di Sandro Moiso
Carl Safina, Il viaggio della tartaruga, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 624, 32 euro
«Qui videro mandrie così mostruose di balene, che furono costretti a procedere con molta cautela, per evitare di investirle.» (Willem Cornelisz Schouten, The Relation of a Wonderfull Voiage made by Willem Cornelison Schouten of Horne. Shewing how South from the Straights of Magelan in Terra Delfuego: he found and discovered a newe passage through the great South Seaes, and that way sayled round about the world, London 1619, citato da Herman Melville in Moby Dick)
Inconsapevolmente sulle tracce di Moby Dick e del capitano Achab, ogni amante della Natura dedito ad inseguire il poco che è rimasto di un mondo selvaggio e quasi de tutto scomparso dovrebbe affrontare la lettura dell’ultima opera di Carl Safina edita da Adelphi nella collana «Animalia». Ma anche chi non coltivi vacanze e viaggi avventurosi ai confini del mondo, ma sia comunque preoccupato per la rapidità con cui il vigente modo di produzione sta procedendo alla distruzione dell’ambiente, del pianeta e delle specie che lo abitano dovrebbe leggere questo libro, a metà strada tra relazione scientifica e poema epico di stampo melvilliano.
Carl Safina (Brooklyn, 1955) è un biologo statunitense, autore di numerosi libri ed altri scritti sulla relazione tra gli esseri umani e il mondo naturale, tra i quali questo è il terzo ad essere pubblicato dalle edizioni Adelphi. Gli altri due sono: Al di là delle parole, pubblicato nel 2018 e con cui è stata inaugurata la medesima collana, e Animali non umani (2022). Tutte opere con cui ha vinto numerosi premi letterari e non, mentre il suo impegno scientifico è stato sempre accompagnato da un vivace impegno in difesa dell’ambiente e, soprattutto, dei mari e delle specie che li abitano; anche attraverso le ridefinizione delle leggi internazionali che regolamentano la pesca .
In generale, però, l’autore con i suoi studi ha cercato, a partire da Al di là delle parole, di sottolineare non soltanto i tratti evolutivi che ci legano agli altri animali (dai pesci ai primati) sul piano morfologico e genetico, come già hanno contribuito a ricostruire le scienze biologiche negli ultimi decenni, ma a verificare l’incidenza di quei tratti a livello cognitivo e affettivo-emotivo. Cercando di penetrare in un ventaglio di intelligenze, «coscienze» e «visioni del mondo» di altri animali – con cui condividiamo molti «correlati neurali», a partire dal cervello «antico» e dalla sua tastiera emotiva – insieme familiari e aliene, contigue e alternative. Al punto da mettere in dubbio, ancora una volta, la tesi secondo la quale l’uomo sarebbe la misura di tutte le cose.
Oltre tutto, mettendo in discussione il pregiudizio diffuso secondo cui la «cultura» sarebbe un tratto distintivo ed esclusivo di dell’Homo sapiens. Safina ha così contribuito a demitizzare l’«unicità» di tante nostre facoltà o comportamenti: il che vale per gli strumenti tecnologici, per le capacità linguistico-musicali o per le cure e gli insegnamenti parentali. In questa particolare e innovativa visione le varie specie prese in esame nei libri precedenti non sono più dunque semplici tessere del mosaico della vita, ma dimostrano la loro contiguità rispetto all’uomo.
Il testo appena pubblicato da Adelphi e pubblicato in origine nel 2007 con il titolo Voyage of the Turtle. In Pursuit of the Earth’s Last Dinosaur, come si comprende fin dal titolo, si occupa di una delle specie apparentemente più lontane dall’Uomo e, soprattutto, molto più antica dello stesso, oltre che di molte altre specie animali.
Esiste una presenza, nell’oceano, che raramente cogli nelle ore di veglia, e che visualizzi meglio nei sogni. Mentre scivoli nel sonno, le tartarughe cavalcano la curva degli abissi, cercando respiro in superficie e ispirazione dal cielo; dalle placide insenature tropicali, o dalla schiuma che sibila in vortici da incubo, affiorano non viste a condividere la nostra aria. Ogni brusca espirazione afferma: «La vita resiste, nonostante tutto ». Ogni inalazione profonda è un giuramento: «La vita continuerà». Ogni loro respiro è una dichiarazione alle stelle e al silenzio indomito. Di notte e con la luce, le tartarughe marine sempre si librano in quel loro universo parallelo stranamente alieno, eppure intrecciato con il nostro.
