di Giorgio Bona

(qui la prima parte, qui la seconda)

Rimbomba ancora nella testa la notte trascorsa al Caffè Saigon. Un’esperienza unica e indimenticabile, di quelle che ti accompagneranno per una vita.

Il nome Saigon pare sia dovuto alla battuta di un poliziotto che si rivolse a quattro ragazze che stavano fumando nonostante il divieto e aveva esclamato: ma che razza di Saigon avete combinato? Era durante la guerra vietnamita e la reputazione della città di Saigon era al massimo. Nel locale la vodka veniva lasciata da parte perché era il caffè a far da padrone con la funzione primaria di aiutare a smaltire la sbornia della notte (“Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica” di Gian Piero Piretto, Cortina, 2018). Il menu ne proponeva diverse varianti: malen’skj prostoj, bol’soj dvojnoj, bol’soj detvernoj (semplice, doppio, quadruplo).

Scoprii quella sera che bere caffè al Saigon ti faceva entrare in quella cerchia di alternativi che la milizia non perdeva di vista anche se ogni tanto prelevava qualcuno per non abbassare troppo la guardia.

La frequentazione del Saigon prevedeva compagnie tra loro differenti: Boris Grebenščikov (leader del gruppo Akvarium), Viktor Coj (Kino), Jurij Ševčuk, il poeta Evgenij Rejn e lo scrittore Sergej Dovlatov.

Il viaggio per il ritorno a Mosca è stato confortevole, il posto letto rilassante e pulito: e al primo mattino mi sveglia l’addetta della carrozza ristoro con una tazza di tè.

A Mosca, come a Leningrado, mi rendo conto che c’è un mondo in fermento. Anche a Mosca, in Piazza Puškin, il mondo giovanile si riversa con più insistenza sotto gli sguardi della milizia che osserva indifferente i gruppi sempre più numerosi, animati da un grande desiderio di evasione, davanti al monumento dedicato al padre della letteratura russa. La nuova musica esce allo scoperto e si fa sentire, viaggia sottopelle, dà emozioni forti.

Come per Viktor la vita non è altro che una favola grigia, una falsa esistenza: nello scrigno della quotidianità sovietica sono custoditi assieme un mondo cupo e il desiderio di un cambiamento celato nell’esistenza di tutti i giorni. “Come una coperta di pezze è la città nella morsa delle strade. Sulla città fluttuano delle nuvole che soffocano il cielo azzurro. Poi ancora: “Sulla mia città c’è un fumo giallo, la città ha duemila anni trascorsi sotto una stella chiamata sole”.

Stena Coj è una parete di Mosca al numero 37 nell’intersezione tra la via Arbat e Krivoarbatskij pereulok. Viene considerata uno dei simboli della capitale. Ricoperta di graffiti, la parete è interamente dedicata a Viktor Coj e alla sua band, i Kino.

In quel luogo frequentemente visitata dai fans è consuetudine lasciare una sigaretta spezzata a metà, accesa, in uno speciale posacenere vicino al muro che venne imbrattato per la prima volta il 15 agosto 1990 con la scritta Viktor è morto oggi seguito da Paçka sigaret (pacchetto di sigarette), una delle più celebri canzoni dei Kino. Altre città hanno seguito l’esempio della capitale dedicando un muro all’artista scomparso: tra queste San Pietroburgo, allora Leningrado, dove Viktor e il suo gruppo nacquero, Sebastopoli, Chabarovsk, Dnipro…

 

Sono qui a guardare un cielo sconosciuto da una finestra estranea e non vedo neppure una stella conosciuta. Ho vagato ovunque per le strade, mi sono voltato e non sono in grado di trovare le tracce. Me se hai in tasca un pacchetto di sigarette non è poi così male il giorno.

 

Migliaia di giovani che forse possiamo indentificare con il testo di una sua canzone del primo album 45, Vremja est’, a deneg net (Ho tempo ma niente denaro), dedicato ai ragazzi, per lo più proletari, ai loro tentativi di sopravvivere e alla conduzione di una vita difficile.

Viktor morì in Lettonia, nelle vicinanze di Riga, il 15 agosto 1990, dopo essersi scontrato in auto contro un autobus. La sua prematura scomparsa, a soli 28 anni, alimentò molti miti, come l’idea che si fosse suicidato o che fosse stato eliminato da servizi segreti sovietici.

Nella sua auto furono trovate cassette con registrazioni vocali e la band le utilizzò varando un album postumo, Čërnyj al’bom (L’album nero) perché la copertina era completamente di colore nero.

Tra queste canzoni rilevante è Kukuška – “Quante canzoni ancora da scrivere, dimmelo, cuculo, canta insieme a me” –, dedicata al cuculo che nell’immaginario russo rappresenta un presagio di morte. E poi ancora i versi “giacere come un sasso o brillare come una stella”? Il dialogo con l’uccello apre il grande tema della morte.

All’epoca eravamo in piena perestrojka: oggi quei giovani hanno (come me) qualche anno in più. Risuonano le parole di alcuni di loro che cantano in gruppo intorno all’accompagnamento di una chitarra “la sorte ama di più chi vive secondo le leggi altrui, chi ha nel destino una morte giovane. Non ricorda le parole ‘sì’  e ‘no’, non ricorda i ranghi e i nomi e arriva a toccare le stelle non sapendo che è un sogno.

C’è ancora un gran movimento, un desiderio di vita come allora. Il rock non è più fuorilegge ma Viktor ci ha lasciato da pochissimo. Ho l’impressione che questi miei coetanei di allora siano come i personaggi dentro le sue canzoni, persone che nutrono un netto rifiuto con la vita esterna e che provano a trovare rifugio nella vita interiore e nella contemplazione (“la sorte ama di più..”).

Tutto questo diventa un brindisi collettivo e tutti alzano il bicchiere.

Cmo grammov?

Cmo grammov…

E per dirla come Viktor, dalle parole tratte dal suo testo Khochu peremen (Voglio cambiamenti), “Non c’è nient’altro, tutto è dentro di noi”.

(3-fine)

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