tutti i soldi.
Erano i risparmi di una vita di centinaia di persone, tra cui mio padre. Che si buttò da un ponte alla fine di quell’anno – e non fu il solo. Fu nello stesso periodo che una figlia del vecchio Martino, aprì un’azienda nuova di zecca, la Martino Enterprises: pare che il denaro lo ottenne giocando in borsa. Una strana coincidenza, no?
Con tutti nuovi dipendenti, la “nuova” Martino si occupava di informatica e oggi è una delle cento imprese più importanti d’America.
Dopo la morte di mio padre, ho dedicato la mia vita a ricostruire come andarono realmente le cose, a scoprire la truffa che ha rovinato la mia e tante altre famiglie, a fare in modo che i colpevoli vengano puniti.
Finché circa un anno fa è saltato fuori il nome di Billy Ray Valentine.
*
31 dicembre
Dieci meno un quarto. Avevo viaggiato di più negli ultimi tre giorni che negli ultimi anni, ed ero esausto. Ancora un piccolo sforzo.
A quest’ora, chi poteva se ne stava da qualche parte a godersi il veglione di fine anno. Io non potevo invece, ma se non altro avrei avuto presto compagnia.
Attendevo il mio destino sorseggiando un whisky migliore del solito, per celebrare l’occasione.
Dieci meno cinque. Con qualche minuto di anticipo, Ophelia si materializzò nel mio studio: impeccabile come sempre nell’abbigliamento e nel trucco, la sua espressione e la sua postura tradivano un’ansia febbrile. Rimase interdetta scoprendo di non essere l’unica invitata alla festa.
«Grazie per essere venuta», le sorrisi. «Ti presento il signor Galileo Vanvestieri. Signor Vanvestieri, la signora Ophelia… Valentine.»
L’interpellato, un uomo sulla quarantina molto alto e dinoccolato, capelli corvini e occhiaie profonde, si alzò in piedi e porse nervosamente la mano, che la donna strinse con evidente disagio.
«Dobbiamo rimediare a una certa asimmetria informativa: questo signore sa già tutto quel che deve sapere sul tuo conto, ho avuto circa tremila miglia di tempo da San Jose per ragguagliarlo. Ti metto subito in pari.»
Ophelia si sedette sull’unica sedia libera davanti alla scrivania. Io mi alzai e mi misi a passeggiare per la stanza, mentre parlavo.
«Quando sono partito per la California brancolavo nel buio. Se mai avessi nutrito ancora dubbi, il furto dell’agenda mi aveva convinto definitivamente che il signor Valentine era stato ucciso. L’assassino doveva essere qualcuno che lo conosceva, e che conosceva la storia dello “scambio” tra lui e Louis Winthorpe e dello scherzetto milionario ai danni della Duke & Duke. Questo riduceva il numero dei possibili sospetti, ma la cerchia era ancora piuttosto ampia. C’eri anche tu del resto.»
«Io?! Come osi anche solo pensarlo!»
Scrollai le spalle. «Dove ci sono montagne di soldi, può nascondersi ogni tipo di motivazione. E quella tua improvvisa necessità di seguirmi a Chicago per occuparti di chissà che “affari”, non aiutava certo a depennarti dalla lista.»
Chinò il capo e si appoggiò allo schienale, come se avesse perso tutta in un colpo la sua indignazione. «Era una necessità, sì, ma non era improvvisa», disse a bassa voce. «Con Billy Ray facevamo quel viaggio ogni anno, tra Natale e Capodanno, per ricordare di quella prima traversata in treno di tanti anni fa. Prendevamo una stanza in quello stesso albergo in cui avevamo dormito nel 1984 e giravamo per la città ricordando e ridendo. Avevo bisogno di tornarci ancora anche se lui non c’è più, ma non ce la facevo ad andare da sola…»
«Lo so. Ti ho fatto seguire.»
«Tu…»
«È il lavoro per cui mi stai pagando. Se può consolarti, ti credo. Comunque, avevo individuato “Martino” e scoperto a chi apparteneva il numero di telefono – al signor Vanvestieri, come immagino avrai intuito. Ma ancora non avevo idea di quale fosse il collegamento: come dicesti, il signor Valentine non investiva nel settore dell’informatica. Fu soltanto a San Jose che la nebbia cominciò a diradarsi.»
Le raccontai tutta la storia. «Ed ecco qualcun altro che aveva qualche ragione per nutrire rancore nei confronti di Billy Ray Valentine», conclusi.
