di Gioacchino Toni
«La storia del cinema militante è legata alla storia dei movimenti di opposizione. Dalla sua rinascita lenta (dagli inizi degli anni Sessanta alla sua fioritura nel 1968), ha riguardato, in Italia come altrove, la nuova sinistra e non la sinistra tradizionale». Così scrive Goffredo Fofi, Breve storia del cinema militante (elèuthera 2023), sottolineando come la storia del cinema militante coincida in buona parte con quella intensa “stagione dei movimenti” che ha abbracciato gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Se fino al ’68 in Francia e in Italia si hanno opere documentarie a carattere politico-sociale derivate dalla tradizione del Fronte Popolare, della Resistenza o di matrice neorealista, esiste anche «un passato del cinema militante legato ai grandi momenti di riscossa proletaria e all’emergere dei conflitti di classe in modi più radicali». Si pensi, ad esempio, alle sperimentazioni sovietiche e weimariane che hanno saputo riprendere i linguaggi dei movimenti di avanguardia. L’abbandono della vena avanguardista operata dal cinema ha comportato una sorta di “ritorno all’ordine” che lo ha visto normalizzare i suoi canoni linguistici e attenuare la sua spinta eversiva.
Una rottura che, sostiene Fofi, nella stagione dei movimenti è stata addirittura approfondita dal cinema militante salvo poche eccezioni come i francesi Jean-Luc Godard e Chris Marker, l’argentino Fernando Solanas, lo statunitense Emile de Antonio che hanno saputo fare i conti con la presenza dei mezzi di comunicazione di massa che si sono sviluppati in Germania, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta come strumenti privilegiati della manipolazione del consenso.
Quali che siano le soluzioni cui questi registi cercano di rifarsi (rifiuto o uso rovesciato dei linguaggi dei massmedia), è con i loro linguaggi e non con quelli delle minoranze artistiche rivoluzionarie (sia pure solo nelle forme) che essi perlopiù si confrontano. Più in generale, si può affermare che se di influenze definibili come “d’avanguardia” si può trattare per il miglior cinema militante dei nostri anni, esse vengono dal cinema stesso (le nouvelles vagues; il cinema-verità; il documentario televisivo; nel caso francese anche Alain Resnais).
Oltre a ricordare che vi è stato anche un cinema militante di destra – si pensi al ricorso al linguaggio cinematografico fascista, nazista e da parte del regime di Vichy in Francia –, Fofi invita a prendere atto di come dal punto di vista formale si riscontrino evidenti analogie nelle cinematografie votate all’indottrinamento al di là dei contenuti e dei messaggi di segno diverso. Linguaggi che intendono «indottrinare e non spiegare, commuovere e non far ragionare, esaltare ma non far riflettere» si ritrovano tanto in opere smaccatamente propagandiste quanto di descrizione e polemica sociale.
Sul versante italiano, tra i pochi esempi che nel corso degli anni Sessanta hanno anticipato le produzioni cinematografiche più strettamente militanti sorte attorno al ’68, Fofi ricorda Scioperi a Torino (1962) di Paolo e Carla Gobetti, con commento di Franco Fortini, ove si documenta lo sciopero alla Lancia, un episodio che contribuirà a dare il via a un nuovo e radicale ciclo di lotte operaie in Italia.
In ambito francese il cinema militante sorto attorno al ’68 può contare su di una scena cinematografica molto vitale e innovativa già a partire dalla fine degli anni Cinquanta e contraddistinta non solo dalla nouvelle vague dei “Cahiers du cinéma” con registi come Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Éric Rohmer, ma anche dalle opere di autori come Alain Resnais, Chris Marker, Agnès Varda, Alain Robbe-Grillet e Marguerite Duras.
l festival di Cannes e di Pesaro del 1968 si rivelano momenti di acceso dibattito a proposito del significato da attribuire al cinema che si vuole militante e delle forme con cui dovrebbe essere realizzato. Se in Francia il cinema militante trova le sue strade in esperienze come quelle dei cinétracts, i “film-volantino”, e nel ricorso al 16 mm per riprendere le lotte, in Italia nascono esperienze come quella del Collettivo Cinema Militante (CCM) vicino alla nuova sinistra o del gruppo dell’ANAC e dei cinegiornali liberi, attorno rispettivamente a Francesco Maselli e a Cesare Zavattini, più legati al PCI. Parallelamente a tali esperienze, intellettuali e autori come Marco Bellocchio, Lou Castel, Mario Schifano e Francesco Leonetti si prestano a supportare l’attività di qualche neonato gruppo politico realizzando però «operazioni agiografiche, colorate alla moda cinese» che, secondo Fofi, «è gran bene dimenticare» .
