di Sandro Moiso
Simone Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 265, 20 euro.
William Edward Burghardt Du Bois, uno dei primi intellettuali e militanti della causa afro-americana, nel suo libro The Souls of Black Folk (1903), affermò che il vero problema del XX secolo sarebbe stato rappresentato dalla linea del colore ovvero, come si può facilmente intendere, dalla incapacità di sopprimere la netta linea di demarcazione razziale che separa gli appartenenti alla presunta “razza bianca” da tutti gli altri popoli.
In realtà Du Bois, sociologo, storico, attivista dei diritti degli afro-americani, saggista, poeta, iscritto dal 1961 al Partito Comunista degli Stati Uniti, parlava soprattutto della situazione interna alla sua patria d’origine dove, nel 1868, era nato nel Massachusetts; ma la sua profetica previsione si è in seguito rivelata fondata, sotto molti punti di vista, ben oltre le linee temporali del secolo passato.
Quella intuizione, che avrebbe fatto sì che W.E.B. Du Bois si battesse per tutta la vita per il riconoscimento dei diritti degli afro-americani ha alimentato le riflessioni sul problema della separazione razziale e del razzismo ad essa intrinsecamente connesso fino ai nostri giorni, spesso affiancata al pensiero di Frantz Fanon. Esattamente come, indirettamente, sottolinea l’opera di Simone Browne pubblicata ora anche in Italia da Meltemi nella collana «Culture radicali» sotto la direzione del Gruppo Ippolita, gruppo di ricerca indipendente che si occupa di cultura digitale, critica della rete e tecnopolitica.
In Materie oscure/Dark Matters, Simone Browne, che si occupa di diaspora nera, media digitali e sorveglianza presso il Dipartimento di Studi Africani e della Diaspora Africana dell’Università del Texas, dove insegna Black Studies, fa parte del collettivo cyber-femminista “Deep Lab” ed è direttrice di ricerca del “Critical Surveillance Inquiry”, un gruppo di lavoro che prende in esame le implicazioni sociali ed etiche delle tecnologie di sorveglianza, traccia una genealogia delle tecnologie e delle pratiche di sorveglianza contemporanee, mostrando come queste derivino da una lunga storia di discriminazioni razziali perpetuate dagli oppressori bianchi per controllare le vite e i corpi delle persone nere schiavizzate.
In questo suo primo libro, esamina e mette in relazione la sorveglianza digitale, la schiavitù transatlantica e le tecnologie biometriche. Le fonti prese in esame sono molteplici: dal progetto della nave negriera Brooks al Panopticon di Jeremy Bentham, fino alla biometria e ai bias algoritmici delle piattaforme digitali.
La sorveglianza è una pratica discorsiva e materiale – sostiene Browne – che reifica i margini, i confini e i corpi lungo le linee della razza. La sorveglianza della nerezza è stata e continua a essere una norma sociale e politica da contrastare. Ma, come ancora indirettamente dimostra la presente opera, le tecniche usate per definirla e controllarla si sono ampliate oggi a tal punto da far sì che la profilazione degli individui e dei corpi sociali riguardi ormai una gran parte, se non la totalità, degli esseri umani sottoposti alla vigilanza del capitale e dei suoi scherani, armati o meno che siano.
Browne ci ricorda come, ancora una volta, sia stato proprio Frantz Fanon a intuire, durante le lezioni che ebbe modo di tenere all’Università di Tunisi, dopo che nel gennaio del 1957 le autorità francesi lo avevano espulso dall’Algeria per aver collaborato con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, che la modernità potesse essere caratterizzata dalla profilazione dell’essere umano.
Nonostante di queste lezioni non rimangano altro che pochi appunti, le osservazioni di Fanon sul monitoraggio delle chiamate e sui sistemi di telecamere a circuito chiuso sono essenziali. Grazie a questi appunti possiamo comprendere l’analisi che Fanon propone dell’alienazione e degli effetti della modernità e la sua lettura critica sulla sorveglianza e le relative forme di resistenza1.
Le ricerche dell’autrice rivelano, fin dalle prime pagine del libro, come per i servizi di sicurezza e spionaggio americani Frantz Fanon rimanga, a più di sessant’anni dalla morte, ancora «materia innominabile: anche da morto, a quanto pare, rimane una minaccia “a oggi propriamente classificata”, così come “le prove che possano attestare l’esistenza o la non esistenza” di un registro riguardante Fanon “sono informazioni che fanno parte di fonti e procedure protette dalla divulgazione”».