Cavalcando le maree mutevoli nell’oceano turbolento, e senza resistere ad alcun impulso, si spostano: non motivate dal desiderio, dall’amore o dalla ragione – ma regolate da una saggezza più antica del pensiero, e quindi forse più meritevole di fiducia. Attraverso torride lagune azzurre come gemme, in verdi acque impetuose e fredde, questi angeli dell’abisso avanzano remando – progenitori del nostro mondo, antichi e senza età.
Ultimo mostro rettiliano dal sangue caldo rimasto sulla Terra, tutta avvolta nella sua pelle, la Tartaruga Liuto, i cui antenati videro dominio e caduta dei dinosauri, è lei stessa quanto di più vicino ci sia a un dinosauro vivente. Immaginate una tartaruga di trecentosessanta chilogrammi e non avrete visualizzato che una Liuto femmina di media taglia: è un animale che può pesarne più di novecento1.
Con uno stile che mescola la poesia alla scienza, Safina ci introduce letteralmente in un altro mondo, più antico, primitivo, semplice e profondo. Quello di una specie abituata ad attraversare gli oceani, forse da milioni di anni. Esseri viventi che, più ancora di altri che l’avidità dell’attuale modo di produzione e riproduzione del mondo ha contribuito già in precedenza a distruggere e a far scomparire, appartengono a un passato in cui l’uomo non esisteva nemmeno nelle sue forme primordiali e precedenti il Sapiens. Ultimi testimoni di ere lontane, destinati ad essere sempre più spesso soffocati da una modernità fatta di materie plastiche che ingerite, in un mare sempre più invaso da rifiuti e PVC, costituiscono ormai il maggior pericolo per la loro sopravvivenza.
Le cosmogonie di molti angoli delle Americhe convergono sulla conclusione che a creare il mondo sia stata una tartaruga. […] Una delle cose che apprezzo di queste storie è che – invece di attribuire l’incantesimo della creazione a un dio remoto che opera a distanza e trattiene in cielo i suoi poteri, come fanno le religioni monoteiste occidentali (anche considerando il subdolo pantheon politeista del cristianesimo) – esse sembrano più saggiamente impregnare d’un senso del miracoloso il mondo a noi vicino e i suoi personaggi.
In alcune parti del Nord America si narra che prima della comparsa sulla Terra degli esseri umani un Signore del Cielo avesse sradicato un grande albero, creando una voragine. Sua moglie ci guardò dentro e vide le stelle brillare nell’oscurità. Curiosa, si sporse troppo – e cadde. Giù, giù, giù, cadde tra le stelle. Gli animali che nuotavano nelle grandi acque del mondo sottostante alzarono lo sguardo. Rapidamente tennero un consiglio e decisero che la Strolaga e l’Anatra dovessero interrompere la sua caduta con le loro soffici ali, e che la donna dovesse posarsi sull’ampio dorso della Tartaruga. Mentre la Signora del Cielo dormiva esausta, il Castoro, la Lontra e il Topo Muschiato s’immersero nel mare cosmico, riportandone del fango con cui coprire il dorso della Tartaruga. Il terreno posato sul guscio andò estendendosi sempre di più, e ben presto le dimensioni del mondo aumentarono: comparvero i corsi d’acqua – e germogliarono alberi, arbusti, erbe, grano e altre piante. Quando la donna si svegliò, si rallegrò e benedì ciò che aveva intorno. E dunque questo mondo, che viaggia a cavallo della Grande Tartaruga in un mare sconfinato, è l’Isola della Tartaruga2.
Non è un caso che in tante ricostruzioni della creazione del mondo diffuse tra le popolazioni del Nuovo Mondo, ben da prima della comparsa invasiva dell’”Uomo bianco” e della sua brama di conquista e appropriazione di ogni risorsa animata e inanimata, avessero al loro centro una delle creature più antiche ancora esistenti sulla faccia della Terra. Rivelando, in fin dei conti l’intimo legame esistente tra le culture e le società che producevano tali ricostruzioni delle origini e la natura in cui erano ancora per gran parte immerse.
L’autore, biologo e direttore di centri di ricerca scientifica, sceglie di usare un linguaggio e uno stile espositivo ben più ricco e vario di quello “freddamente” scientifico cercando, probabilmente, di superare quella separazione tra scienza e natura, nata con la scienza moderna per meglio osservare l’universo circostante con obiettività e distacco, ma che ha finito con l’allontanare sempre più la specie umana dal mondo circostante e dalla sua intrinseca poesia. Finendo così col portare la prima a sottovalutare il secondo, fino a giungere inesorabilmente al precipitare degli eventi climatici e ambientali di cui siamo attualmente testimoni.
