di Neil Novello
Giuseppe Occhiato, L’ultima erranza, Rubbettino Editore, 2023, pp. 356, 19 euro
La poesia greca e la poesia latina, tra l’Iliade omerica e l’Eneide virgiliana, espongono il topos culturale della morte senza sepoltura. È la preliminare condizione per figurare un orizzonte di destino: l’erranza tragica dell’anima nell’aldilà. A riferire delle citazioni liminari scelte da Giuseppe Occhiato nel romanzo L’ultima erranza, i versi di Omero e Virgilio sugli insepolti istituiscono l’archetipo di un’idea, una credenza utilizzata dallo scrittore calabrese per giustificare l’oltremondana peripezia di Rizieri Mercatante, il protagonista del romanzo. La sua tragedia consta dunque di un fio terribile. Esso non è tanto nell’essere morto giovane e per di più di morte violenta, caduto miseramente in una fine sanguinosa già raccontata da Occhiato nella grande epopea di “Oga Magoga” (ed. or. 2000). E non è neppure nell’essere realmente insepolto. Pure inumato nei suoi «sette palmicelli di terra» nel cimitero di Santocostantino, alla sua morte Rizieri non ha ricevuto il conforto del rituale funerario tradizionale. Ecco allora il momento tragico e la sua incolpevole erranza oltremondana. Secondo la credenza, l’errante dell’aldilà, non è più corpo vivo e non ancora anima morta, erra nell’attesa di ricevere sulla terra quanto non ha mai avuto, i cosiddetti «funerali all’antica». E dunque il pensiero magico, la credenza lo fa disperatamente, e in eterno, vagare nell’altro mondo. La sua condizione rischia di essere sospesa per sempre. Rizieri è un trapassato in attesa di trapassare.
Nel 2007, per il marchio Iride (Rubbettino) Occhiato pubblica la prima edizione dell’Ultima erranza. Nel 2023 l’opera è ristampata con l’introduzione di Emilio Giordano. Giuseppe Occhiato, il classico più ignoto della letteratura calabrese e nazionale, nel 2022 rilanciato da una nuova edizione di Oga Magoga, risale lentamente la dura china di un ingiusto anonimato culturale. E ciò soccorre per cancellare lo stigma di regionalismo letterario, e ancora peggio di meridionalismo, affibbiato alla sua opera. Al di là dell’agnizione omerico-virgiliana, L’ultima erranza, si direbbe una meravigliosa isola staccatasi proprio dall’immenso arcipelago Oga Magoga, è ambientata a Mileto, la terra di Occhiato. Racconta la storia di un nostos, quello di Filippo Donnanna. È un emigrato che ritorna al paese dopo quarant’anni di lavoro a San Candido, nell’Alto Adige. Donnanna è un’«anima in penìo», un purgante terrestre che si dibatte tra un inquieto travaglio metafisico, il problema dostoieskijano di Dio, un’amara, cupa nostalgia, l’insensatezza dell’esistenza. E ancora, una vana meditazione sull’assurdità della vita e della morte, il male nel mondo e il terrore del nulla. L’interezza della sua condizione umana è da Occhiato figurata come un «groviglio di mèrveri». Quando Donnanna cerca un amico d’infanzia, don Nazareno Gullà, vibra in lui un ulisside metafisico, un uomo alla «deriva» sia perché ha perduto il «senso di tutto» sia perché al religioso supplica una lezione di tanatologia. Donnanna domanda a don Gullà il dono di una parola salvifica, una meditazione sull’essere e sulla fine. Il suo problema filosofico, crudo, lucido e feroce, inquadra una realtà inaccettabile. Quest’anima dolente è afflitta da elucubrazioni heideggeriane e si comprende alla luce del pensiero di Leopardi. Noi siamo stati abbandonati sulla terra. E la morte non è che l’esperienza di un amaro passaggio dallo stato di abbandono all’ultimativo nulla. Su tale senso tragico governa l’indifferenza di Dio. Per rivelare a Donnanna la formula della salvezza difendendo la fede come natura del «cuore» umano nonché atto d’amore per la «religiosità popolare», cioè il vissuto della tradizione, don Gullà scommette su un effetto di sortilegio. Non dona a Donnanna una parola, indica solo una via. Essa riguarda la «storia» occulta di un’«antica carrozza da morto», una storia legata a un oggetto prezioso, che a Donnanna però dovrà servire da «lezione di vita». Da lezione e anche da mezzo per afferrare la sfuggente «verità» sul senso della vita, la fissazione che lo affligge a morte accogliendo così, in maniera traslata, la filantropica «offerta di salvezza» da parte del religioso. Nell’intenzione di don Gullà, la