La documentazione relativa a Fanon consultabile grazie alla legge sulla libertà di informazione fa parte di una lunga storia di pratiche di spionaggio riguardanti un largo numero di radicali, artisti, attivisti e intellettuali neri tenuti sotto controllo dall’FBI. Questa lista include Assata Shakur, James Baldwin, Lorraine Hansberry, Stokely Carmichael, il Comitato studentesco per la coordinazione non-violenta, i Freedom Riders, Martin Luther King Jr., Elijah Muhammad e la Nation of Islam, Claudia Jones, Malcolm X, Fred Hampton, William Edward Burghart DuBois, Fannie Lou Hamer, Cyril Lionel Robert James, Mumia Abu-Jamal, Angela Yvonne Davis, Richard Wright, Ralph Ellison, Josephine Baker, Billie Holiday, le Pantere Nere, Kathleen Cleaver, Cassius Clay, Jimi Hendrix, Russell Jones aka Ol’ Dirty Bastard dei Wu-Tang Clan, e molti altri ancora2.
Tutti accomunati, come si può facilmente notare da un’unica caratteristica: la nerezza e l’esser afro-americani. Questa osservazione ci permette così di entrare nel merito del discorso sviluppato da Simone Browne e già parzialmente anticipato prima. In cui si rileva che
piuttosto che pensare alla sorveglianza come qualcosa di inaugurato dalle nuove tecnologie, come ad esempio il riconoscimento facciale o i veicoli a guida autonoma (o i droni), è necessario intenderla come un processo che affonda le proprie radici nel passato e che continua a svilupparsi nel presente. Questo permette di ribadire la necessità di tenere in considerazione quanto il razzismo e l’anti-nerezza siano elementi strutturali e una delle basi delle varie intersezioni delle sorveglianze contemporanee3.
Sostanzialmente la mentalità razzista, che sovrintendeva alla tratta atlantica degli schiavi e all’organizzazione del loro controllo e trasporto da un parte all’altra del mondo, di fatto ha anticipato le norme del controllo sociale contemporaneo attraverso la registrazione, la marchiatura e l’assicurazione sugli stessi per garantirne la proprietà dei “bianchi”. Cosicché l’opera di catalogazione giudiziaria, razziale, economica, sociale, mercantile, di genere e di classe che risulta dagli attuali processi di profilazione diffusa attraverso l’uso di strumenti di controllo non solo polizieschi ma, e forse soprattutto, volontari per mezzo dei social media e delle disparate piattaforme di comunicazione personale e commerciale, trova le sue origine in pratiche messe in atto fin dal XVIII secolo.
Questi corpi, ridotti a pacchetti di informazioni, vengono stoccati in immensi database in cui confluiscono tutti i dati raccolti su larga scala. Storicamente, cronache di simili pratiche di contabilità possono essere trovate nelle distinte delle navi negriere, nelle polizze assicurative ai proprietari degli schiavi, nella marchiatura come tecnologia di tracciamento della nerezza, per garantire che quei corpi venissero identificati come proprietà privata4.
Da qui deriva anche il titolo del libro poiché quel Dark Matters fa riferimento alla razza: «dove la razza, come sostiene Howard Winant, “continua a essere la materia oscura, la sostanza il più delle volte invisibile che struttura l’universo della modernità”»5. Un universo-mondo strutturato secondi rigidi schemi divisivi che, però, pian piano si sono espansi ben al di là della funzione di controllo della schiavitù per diventare norma esistenziale per gli appartenenti ai gruppi sociali classificati come potenzialmente pericolosi poiché caratterizzati dalla nerezza secondo lo sguardo indagatore del sistema “bianco”
e capitalistico.
Sguardo indagatore che a partire dall’osservazione sociologica canonica «avrebbe contribuito a trasformare ‘l’osservazione’ in una tecnica epistemologica ‘oggettiva’, a vantaggio del potere statale moderno. In questa maniera è stato possibile definire la sorveglianza come una pratica scientificamente accettabile e socialmente necessaria. Ciò faceva sì che il sociologo, in quanto osservatore, si sentisse al sicuro e separato dalle pratiche oscene degli uomini, delle donne e dei bambini afroamericani»6.
Un processo che, però, si è andato progressivamente allargando a tutto il corpo sociale, occorre dirlo, anche non caratterizzato dalla “nerezza”. In cui lo sguardo inizialmente rivolto allo schiavo o, per dirla con Ralph Ellison, all’uomo invisibile si è rovesciato anche contro l’osservatore primigenio.
Osservazione, quest’ultima, che, più che sminuire la traccia specifica della ricerca di Browne riguardante la condizione determinata dalla “nerezza”, intende invece sottolineare come la scarsa o nulla capacità della classe operaia bianca di accogliere le istanze del proletariato nero e farsene portatrice in nome di una comune lotta per la liberazione reciproca, sia di classe che di genere, ha finito col condizionarla fino a renderla incapace di difendere i propri interessi materiali e politici.
Proprio come, già nel XIX secolo, Marx ed Engels avevano previsto quando rimproveravano gli operai inglesi, incapaci di difendere gli operai irlandesi immigrati e sottomessi e, per questo motivo, destinati a veder inscritti nei propri comportamenti la condanna e l’immancabile sconfitta. Economica, sociale e politica.