Ophelia spalancò gli occhi e portò entrambe le mani davanti alla bocca. «Ma Billy Ray non ne sapeva nulla!»
«Lui no. Ma Winthorpe sì: gestiva lui da anni i clienti della Duke & Duke e conosceva personalmente Martino. Ma il fatto interessante è che, a quanto pare, anche Martino sapeva che cosa sarebbe successo: ed ecco come saltarono fuori i soldi per aprire la nuova impresa, dopo aver convenientemente chiuso quella vecchia senza il fastidio di dover liquidare i dipendenti.»
«Dunque sei stato tu a ucciderlo?», scattò in piedi indicando Vanvestieri.
L’uomo rimase seduto e scosse la testa. «Ammetto che il nostro primo incontro fu alquanto burrascoso. Ma fu chiaro subito che lui era all’oscuro di tutto, pur essendo responsabile ovviamente. È grazie al signor Valentine che abbiamo scoperto che Martino e Winthorpe erano d’accordo, e gli ultimi tasselli del puzzle sono andati al loro posto. Credo che volesse sinceramente aiutarci per rimediare almeno in parte al male che avevamo subito.»
«Così Winthorpe lo venne a sapere», commentai. «Se Valentine avesse reso pubblica la cosa, non solo avrebbero dovuto rifondere tutti i danneggiati, ma avrebbero rischiato la galera: l’insider trading è reato federale.»
«Louis…», sospirò Ophelia, gli occhi ormai invasi dalle lacrime.
«Lasciamo che a raccontare la conclusione sia l’ultimo personaggio di questa tragedia. Entri pure, signor Coleman.»
*
Chiamatemi Coleman.
Ero poco più che un ragazzo quando entrai al servizio di Louis Winthorpe e ho servito fedelmente, da maggiordomo e uomo di fiducia, prima suo figlio e poi suo nipote.
La mia vita fu distrutta un giorno di quindici anni fa, quando il mio padrone prima perse tutto e poi mi rese ricco.
Per la prima volta non avevo più nessuno da servire. All’inizio era una bella sensazione, inebriante. Ma ben presto mi resi conto che non ero capace di vivere quel tipo di vita. Dilapidai in pochi anni tutti soldi che avevo guadagnato in donne e alcool, finché non mi rimase nulla. Meditai il suicidio.
Fu Louis Winthorpe III, il mio benefattore, a salvarmi ancora una volta.
Mi propose di tornare al suo servizio, ma non più come maggiordomo. Aveva bisogno di qualcuno di assolutamente fidato che si muovesse nell’ombra e curasse i suoi affari più importanti. Perciò inscenammo la mia morte, in modo che io fossi a tutti gli effetti un fantasma. D’altra parte ero morto nel 1984.
Circa un anno fa mi mandò a Chicago per contattare Clarence Beeks: quel Beeks, nientemeno! Lo aveva rintracciato tramite Mortimer Duke. Voleva affidargli un incarico delicato: l’assassinio di Billy Ray Valentine.
Quando Beeks rifiutò, mi venne naturale offrirmi per quel lavoro. Io non lo avevo mai sopportato Valentine, odiavo soprattutto la spudoratezza con cui aveva preteso di mischiarsi ai veri ricchi, vivere come loro invece di stare al suo posto e che servirli come gli sarebbe spettato. E poi, minacciava di rovinare il mio padrone.
L’ho ucciso io. Ma non sono stato capace di non farmi scoprire da quel maledetto detective. Avrei dovuto toglierlo di mezzo, l’ho seguito per giorni, ma è stato lui a beccare me.
Sono troppo vecchio e stanco per fuggire ancora. Perciò ho accettato di confessare. Tanto ormai non c’era più niente che potesse rimanere nascosto. Mi spiace soltanto per il signor Winthorpe, e più di tutto per averlo deluso.
*
«Coleman!» Ophelia non tentava nemmeno più di trattenere il pianto. «Sono stata al tuo funerale! Come hai potuto…»
All’improvviso prese un fermacarte dalla scrivania e si scaglio contro il vecchio. La fermai appena in tempo. Si abbandonò nella mia stretta.
«Non così, no. Ascolta.»
Prima quasi indistinguibile, poi sempre più rumoroso, si avvicinava il suono di sirene. Dalla finestra lurida le loro luci sembravano solo altre luminarie natalizie.
Il vecchio maggiordomo si consegnò ai poliziotti senza opporre resistenza e senza guardarsi intorno. Nell’istante in cui li vedemmo uscire dalla porta, il cielo si colorò di fuochi artificiali.