conoscenza della misteriosa «storia», cui il prete invita a interessarsi per ricostruirne il corso e afferrarne il senso profondo, nella ricezione da parte di Donnanna assume un valore esperienziale pedagogico. È il solo mezzo attraverso cui la crisi dell’uomo potrà risolversi in un orizzonte di redenzione. Del recupero di una fede di «cuore» e della consapevolezza culturale della «religiosità popolare», l’«antica carrozza da morto» è il simbolo salvifico. E così conoscere le azioni terrene compiute da don Natalino, il padre di Rizieri e l’artefice della «storia» legata alla «carrozza», per orientare l’«erramìa dell’anima» del figlio in altro e diverso destino, nel pensiero di don Gullà definisce la clavis hermeneutica necessaria a Donnanna per capire il proprio mondo, la propria crisi umana. E anche altro: per rovesciare in coscienza culturale lo statuto di un tormento profondo fatto di inesplicabili «demoni interiori». Attraverso l’opera di don Natalino, Donnanna e Rizieri, i due mondi dell’Ultima erranza, entrano in rotta di collisione.
Donnanna ritorna a Mileto nel 1983, la sua «indagine» autosalvifica riguarda dunque la «leggenda» dei funerali messa in scena da don Natalino nel 1963 per onorare la morte di Rizieri, tuttora senza onoranza, avvenuta nel 1943. Rizieri è ancora in «attesa» di conquistare la plenitudine dell’aldilà. La sua morte del 1943 accade esattamente vent’anni dopo il 1923, l’anno della vile e colpevole fuga di don Natalino in Argentina. Essa consegue all’aver compiuto una «barbara infamità», l’«empietà» dell’abbandono della moglie Costanza e quindi dei figli Rizieri e Chicchina. Ora l’afflitto Donnanna, riannodando il filo della «leggenda», riannoda anche la storia di un’altra afflizione, quella della coscienza di don Natalino. Nel suo personale nostos, don Natalino cerca, non meno che Donnanna, la propria «redenzione» attraverso i dovuti «funerali all’antica» per l’errante Rizieri. Morire definitivamente per lui significa transitare sul «ponte di santo Iapico», il pons probationis che ammette all’eternità. L’ultima erranza diviene quindi un congegno soteriologico. La crisi esistenziale di Donnanna è curata dalla «storia» di don Natalino, i cui «rimorsi» per l’abbandono della famiglia e la morte senza rituale tradizionale del figlio, a sua volta sono curati dall’impresa dei «funerali all’antica». Ciò vuol dire «accompagnamento, lutto, mortorio, ricònsolo», il «corteo all’antica maniera» e la «carrozza a cavalli», tutto come usava a Santocostantino nel 1943. Sono desideri tradizionali dettati in «sogno» dal figlio al padre. Un’onoranza funebre che anzitutto salva Rizieri dall’«erramìa» eterna, dal non essere ancora «morto all’intutto», e inoltre salva sia don Natalino che fa sia Donnanna che sa.
Rincorrere il filo della «piccola inchiesta privata» sulla storia dei Mercatante, per Donnanna significa rincamminare, attraverso la vicenda, nel proprio mondo interiore. Nella «leggenda» da ricostruire è occultato il senso profondo dell’origine. De Martino avrebbe parlato di antropologia religiosa. Così il nostos di Donnanna non è solo geografico, è anzitutto spirituale. E la sua anima è malata perché il suo mondo è una fine di mondo. Nell’alveo del suo stesso tramonto, attraverso la promessa autosalvifica dell’«inchiesta», Donnanna lavora a riconquistare un’ontologica alba perduta, a reintrodurre un senso nella sua anima schopenahueriana. Il caso e l’errore appaiono come le cifre dominanti della sua condizione inumana. Anche il problema teologico di Donnanna, alla fine si rivela come la mera proiezione metafisica di una crisi gnoseologica. La sua ricerca infatti gravita nell’umano perché figura un’interrogazione al «senso della vita, la sua realtà primigenia, il suo mistero». Proprio come Rizieri, caduto in un aldilà oscuro, incomprensibile, sprofondato in un emisfero di tenebra. Il «mondo sottano», certificando la fine parziale della sua vita, replica il destino di Donnanna, proteso nella colossale impresa di ricostruire, attraverso quella che è divenuta una «leggenda», il significato perduto della vita e del suo essere. Donnanna agisce dunque dall’interno di una catastrofe. Qui si inscrive anche la scissione tragica di don Natalino, realmente al confine tra il mondo non finito di Rizieri e il nuovo al suo inizio.