Testimoni di un cambiamento e di una distruzione che non è semplicemente di carattere antropico, come qualcuno vorrebbe frettolosamente liquidare generalizzando responsabilità che sono specifiche di un modo di produzione e non della specie nel suo complesso, ma che si è accelerata nel corso degli ultimi secoli e, ancor più, degli ultimi decenni. Distruttività e devastazione accelerate che gli eventi riguardanti le tartarughe Liuto di cui si occupa in particolare il libro di Safina ci aiutano a comprendere ancora meglio nei loro effettivi tempi di avanzamento e diffusione.
Quando le navi europee, con le vele spiegate al vento, puntarono a ovest e a sud, i mari caldi e temperati del pianeta erano ancora pieni di tartarughe marine, ii cui numero era forse nell’ordine dei miliardi. Con ogni probabilità, per ogni tartaruga marina oggi vivente, in passato ve n’erano cento. Solo nell’ultimo secolo molte popolazioni sono declinate del 90 per cento.
Per noi è difficile concepire l’abbondanza di forme di vita presenti negli oceani all’inizio dei tempi moderni. Il secondo viaggio di Cristoforo Colombo, iniziato nel 1493, ci offre, per esempio, quest’istantanea: «In quelle venti leghe … il mare era denso di tartarughe …così numerose da sembrare che le navi dovessero arenarvisi, ed erano come immerse in esse ». […] Spettacoli simili trasmettevano chiaramente l’impressione – sempre sbagliata – di una fauna selvatica inesauribile. I nativi avevano già decimato alcune piccole popolazioni nidificanti: niente in confronto al massacro che di lì a poco sarebbe stato perpetrato dagli europei. Soprattutto nei Caraibi, in epoca coloniale, le tartarughe patirono un colpo durissimo. Subito dopo l’insediamento degli europei, le Tartarughe Verdi – specie preferita e alimento base tanto degli equipaggi delle navi quanto dei coloni in arrivo – divennero oggetto d’un commercio così intenso ed esteso da innescare un’ondata di estinzioni locali in siti importanti per la nidificazione.
Nel 1610, a Bermuda, un colono osservava che « lungo le coste … Tartarughe, Pesci e Uccelli selvatici abbondano come la polvere della terra ». Nel 1620, solo undici anni dopo la colonizzazione, Bermuda era stata già a tal punto sfruttata che per proteggere le tartarughe più giovani il parlamento locale promulgò una legge, forse la prima varata nel Nuovo Mondo all’insegna della conservazione3.
Ecco allora che ricordi di navigazione e testimonianze dei primi esploratori, e dei loro successivi seguaci, confermano quel chiodo d’oro, individuato dagli scienziati del clima, che segna la fase di inizio della devastazione ambientale legata alla azione umana successiva all’avvento delle prime forme del capitalismo commerciale e poi, in seguito, industriale: il Cinquecento, con le sue esplorazioni, conquiste (coloniali e scientifiche) e distruzioni di popoli ritenuti “non umani” in quanto non cristiani e specie animali (destinate a un consumo vorace oppure alle prime forme di trasformazione artigianal-industriali)4.
Ma fermare l’analisi del libro di Safina, una volta giunti a questo punto, sarebbe ancora troppo riduttivo, visto la quantità di dati scientifici, storici, antropologici e biologici su cui lo stesso si basa. Dalla descrizione delle popolazioni che in varie parti del mondo, spesso lontane tra loro, e su differenti oceani si misurano, spesso limitandola, con l’esistenza delle tartarughe marine ai lunghissimi viaggi di queste ultime oppure alla complessità delle forme di vita presenti negli oceani e nei loro abissi.
