di Paolo Pasi
Paolo Pasi, Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove, ill. di Fabio Santin, elèuthera, Milano 2023, pp. 256, € 18,00.
[«Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla Storia. Un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro gli stranieri, contro i radicali, e ci sembra – anzi, siamo sicuri – che abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare i pregiudizi dei giurati contro di noi. Non abbiamo alcuna fiducia nella legge e nei suoi verdetti. La salvezza è altrove».
In questo nuovo saggio narrativo, che completa la sua personale quadrilogia del Novecento, Paolo Pasi ripercorre la vicenda dei due anarchici Sacco e Vanzetti nella cornice della più ampia epopea delle migrazioni e dei conflitti sociali durante i primi decenni del secolo scorso. Ringraziando la casa editrice elèuthera per la gentile concessione, di seguito si pubblicano le prime pagine del libro – ght]
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Il palco
C’è una sedia al centro del palco. L’allestimento scenografico è pallido, il biancore lattiginoso evoca la sospensione della vita. Fuori, c’è tutto un mondo ad aspettare che qualcosa accada. Innanzitutto, il pubblico dei giudici e dei giurati, di coloro che hanno confermato il verdetto, con parole gonfie di vendetta o con il silenzio della paura. L’America castigata e benpensante del proibizionismo assiste.
Mezzanotte si avvicina. Tra qualche ora Jack si sveglierà e tornerà alla sua vita di contabile, un ufficio stretto su una scrivania e il ticchettio della macchina per scrivere della segretaria a scandire ore, giorni, anni. Oppure un meccanico di nome Simon ricomincerà a bere stanotte, le mani unte di grasso e l’odore dell’officina addosso. Hanno incrociato la storia dei due protagonisti, ma hanno potuto uscirne fuori, mentre loro – gli attori – si sono consumati per anni pensando a questo momento, e nessuna prova è mai stata sufficiente a rassicurarli.
Sul palco ci sono per ora i personaggi minori: il direttore del teatro carcerario e il suo assistente, il medico, il prete che dispensa una consolazione non richiesta. Hanno preso posizione due elettricisti che hanno appena controllato la sicurezza dell’impianto, e l’uomo che darà il via alla rappresentazione.
Tra poco le luci si abbasseranno, una corrente attraverserà la sala, varcherà i muri e arriverà a toccare migliaia di persone che sono rimaste fuori, escluse, sorvegliate a mano armata dalla polizia. Da giorni marciano e cantano per incitare i protagonisti. La loro voce arriva attenuata, qui dentro.
Hanno sfidato le ore e le condizioni del tempo, e perfino le distanze. Milioni di persone come loro, a centinaia o migliaia di chilometri, stanno partecipando a una protesta planetaria. Operai e minatori, fonditori e braccianti. Vorrebbero entrare in sala per fermare lo spettacolo. Tenere le luci accese per evitare che sul palco osceno cali il buio. Reggono in mano fiaccole e cartelli. A differenza di Jack e Simon, dei tanti giudici o giurati d’America, non possiedono nulla, nemmeno l’effimera sicurezza di uno stile di vita da difendere. Parlano lingue diverse, attratti da un miraggio in costruzione da cui sono stati estromessi fin dal loro arrivo. Proletari senza patria, nati in paesi che probabilmente non rivedranno più.
C’è sempre una sedia al centro del palcoscenico. Nulla si muove, per il momento. Tra il pubblico della prima fila c’è William Playfair, cronista dell’agenzia Associated Press. È l’unico giornalista accreditato per lo spettacolo. Ai colleghi ha promesso il maggior numero di dettagli, l’ha fatto per tenerli buoni, l’invidia è feroce e può arrivare a uccidere, ma lui non se ne fa una colpa. Assiste da una posizione privilegiata per una scelta del caso. Il suo nome è stato sorteggiato da una rosa di candidati. Ha promesso un resoconto ricco e articolato per soddisfare ogni sfumatura di testata. Sarà lui a riportare le dichiarazioni dei protagonisti, a descriverne il passo, le espressioni, il modo con cui entreranno e usciranno di scena.
Un addetto alla sicurezza imbocca il lungo corridoio che dà sulle quinte, simile a una bocca dell’inferno. Tra poco sbucherà il volto del primo attore, un comprimario che si è ritagliato una parte fuori misura, con il risultato che sarà anche il primo a uscire. È ai margini della scena, nessuno urlerà il suo nome, o invocherà il suo riscatto. Nessuna ribalta per Celestino.
Poi, a distanza di pochi minuti, si apriranno le porte ai protagonisti. Prima l’uno, poi l’altro. Arriveranno sotto scorta. Forse cammineranno a fatica, con passi strascicati e deboli, forse la loro sarà un’entrata in scena a testa alta, forse saliranno sul palco disegnando ombre, trame di storie mai vissute, ma che sarebbero potute accadere. Prima di quest’ultimo tratto, ci sono milioni di altri passi che li hanno fatti incontrare, portandoli fino a qui. Per sette anni sono stati chiusi in un camerino con le sbarre. Una lunga attesa per arrivare alla sedia.
Le luci si stanno già abbassando. Lo spettacolo sta per cominciare, William Playfair è pronto sul suo taccuino, il respiro sospeso. Ripassa l’ordine di apparizione degli attori, l’occhio gli cade su un nome, sull’ultimo che calcherà il palco. Si chiama Bartolomeo, e ne ha di cose da raccontare.
Non c’è fretta per il finale.
La sua storia inizia ora.
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Paolo Pasi ha pubblicato con elèuthera: Ho ucciso un principio (2017 n.e.), Antifascisti senza patria (2018) e Pinelli, una storia (2019).