Donnanna, Rizieri e don Natalino identificano un’esperienza apocalittica. L’emigrante calabrese di San Candido cerca se stesso nell’anima profonda del paese, l’Argentino nel folle recupero di un passato perduto, la parte viva e irrisolta di Rizieri per capire come è fatto l’altro mondo desiderando ancora il nostro mondo. Il radicamento terrestre del trapassato è riassunto in un solo nome, la memoria incancellabile della «zingarellota» Orì, l’amore crudele e la più sinistra reminiscenza di Oga Magoga, la creatura inseguita da Rizieri anche nell’aldilà. Ma don Natalino, nella sua smania di vivificare il tempo, di regredire nel passato per conquistare il proprio presente, figura anche l’anello di congiunzione, il punto di sutura tra le due realtà di Donnanna e Rizieri. I fatti del 1963, con don Natalino, appaiono salvifici per i fatti di Rizieri del 1943 e per i fatti di Donnanna del 1983. La loro indeterminazione ontologica spiega la ricerca di una smarrita «pienezza» spirituale e destinale. Più la ricerca sulle res gestae di don Natalino entra nell’orizzonte di conoscenza di Donnanna, più il ricercatore saturnino supera i «conflitti interiori». E così sulla sua via negationis fiorisce una nuova domanda alla vita.
Nel suo ventennio di erranza, Rizieri compie un viaggio paradantesco. È lui l’homo viator che vaga in un aldilà intemporale, in un incomprensibile pre-«purgatorio». Qui la condizione stessa del vagare è foriera di incontri, parole, struggenti consapevolezze riguardo alla vita abbandonata sulla terra. Dapprima rivede, ma come in un allucinato sogno, la madre Costanza. Incontra il cugino Rinardo, in Oga Magoga l’ideatore del «geniale stratagemma» per uccidere il «minatòtaro». Parla con la «rimita» Brandoria Palaia. Ritrova il «santufemioto». Ed è visitato dalla beffata amante Mata Fara, la feroce «nimpia dei calibis» di Favazzina, discesa nel pre-«purgatorio» per vendicarsi di lui, il «tradimentoso». Ma Rizieri agogna soprattutto di rivedere l’amata Orì. Per questa solitaria anima di purgante, incontrare l’umanità dell’«oltremondo» significa ripercorrere le tracce del passato ormeggiando le vie aperte in Oga Magoga. Tutto il suo mondo di vivo è una visione che risale alla sua memoria di non vivo e non morto.
Tra don Natalino, Rizieri e le visite al camposanto, quella di Donnanna è anche un’amara interrogazione della Morte. La domanda è senza risposta. Essa però occorre per illuminare l’orizzonte ambiguo della vita, per strappare un lacerto di senso allo spettro cupo del nulla. Orfano di un figlio, all’origine dell’ansia metafisica di Donnanna vi è un trauma. È una ferita remota da cui scaturisce la sua ossessione. Essa traspare dalla ricerca di sé nell’impresa di un altro padre per un altro figlio. E per Donnanna non è solo l’ammissione di un antico dolore, è anzitutto il sovrumano tentativo di capirlo il dolore, di disancorare il lutto da sé attraverso il dolore e il lutto dell’altro. L’altro di L’ultima erranza edifica allora una ripetizione, una ricapitolazione, poiché identifica come la replica di un medesimo patimento.