Comunque fin dall’origine del sistema di fabbrica con «i timbracartellini che tengono traccia del tempo trascorso dagli operai in fabbrica, fino a forme più onnipresenti di osservazione, monitoraggio della produttività e raccolta di dati, come la visualizzazione remota del desktop o il software di monitoraggio elettronico che tiene traccia dell’uso di Internet da parte dei dipendenti al di fuori del lavoro»7 i metodi di sorveglianza dei comportamenti sul lavoro e nella vita privata hanno costituito un elemento essenziale dell’ordinamento sociale e statale di stampo capitalistico. Destinato ad ampliarsi sempre più nei confronti di ogni categoria e classe sociale.
Il termine “ordinamento panottico” di Oscar Gandy designa i processi attraverso i quali la raccolta di dati relativi a individui e gruppi come “cittadini, dipendenti e consumatori” viene utilizzata per identificare, classificare, valutare, ordinare o comunque “controllare il loro accesso ai beni e ai servizi che caratterizzano la vita nella moderna società capitalista”. Un esempio è l’applicazione di punteggi di fiducia da parte degli istituti di credito, per valutare l’affidabilità creditizia dei consumatori o per il marketing mirato delle offerte di finanziamento per speculare grazie a prestiti ad alto tasso di interessi. L’ordinamento panottico privilegia alcune persone, penalizzandone altre. Questi concetti – sospetto categorico, selezione sociale, società di massima sicurezza, guinzaglio elettronico, controllo partecipato, ordinamento panottico – insieme a quello di “assemblaggio del soggetto sorvegliato”, sono alcuni dei modi in cui la ricerca è giunta a teorizzare la sorveglianza. L’assemblaggio del soggetto sorvegliato vede il corpo umano osservato prima “scomposto, perché sottratto al suo contesto territoriale”, e poi riassemblato altrove (ad esempio, in una banca dati per la rendicontazione del credito) per essere usato come un “doppio digitale” fatto di dati o come strumento di confronto. Ne sono un esempio i calcoli per l’affidabilità creditizia o le analisi delle urine nei test antidroga, in cui il campione biologico viene raccolto e analizzato per verificare l’uso di sostanze8.
Per questo motivo, prendendo a modello l’opera di Foucault in cui «lo sguardo disciplinare del Panopticon è l’archetipo del potere della modernità», fin dal primo capitolo l’autrice sottolinea che «anche la nave schiavista deve essere intesa come un’operazione del potere della modernità e come parte della violenta regolamentazione della nerezza» e prende in esame il Panopticon (1786) e il progetto della nave schiavista Brooks (1789) per ciò che svelano sulla sorveglianza, sulla razza e sulla produzione di conoscenza. Mentre nei capitoli successivi il discorso sulla sorveglianza viene approfondito attraverso l’analisi del Book of Negroes, un registro del XVIII secolo che elenca tremila ex schiavi che una volta emancipatisi dalla schiavitù si imbarcarono principalmente su navi britanniche; le tecnologie biometriche e il loro ruolo nella formazione della razza afroamericana, a partire dalla marchiatura degli schiavi, che, come la tecnologia di riconoscimento delle impronte digitali e le scansioni della retina, “riducono la carne a pura informazione”; fino all’«ondata di dirottamenti aerei [che] all’inizio degli anni Settanta portò infine alla legge antidirottamento o Air Transportation Security Act del 1974, firmata da Nixon il 5 agosto 1974, quattro giorni prima delle sue dimissioni», introducendo il concetto di bagaglio razziale per descrivere quanto la razza e il razzismo pesino su determinate persone in aeroporto.
Una rassegna storica, sociale e politica che permettere di cogliere in profondità le radici e le forme del controllo che pervadono la società nel suo insieme e opprimono le sue componenti razzializzate in particolar modo. Un testo lucido che può mettere in discussione non solo le esigenze di controllo spacciate come esigenze di sicurezza nazionale o sociale, ma anche le più recenti teorie del controllo collegate alle proteste contro il green pass e le vaccinazioni. Utile, quindi, come tutto ciò che permette di superare criticamente l’effimero stato delle cose presente e le sue illusioni, di regime oppure solo superficialmente antagoniste.
S. Browne, Materie oscure / Dark Matters. Sulla sorveglianza della nerezza, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 14-15. ↩
S. Browne, op.cit., pp 9-10. ↩
Ivi, p. 19. ↩
Ivi ↩
Ivi, p. 20. ↩
R. Ferguson, Aberration in Black Toward a Queer of Color Critique, University of Minnesota Press 2003, p. 77 cit. in S. Browne, op. cit., p. 22. ↩
S.Browne, pp. 35-36. ↩
Ivi, pp. 31-32. ↩