[…] i Pesci Spada sono predatori visivi. Hanno bisogno di un’ottima vista e della capacità di reagire velocemente, eppure spesso cacciano di notte o in profondità, dove tutto – anche durante il giorno – è in penombra come fosse illuminato solo dalle stelle. (Nel 1967 un Pesce Spada colpì il sommergibile di ricerca Alvin a una profondità di oltre seicento metri; il rostro gli s’incastrò in un giunto, così venne trascinato in superficie, dove poi ricercatori ed equipaggio lo mangiarono). A quelle profondità il freddo rallenta anche i tempi di reazione e compromette la vista. Oltre alla sua letale baionetta, però, il Pesce Spada possiede un’arma segreta nascosta nel cranio: un muscolo unico nel suo genere, che brucia energia senza generare alcun movimento, giacché la sua sola funzione è di produrre calore per riscaldare il cervello e gli occhi durante la caccia nei gelidi abissi, conferendo al suo possessore una vista superiore e dandogli un vantaggio rispetto alle sue prede dal cervello freddo. Nelle cellule di questo strano muscolo mancano le proteine che di solito si contraggono per produrre il movimento; tutta l’energia è invece convertita in calore […] Riscaldando il sangue che scorre nel cervello e dietro agli occhi, il Pesce Spada può mantenere quegli organi fondamentali a temperature di circa 15 °C superiori rispetto all’acqua circostante. Le cellule della retina di un occhio raccolgono la luce; i nervi inviano poi segnali al cervello, a intervalli periodici, come l’otturatore in una telecamera. Le basse temperature aumentano il « tempo di esposizione » nella retina, così che il cervello deve aspettare più a lungo per ogni segnale. A 22 °C gli occhi di un Pesce Spada possono discriminare più di quaranta flash luminosi al secondo, mentre a una temperatura di 10 °C ne distinguono soltanto cinque […] A una profondità di cento metri, gli occhi mantenuti caldi offrono a un Pesce Spada una vista dieci volte più acuta di quella che avrebbe se si trovassero alla stessa temperatura dell’acqua. Anche la penombra aumenta il tempo di esposizione nell’occhio. A circa 500 metri l’oscurità cancella il vantaggio offerto dal calore, e infatti i Pesci Spada ci si spingono solo di rado. […] Quello strano muscolo che riscalda la testa dà loro accesso a una maggiore estensione di oceano e a riserve di cibo che sono fuori dalla portata di altri cacciatori. In mare, le teste calde hanno la meglio.
Quando poi un Pesce Spada ha bisogno di riscaldare tutto il proprio corpo e di digerire, si sposta verso l’alto e viene a prendere il sole in superficie – a portata di arpione5.
Questa è soltanto una delle tante considerazioni e osservazioni scientifiche che, con uno stile sempre brillante, vengono offerte dalle pagine del libro alla riflessione del lettore. Così da ricordargli sempre che lo stupore, la meraviglia o la rabbia per la sua devastazione e/o scomparsa devono essere costituire motivi fondamentali per approcciare un mondo molto più complesso e interagente con la nostra specie in maniera molto più profonda di quanto si possa dedurre dalle esposizioni fiaccamente divulgative oppure marchiate tristemente dalle necessità di trarre profitto tipiche del capitale e dei suoi funzionari economici, politici, tecnico-scientifici o mediatici.
I quali non hanno mai saputo cogliere, per ignoranza o convenienza, la semplice verità espressa da Henry David Thoreau (1817-1862), posta in esergo al volume, che va ben al di là del significato più immediato e che, in fin dei conti, ci riguarda tutti. Tutti noi, esseri appartenenti ad una società tutt’altro che perfetta e, allo stesso tempo proprio per questo, incapace di riconoscere l’armonia, talvolta dai toni violenti, espressa dalla natura che ci circonda.
Sono colpito dal fatto che la terra si prenda cura delle uova delle tartarughe. Vengono piantate nel terreno, e la terra se ne occupa: è amorevole con loro, e non le uccide. Ciò suggerisce una certa vitalità ed intelligenza della terra, di cui non mi ero mai reso conto. Questa madre non è meramente inanimata e inorganica. Anche se mamma tartaruga abbandona la propria progenie, la terra e il sole sono gentili con le uova. Mentre la madre che le ha appena deposte se ne va arrancando, una più vecchia tartaruga, ormai scomparsa e sepolta sotto strati di terra, si prende cura di loro. La terra non è velenosa e mortale, ma ha delle virtù: quando in essa vengono posti dei semi, germogliano; quando si tratta di uova di tartaruga, si schiudono al momento giusto.
C. Safina, Il viaggio della tartaruga, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 20-21. ↩
C. Safina, op. cit., pp. 319-320. Per un’altra descrizione simile della creazione del mondo si veda Frank B. Linderman, Attorno al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza 2023. ↩
C. Safina, op. cit., pp. 320-321. ↩
Si veda in proposito: S.L. Lewis, M.A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019. ↩
C. Safina, op.cit., pp. 249-250. ↩