Come Donnanna erra nel mondo, così Rizieri vaga nel «mondo sottano». E la loro specularità di condizione, tra umana e transumana, dal lato di Donnanna è espressa nella figura ermeneutica di don Gullà, dal lato di Rizieri nell’incontro con la vecchia e letale conoscenza di Oga Magoga, «Madama Mortazza». Il prete e il pupo Morte illuminano la via, interpretano i mondi di Donnanna e Rizieri e così tracciano vie di senso in luoghi vissuti come realtà senza senso. Figurano cioè come interpreti di un’utopia. Rizieri anela al «ponte di santo Iacopo», il confine ultimo ovvero la morte definitiva conquistata dopo i «funerali all’antica». Tende però anche all’impossibile, riabbracciare il suo disperato amore di Oga Magoga, la selvaggia Orì. È un sogno irrealizzabile al di qua del «ponte di santo Iacopo», poiché l’anima di Orì era in vita e resta in morte inafferrabile, tanto più che ora è murata in un altro mondo, il mondo proprio alle «credenze» della sua cultura zingaresca. Ancora di più, il sogno di ritrovare Orì appare irrealizzabile soprattutto dopo che Rizieri varca il «ponte di santo Iacopo», la sua unica e più realistica teleologia. E ciò perché il passaggio cancella, così come prescrive la credenza, sia la memoria sia il sentimento ereditati dalla vita sulla terra. La morte ora è la morte. Per l’indomito Rizieri, L’ultima erranza edifica allora due scenarî, uno è la via della nuda verità appresa dalla diretta testimonianza della Morte, l’altro una via di verità ma travestita da vana, falsa speranza. È la traccia, questa ultima, testimoniata dal subdolo «Puricinella». L’inganno però non ha valore destinale. Nonostante la prova, Rizieri non rincontrerà mai più Orì. La verità della Morte è «sacrosanta», la credenza posa su un mito fisso: prima i «funerali all’antica» per morire, dopo il «ponte di santo Iacopo» per essere morto.
Dinanzi alla «meraviglia e ammirazione per quell’uomo che era riuscito in una simile impresa», la fantasmagorica, eroica «storia» del funerale di don Natalino per Rizieri, la «piccola, personale inchiesta di don Filippo Donnanna», appena giunta alla sua fine accerta l’«enormità babilonica delle sue trovate». Per di più, esse si svolgono nel mese di agosto, il tempo delle «feste» e dunque di quella «religiosità popolare» cui Donnanna oppone uno scetticismo, un radicalismo accentuato dal suo desiderio di «sulità». Il duplice risarcimento, così per Donnanna come per Rizieri, non è tanto in una generica riconciliazione, il primo con il mondo, il secondo con l’«oltremondo», non per avere entrambi esaudito un inarrivabile sogno. Rizieri, con l’uscita dallo stato di non vita e di non morte certificato dal passaggio del «ponte di santo Iacopo», e Donnanna, con la conclusione della «ricerca», cioè aver colto nella leggendaria vicenda di don Natalino l’«onoranza della tradizione», richiamano un orizzonte in cui la salvezza è anzitutto una pacificata riconciliazione con il passato. Mentre Rizieri è un nostalgico cosciente, un’anima che nel «mondo sottano» lotta perché conserva la memoria del «mondo soprano», la luminosa conquista di Donnanna, la stessa cognizione chiamata a spiegare la sua vita felice nel paese, non sta nel sentimento nostalgico ma vive nel tentativo di riconquistare una coscienza culturale perduta. È questa la «lezione di vita» intuita nelle parole di don Gullà, l’insegnamento che traduce il suo lungo tormento in una finale placazione d’anima. Così anche la resa di Rizieri dinanzi alla «cittadella proibita» di Orì figura l’esperienza di un’erranza non più infinita. È quindi una condizione spirituale, la piccola redenzione di Donnanna, che non abbandona l’uomo alla perdita irrimediabile della propria presenza, ma fa balenare, se non la piena «salvezza», almeno il consolante ritrovamento di un «diverso equilibrio interiore». Il suo nome è inscritto in quella semplice «fede» nell’umile vita paesana, nella credenza e nella religiosità. E così Donnanna si è finalmente «riconciliato con la realtà di quel mondo», la minima realtà umana della propria terra, la realtà in cui più è rivelata la presenza di Dio.