Il cinema militante italiano perde di autonomia prima ancora di riuscire ad affermare una sua fisionomia. La sua funzione, passata e presente, sembra essere stata soltanto quella di aver costituito un enorme archivio delle lotte di quegli anni, che aspetta ancora chi sappia utilizzarlo in grandi operazioni di sintesi, lasciando per il momento che a saccheggiarlo sia la tv. Manifestazioni, scontri, interviste; manifestazioni, scontri, interviste… Il cinema militante italiano non contiene molto d’altro, né è riuscito a filmare manifestazioni e scontri e interviste in modo diverso da quello della tv. Quando ha tentato l’inchiesta (con alcuni film di fabbrica) non è mai riuscito ad andare oltre la superficie del medio giornalismo televisivo.
In ambito francese, la diversa matrice culturale e l’esperienza cinematografica dei suoi autori, tra cui spiccano Marker e Godard, ha invece, sostiene Fofi, permesso modalità di cinema militante decisamente più interessanti. Tra le esperienze più importanti tese anche a sperimentazioni linguistiche l’autore cita quelle del godardiano “Dziga Vertov” di ispirazione “filocinese”, del markeriano “SLON” (Service de Lancement des OEuvres Nouvelles), divenuto nel 1974 ISKRA, (Image, Son, Kinescope et Réalisations Audiovisuelles), più aperto nei confronti dei sindacati e della sinistra tradizionale, del “Medvedkin”, anche in questo caso ispirato da Marker, composto da operai di Besançon attorno a Pol Cèbe e del “Dynadia” legato al Partito comunista francese.
Il cinema militante, sostiene Fofi, ha avuto senso ove, pur magari formandosi attorno a un autore centrale, ha saputo essere collettivo mantenendo una sua autonomia di ricerca rispetto ai partiti e ai partitini al di là delle vicinanze ed ove ha saputo stabilire un rapporto con i suoi destinatari rivolgendosi non solo ai “già convinti”.
Potrebbero essere definiti “militanti”, o almeno avevano l’intenzione di esserlo, anche diversi film di Werner Herzog, Pedro Pinho, Emir Kusturica, Michael Moore, opere di finzione di finzione di Paul Schrader, Scott Z. Burns, Galder Gaztelu-Urrutia e Spike Lee, o film di inchiesta di Alex Gibney, Charles Ferguson, Steven Bognar, Julia Reichert, Joshua Oppenheimer, Rithy Panh, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello, Stefano Savona, Gianfranco Pannone e Francesco Munzi.
L’ultima parte del volume si concentra su alcuni esempi di cinema militante: Dziga Vertov; Miseria dell’immaginario e necessità dell’inchiesta; Per un cinema impietoso; Il Vietnam di Chris Marker; Solanas, Getino e il cinema didattico; Frederick Wiseman; Robert Kramer; La Woodstock di Michael Wadleigh; Ettore Scola; Bellocchio & Co.; Jean-Luc Godard.
Tra contraddizioni, ternativi maldestri o addomesticati, linguaggi troppo accondiscendenti o sperimentazioni a volte fine a sé stesse, legami sinceri o “alla moda” con movimenti di lotta, il cinema militante ha una sua storia importante che vale la pena indagare, criticare e supportare anche in vista dell’oggi e del domani.
Fermo sull’idea che ai film che si vogliono politici occorre dare un giudizio politico, Fofi ha ricostruito la storia del cinema militante con spirito altrettanto militante: «Lunga vita al cinema militante! In tutte le sue forme e se mosso da finalità che non possiamo chiamare altro che “libertarie” e “socialiste”».