di Francisco Soriano 

Sempre sul ciglio dei due abissi / tu devi camminare e non sapere / quale
seduzione, / se del Nulla o del Tutto, / ti abbatterà…: è questo l’esergo, Ultima
lapide, alla silloge Il Grande Male, che ci getta in un dilemma quasi
inestricabile e precipita il cuore del mondo nella seduzione di un interrogativo
inevitabile. David Maria Turoldo incide versi su pietre invincibili, dissemina
dubbi e consapevolezze senza temere che si rimanga fedeli a un’idea sacra di
esseri umani, donne e uomini sospesi sull’abisso del nulla, del perché, del
nonostante tutto, del forse e del giammai.

Il Nulla o il Tutto, comunque, ti abbatterà: incenerisce, destabilizza, incanta al
tempo stesso il lettore, che ricerca in queste parole un cammino che appare
sempre in bilico, forse in equilibrio sul filo sottile di un lungo vagare senza mèta
ma con la visione-prospettiva di una consapevole ricerca. Il dunque è per il
poeta la scansione di uno status, condizione che universalmente attraversa ogni
essere umano. Il poeta definisce, leopardianamente, la misura del dolore: Non un
frammento di cristallo a riflettere / nel pauroso buco nero dell’universo / una
scintilla di luce: / non più che una lacrima / di tua luce / in questa tenebrosa
Notte.

Nulla può essere tralasciato, abiurando alla ragione, o sacrificato al non-senso,
anche nella possente consapevolezza della sua fede in Dio: Non contro te, o
Ragione, ma oltre / ho teso il cuore: / così – lavati i sensi – / con volontà più
calma / varcherò la Notte! Varcheremo la notte, forse, dopo aver teso il cuore
oltre il visibile, il deducibile, il raziocinante, oltre il limite di ciò che ci viene
concesso dal vuoto e dall’inestricabile, imperitura ricerca dell’arcano. Il lume
che arde silenzioso e quasi invisibile nel cuore, tuttavia, non può che infittire la
Notte. L’approdo è incerto, negato è di sapere / come avverrà. Pertanto, è
l’ardimentosa impresa, / anima mia, che di notte in notte / come un cristo
solitario intraprendi / e t’incammini lungo / una via ove né madre né cireneo /
alcuno ti soccorre, / ed è tanto se, caduto, / l’abisso non ti involi. Ogni essere
umano è una monade di sofferenza: ancora sospesi e in fragile equilibrio sul
borro della propria anima nella buia sostanza del viatico; il tutto rischia di
infrangersi ed essere avvolto dal vuoto e il suo labirinto. Che cos’altro può
essere il vuoto, se non un labirinto senza pareti, un vagare senza fili che ci
possano condurre in un disperato ritorno?

Ecco il lume che rende, tuttavia, la stessa oscurità abitabile, e fa della Notte la
casa / sonante di gemiti. E poi il dubbio nelle attese estenuanti: Mio lume: /
desiderio di cosa? / Ricerca che mi consuma… Non si arresta il via vai di
uomini soli, di un’alba sul mondo, ancora una, altra luce, un giorno mai vissuto
da nessuno, ancora qualcuno è nato: con occhi e mani, e sorride. Nessuno in
fondo sa dove dirigersi, nel frastuono dei giorni normali sempre diversi, appena

la notte si avvera e il cielo s’imbrunisce. Infatti tutto deve ancora avvenire nella
pienezza, storia è profezia sempre imperfetta. Ma dove risiede il cono d’ombra,
il piano inclinato, il canto del gallo: Guerra è appena il Male in superficie: il
grande Male è prima, il grande Male è l’«Amore-del-Nulla».
David Maria Turoldo diceva di sé di essere un uomo di poche letture: il libro che
più mi ispira è il volto umano. Quanto debba essere necessario scoprire la
profondità di questa affermazione, oggi, in un mondo sospeso fra nuove
dinamiche, assetti e identità, è chiaro e visibile. La violenza è la negazione
dell’altro, la sua disumanizzazione, la sua cancellazione, è il volto dello
straniero, il barbaro, il nemico. Così come lo si riscontra in Emmanuel Lévinas,
che Turoldo cita nella sua autobiografia. Inoltre egli segnala quanto nell’etica di
questo filosofo sia determinante il faccia a faccia con l’altro, e scopre che in
questa verità è nascosto il segreto supremo della vita, pur nella pessimistica
consapevolezza che il volto che abbiamo di fronte mai si riuscirà ad afferrare per
intero, riconducendolo a noi stessi. Quel volto che non può essere solo una
statistica di dati fisici, bensì la domanda che ci rivolge, che è al contempo una
richiesta di aiuto e una minaccia: è da questa condizione che nascono in
Turoldo l’ordine e l’obbligo. Per il poeta dunque non solo Lévinas, nella ricerca
del senso del male e della violenza che caratterizza l’approccio fra gli uomini
che non intendono riconoscersi se non, molto sovente, con il volto del nemico,
ma il sottolineare quanto Dostoevskij sosteneva, quando affermava che tutti
sono colpevoli per tutti, ma io più di tutti.

Nessuno scampo per il poeta che amava guardare dietro gli anfratti del cuore
umano, apparentemente dentro questa litania di racconti che sembrano narrati
in tanti romanzi e che invece sono sempre inediti e imprevedibili. È il Turoldo
cercatore, che ritrovava nei classici russi la comprensione di quanto, in un
mondo popolato da peccatori, questi ultimi fossero insieme innocenti. Ritrovava
in Dostoevskij la teoria del doppio pensiero, che considerava come una delle più
grandi intuizioni dell’anima umana. Il doppio che gli consentiva la
sperimentazione poetica di cui era artefice profondo, e soprattutto la ricerca del
vortice entro il quale gli esseri umani si dimenano in dubbi e resistenze, ragione
e fede, amore e odio. Dagli opposti e dalla reticenza, non solo come figure
retoriche all’interno dei testi, Turoldo traeva energia e plastica fantasia,
creatività.

Restano le parole a scandagliare gli spazi e gli spiriti abitati da altri spiriti a
volteggiare in un vuoto in cui l’ultima àncora di salvezza rimane la pietà
cristiana come il solo baluardo in cui sia possibile odiarsi e amarsi nella polvere
del mondo.

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